Sul blog di
Gustavo Pica, un post
sul processo di unificazione europea e la scelta che abbiamo davanti. Il professore
reagisce ad un
articolo per il Corriere della Sera di Gianni Bulgari, nel quale l’imprenditore
e gioielliere invitava a scegliere tra Euro ed Europa unificata, non potendo
avere entrambi (invita, quindi, a scegliere di salvare un figlio per non
perderli entrambi).
Il punto di
convergenza è nell’ammettere che l’Unione Politica non è “a portata di mano”,
ed anzi sembra allontanarsi per effetto delle reazioni nazionalistiche che la
crisi alimenta; addirittura in Inghilterra, Spagna e Italia (ma anche altrove)
si manifestano anche internamente spinte separatiste preesistenti ma che sono
ravvivate, come una brace, dal vento della crescente difficoltà, in particolare
della classe media-inferiore autonoma. Aspettarsi che in pochi anni,
compatibili con la tenuta sociale e politica dei paesi “periferici”, si possano
introdurre massivi trasferimenti, tassazione europea, governo condiviso politicamente
responsabile, welfare comune, condivisione dei rischi finanziari pubblici e
privati (come è negli USA) è una pericolosa “illusione”, secondo Piga, “capace
di ritardare la ricerca di una soluzione concreta ai problemi”.
Questo
coraggioso modo di guardare in faccia il problema porta Piga a ricordare, come
Bulgari, che gli Stati Uniti d’America hanno impiegato 150 anni per raggiungere
l’esito attuale. Sino a quella data (cioè sino agli anni trenta-quaranta) non
avevano neppure una Banca Centrale e non avevano un vero Bilancio Federale.
Giova ricordare, e bene fa il professore, che gli Stati approssimativamente
Federati uno ad uno, con complessi trattati bilaterali e comuni, del 1700 e
poi, via via del 1800 erano separati da abissi di differenze culturali,
antropologiche (in relazione alla prevalente popolazione di immigrazione delle
diverse aree) ed economiche. Gli Stati Uniti decisero di avere il dollaro (6
luglio 1785, solo con Lincoln emesso dal Governo Federale) “ben prima di essere
uniti politicamente, ben prima di essere ‘mobili’ culturalmente e
geograficamente, perché il simbolo della sovranità doveva – malgrado le
evidenti rigidità che avrebbe comportato – forzare il dialogo tra diversi”.
Secondo Piga, e questo è ovviamente un giudizio impegnativo, l’Europa di oggi
non è sotto questo profilo molto diversa dagli Stati Uniti di allora.
Il lunghissimo processo
che si avvia con il dollaro legato all’oro (poi anche all’argento) ed emesso in
modo decentrato nel 1785 e concluso, più o meno, negli anni trenta del
novecento, è stato difficile, ed anzi “ebbe spesso risvolti drammatici”. Richiese,
come ricorda Piga opportunamente, sia l’invenzione del treno (cioè un salto
quantico della mobilità interna di uomini e soprattutto merci) sia due guerre:
la guerra civile negli anni sessanta dell’ottocento con i suoi 700.000 morti
totali (su una popolazione di ca. 30 milioni) e la prima guerra mondiale che
allargò la percezione di sé degli americani.
Ma richiese, e questo è sia importante sia interessante,
anche un grande leader come Franklin Delano Roosvelt che riuscì, nel mezzo
della drammatica crisi economica degli anni trenta, non senza enormi difficoltà
e qualche esitazione, a ottenere la delega da parte degli Stati a operare con
il Bilancio Federale (che esplose). Quella che Piga chiama “la delega a
decidere per tutti gli Stati”.
Quella che è, in
effetti, la comprensione della necessità di una solidarietà ben intesa, madre del progetto politico nazionalista di
scala maggiore.
A questo punto,
il prof. Piga fa un esercizio di fantapolitica estremamente arduo e si chiede
che sarebbe successo se gli Stati americani avessero, nel corso del settecento,
o dell’ottocento, rinunciato alla moneta unica, cominciando ad emettere monete sovrane
a diversa denominazione. Secondo lui ora “saremmo qui a chiederci sui libri di
storia perché quel progetto di Unione è fallito”.
Di qui il suo auspicio:
“Possiamo salvare i due figli, e risparmiarci l’isolamento a cui ci
destinerebbe la rottura dell’euro, con l’unica arma a disposizione: non
l’unione politica, ma la fine dell’austerità che condanna i più deboli e meno
protetti al dolore ed alla sofferenza”. Dunque la scelta, per lui, non è sull’Euro
(con puntatina polemica su Claudio Borghi, Alberto Bagnai e Piga) ma sui
confini territoriali che vogliamo. Se vogliamo confinare con nord africa,
Turchia, Russia o con Francia, Svizzera, Austria (e Nord Africa ovviamente).
Cioè se vogliamo l’Italia o l’Europa. Di chi vogliamo essere cittadini.
A questo punto,
entro questa scelta identitaria, il cuore vola oltre l’ostacolo e il professore
in economia Piga cambia tono: con vibrante slancio retorico richiama il potere
dei cittadini di determinare le scelte e cambiare quelle che non condividono
(nel caso, evidentemente, la gestione della crisi).
Non è
chiarissimo come sono connessi tra loro questo auspicio finale di avviare
politiche espansive, necessarie per ridefinire l’economia europea e allentare
la crisi, e lo scetticismo sull’introduzione di strumenti di mutualizzazione
con il quale parte il pezzo, insieme a rifiuto della risposta solo nazionale.
Qualunque sia il
meccanismo tecnico-economico che ha in mente il prof. Piga, commentare un pezzo
così ricco e lacerato non è facile, l’esempio scelto è denso di problematiche
storiche e di differenze importanti, però
è complessivamente ben scelto. Perché può aiutare ad illuminare per
differenza e somiglianza il nostro specifico dilemma. Siamo di fronte alla
necessità di superare, ed urgentemente, gli “egoismi” nazionali, per
comprendere, tutti insieme, che la solidarietà è nel <nostro interesse
comune> cioè anche nell'interesse di quello che ora, in questa congiuntura e
condizione, è il più forte (naturalmente nell'interesse <ben inteso> e in
prospettiva medio-lunga, come ci
ricorda Claus Offe). Una simile assunzione di responsabilità in comune
sarebbe effettivamente risolutiva; consentendo di salvare sia il grande
progetto unitario europeo sia lo strumento della moneta unica. La moneta
diventerebbe, anzi, strumento del progetto di unificazione. Tuttavia oggi la moneta è, in sostanza, un’arma
(nella mani di chi resta da interrogare, per quali fini è già più chiaro).
E’ probabilmente
vero che sbaglia chi concentra l'attenzione sullo strumento, senza guardare la
mano che lo brandisce (non è l’errore degli studiosi prima citati, anzi). E
anche che sbaglia chi pensa ad una volontà unica, quasi ad un macrosoggetto (la
“Germania”, ad esempio).
A me pare che il
“sistema d'azione” (vecchia ed utile categoria di Crozier) plurinazionale all’opera
esprima in effetti sia una logica di stretto interesse nazionalistico (che per semplificare mentalmente pensiamo come “egoismo”)
sia, ed insieme, una logica di stretto interesse di parte (cioè di un ambiente internazionale culturalmente coeso
fatto di funzionari, professionisti e aziende non solo finanziarie) che è
altamente plurale, si tratta -mi pare- di un intero mondo-di-vita (vecchia
categoria habermasiana). Di qui l’invito, che altamente condivido, di Offe (ma
anche di Habermas e su questo di Streeck) a ripensare la politica su linee
sovranazionali, riconoscendo gli interessi e le identità e volontà simili -e
quelle diverse- attraverso i confini statuali (in altre parole, secondo linee di
classe, di interesse fondamentale o strutturali).
Si potrebbe
dire, seguendo la traccia lasciata dal post che commentiamo, che la scelta è
tra “venire alle mani” con quel mondo-di-vita (cosa molto più difficile di
quanto possa sembrare, perché non è solo questione di argomenti e di
razionalità, neppure solo di interessi) o accettare di passare per tensioni,
rivolte, forse guerre; oppure cercare una strada più lunga (sacrificando uno
dei figli, cioè l’Euro) che, certo, non garantisce l'approdo.
Tornando al
pezzo di Piga però si può dire che il suo esempio, il processo di unificazione
americano, è contemporaneamente ben scelto e tragico. I cittadini americani,
nei 150 anni (oltre tre generazioni) hanno avuto due guerre, infiniti conflitti
sociali, giuridici, economici, umani. Hanno attraversato tensioni gigantesche.
Una enorme sofferenza.
C’è da restare
incerti. Chi pensa che almeno togliere le armi dalle mani sia un utile
passaggio intermedio potrebbe non avere torto.
Ma qualunque sia la scelta (che in fondo è più tattica che strategica), pro o
contro Euro, è sull’interrogazione, ed il disvelamento, degli interessi che si
addensano intorno alle etichette nazionali, ma in effetti sono legati più ad un
sistema-di-vita internazionale comune che alle nazioni, che c’è il lavoro
politico da fare e la costruzione della nazione comune. Non avremo mai una
nazione comune se non abbiamo una politica comune, ed una comune sfera
pubblica.
Ma questa si
forma sulle agende, sui conflitti, sulle divergenze e convergenze di interesse
che devono progressivamente attraversare, e poi dissolvere, le frontiere.
Probabilmente
avremo presto il nostro treno (rappresentato dalle tecnologie di traduzione
simultanea in mobilità), bisognerà farne
buon uso.
Ho smesso da tempo di seguire Piga. E' un muro di gomma: vede perfettamente quali sono le incongruenze del sistema, le sue analisi sono spesso pertinenti (anche se - almeno fino a qualche tempo fa - trascurano l'aspetto altrettanto cruciale della democrazia), ma al momento di saltare alla conclusione si ferma e preferisce lanciare il cuore oltre l'ostacolo. Oltre un certo limite, gli slanci retorici diventano stucchevoli, e dopo essermene sorbito parecchi in risposta a miei commenti ho preferito lasciarlo ai suoi psicodrammi, avendone già abbastanza dei miei.
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