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giovedì 3 aprile 2014

Ragionando intorno all’appello di Zagrebelsky: decisionalità e razionalità


L’appello di Libertà e Giustizia, pur nei suoi toni aspri che tante reazioni hanno suscitato è per me nella sostanza condivisibile. La vicenda del Governo Renzi è troppo giovane per discernere con sicurezza la tattica dalla strategia, le necessità dalle volontà; tuttavia una direzione sembra si possa intravedere ed è il desiderio della semplificazione, della velocizzazione, della libertà.
Si tratta di un comprensibile desiderio, fondato in un lungo dolore e in un attrito subito per decenni dalle forze di élite come dalla parte attiva della società civile. Sulla percezione che non si riesce più a funzionare in modo accettabile. Che, come scrivevo, <non abbiamo più parole adatte e pensieri fecondi. Dobbiamo reinventarci>.
Questa percezione, che ovviamente condivido, ispira la larga etichetta delle <riforme>.


Questa bandiera è stata presa con vigore nelle mani di Matteo Renzi e del suo gruppo dirigente, correttamente cosciente di trovarsi su un crinale. Su questo programma (che, al momento è più una direzione) sono state condensate, però, alcune forze eterogenee. A me pare che si possa provare a dire (correndo il rischio della parola anticipata) che è soprattutto la direzione generale, l'idea sottostante, che è problematica. Quella, cioè, di ovviare alla caduta di consenso, e quindi di legittimità democratica, che viviamo con un surplus di potere formale. Cioè, alla fine, con dispositivi tecnico-giuridici rivolti a consentire la decisionalità, libera dalla ricerca del consenso.
Se questa è l’idea centrale si tratta di un'idea pericolosa.
Ora, intendiamoci, non è un’idea che nuota nel vuoto; ha delle ragioni, e reagisce a dei problemi, ma è sostanzialmente sulla linea scelta nel ventennio trascorso e che ha generato (quale effetto collaterale non voluto) il set di problemi in cui ci dibattiamo. Ci torno tra poco in modo più sistematico, ma mi preme prima sottolineare che non intendo la “legittimità democratica” come questione di “bianco/nero”. La penso più secondo il modello binario habermasiano: una legittimità formale (che è rispetto di procedure istituite e leggi) inserita nell’alveo di una rete di flussi di comunicazione e volontà aperta e non-regolata, plurale. Ma la qualità delle procedure (la loro apertura ed inclusività) e delle tecnostrutture che le esercitano diventa decisiva perché la legittimità di grado superiore si forma in questa interazione. Detto in altro modo, la democrazia è discussione, scambio di informazioni, lotta di argomenti, conflitto regolato, razionalità, deliberazione.

Se l’obiettivo è riguadagnare una “decisionalità” libera, si trova qui il problema. Proprio in questa idea, perché “la decisione” è un evento che nulla ha a che fare, in senso proprio, con la democrazia non ne è un attributo caratterizzante, nel senso che si può decidere tutto essendo al minimo di democrazia come in numerosi esempi della prima metà del novecento.
Ciò detto (sul piano astratto), nel merito mi pare si possa aggiungere che la perdita di consenso che vediamo all’opera da alcuni decenni in tutti i paesi occidentali deriva, più profondamente, dall'esatta percezione che la democrazia non ha ormai da decidere nulla che conta. Che, alla fine, si decide tutto in organismi sovranazionali schermati dalla rete di discorsi e volontà che circola a livello nazionale o locale. E' una sorta di contrappasso: per recuperare operatività sono state spostate quante più decisioni possibili al riparo di muraglioni difensivi, ma questi (con l’evidenza imponente della loro arcigna volontà di esclusione) trasmettono ai cittadini, ed alle loro organizzazioni, un messaggio di irrilevanza che, correttamente, è ribaltato in dissenso. Del resto se tutto mi parla della mia inutilità perché dovrei fornirti il mio consenso? In altre parole, l’ipotesi che si intravede va in direzione del danno, non della cura.
A me pare che in questo progetto (se è tale) sia all’opera qualcosa che assomiglia ad un riflesso condizionato reso operativo da un effetto prossemico: sono venti anni (almeno) che il neoliberismo tenta di neutralizzare la democrazia (popolare, per rifugiarsi in una democrazia formale depotenziata) spostando i luoghi del potere e delle decisioni fuori della portata del suo braccio. E’, in Italia, andata in questa direzione la riforma elettorale, mutilata dalla Corte Costituzionale, del “Porcellum”. L’insieme delle proposte sul tavolo (ed in primis alcuni elementi dell’Italicum) sembra disegnarsi in questa continuità: nessuno discuta e disturbi il decisore. Questo è il riflesso condizionato: rendersi più coerenti al progetto internazionale di depotenziamento democratico. L'effetto prossemico, che rende urgente completare il percorso, è quello indotto dai “plebei” che irrompono sulla scena tramite il movimento di Grillo o rumoreggiano nelle varie rivolte dei Forconi. Il corpaccio dell'establishment (nel quale per ora Renzi è ancora esterno) reagisce cercando di farsi un poco più in là. I due movimenti si rafforzano.
Una delle cose che mi inquietano è il modo di evocare il momento catartico della “decisione”. E' come un'espressione magica.
Che viene di buono dal decidere in un attimo, senza avere adeguate informazioni, senza un’articolazione solida del tema, senza una comprensione delle diverse implicazioni? Si pensa davvero che sia solo questione di esercitare qualche sapere tecnico sacerdotale, per risolvere questi deficit? Non è così, c’è una sterminata letteratura (soprattutto, è ironico, di parte liberale) su questo tema: discutere, incontrare e anche scontrarsi con le diverse soggettività, con i diversi interessi, serve a migliorare/aumentare le informazioni, articolare e focalizzare il tema, comprendere. In questo (anche) è l’intelligenza della democrazia.

Allora la domanda è: come si governano i sistemi complessi? Quando è presente elevata frammentazione e divergenza di idee, volontà, interessi?

La nostra tradizione occidentale (non così quella orientale) ha elaborato nell’arco di due millenni una sofisticata risposta; che muove dalla mobilitazione delle forze e dalla raffinazione dei temi e delle volontà, dalla loro trasformazione attraverso un processo di aggregazione ed addensamento insieme a focalizzazione e definizione. La decisione democratica è solo l’ultimo, sempre provvisorio, evento al culmine di questa dinamica sociale e quindi politica.
Fuoriuscire da questa tradizione, per accedere a forme di totalitarismo (la parola è pesante, ma anche qui è questione di gradi) in nome della governabilità è quel che mi pare sia il rischio implicato in queste azioni. L’antiparlamentarismo cui riferisce il suo dire Zagrebelky nell’intervento di oggi su La Repubblica, l’affidamento ad un solo decisore, l’umiliazione ed emarginazione delle minoranze, delle istanze di controllo (vissute come fastidiose perdite di tempo) è il rischio.

Più profondamente mi pare che questo rischio si leghi, tragga la sua forza, dagli effetti di quella che mi sembra una trasformazione di lunghissima durata, da un processo di disancoramento che nel cruciale passaggio di millennio ha preso una maggiore velocità. L’uomo nasce incapsulato nei rapporti sociali che trova pronti alla sua nascita, da essi è costituito come umano. Ma questi rapporti lo proteggono mentre lo limitano, trattengono; ed impegnano consistenti energie. In particolare generano indisponibilità. Lo abbiamo visto ieri con la lettura del libro di Le Goff, ma resta vasta in proposito la letteratura antropologica e sociologica soprattutto novecentesca: l’indisponibilità a sviluppare azioni e volontà oltre i vincoli sociali istituiti è il fondamento della riflessione (cioè dell’autoriflessione) morale. E delle religioni.
La morale e le religioni inducono vincoli, ma generano socialità e aprono possibilità di cooperazione. Sono colossali economizzatori di forza. Consentono di coordinare i piani d’azione individuali senza ricorrere alla coercizione e disperdere energie nei conseguenti distruttivi conflitti. In questo radica la civilizzazione.
Tutto ciò è ovvio, l’ho solo richiamato in modo stilizzato per fornire il corretto sfondo a ciò che mi pare sia da evidenziare: il processo di “secolarizzazione” (sul quale quando le forze mi soccorreranno leggeremo insieme il bellissimo libro di Taylor) spezza questa camicia e determina un’immensa mobilitazione delle energie tenute in riserva. Ma nel farlo mette al freddo l’uomo che non ha più la protezione del simile e del vicino.
L’economia, scienza costituita insieme alla rivoluzione industriale ed alla secolarizzazione nel passaggio del seicento/ottocento, è questo “venire fuori”. Esprime una logica intrinseca di individualizzazione e autonomizzazione che resta indisponibile a qualsiasi vincolo sociale. Resta indisponibile all’ascolto di istanze di razionalità non strumentale. In effetti resta indisponibile alla democrazia (come vedevano bene i teorici della decisione americani negli anni cinquanta e sessanta, pur non traendo la conclusione che sarà resa operativa a partire dai novanta).
La rivoluzione liberale del passaggio di millennio è il segno di questa volontà e di questa istanza di razionalizzazione. L’economia, si potrebbe dire, cerca di “venire fuori” dai rapporti sociali che, pure, la costituiscono.
Si tratta di un desiderio intrinsecamente impossibile, ma molto forte. Si tratta del sogno di uscire dalla tutela della morale (e quindi della politica), per accedere ad un terreno livellato nel quale la geometrica potenza delle organizzazioni possa dispiegare la sua energia. L’uomo, reso solo, deve contribuire a questa energia o esserne travolto.
Questa volontà è in qualche modo parassitata dalla volontà di sfruttamento delle organizzazioni che si alzano sul livello locale. Il processo è stato lungo e ne abbiamo già parlato a gennaio: lo sviluppo tecnologico e le innovazioni normative hanno reso possibile, direi dagli anni settanta del secolo scorso, sottrarsi alla lotta sociale ed estrarre uomini ed organizzazioni in luoghi astratti, pienamente razionalizzati, a basso attrito nei quali dispiegare la potenza della logica strumentale. Driver sono stati i flussi finanziari liberalizzati e le grandi imprese ad essi legati.
Alla fine questa forma di capitalismo “è andato in orbita” nei due decenni a cavallo del millennio. Uno degli effetti non voluti di questa prevalenza dei flussi del denaro, senza i vincoli del potere sociale, è l’esasperarsi della ampiezza dei fenomeni di boom/bust (come quello in cui oggi viviamo).

Propongo di guardare a questo passaggio silenzioso (perché ad ora non ha provocato sommovimenti politici) come un mutamento epocale al pari del 1789, del 1848, del 1968. Un passaggio di civiltà.


Come scrivevo nel post sulla Crisi di razionalità, se si riconosce davvero che “decisione” e “potere” sono sempre indissolubilmente uniti, e dunque che il processo decisionale non è un luogo “tecnico”, allora si vede che abbiamo qui un’implicazione decisiva.
Siamo al centro di una rottura di razionalità che va compresa. Non si può pensare che sia solo questione di eliminare qualche attore e qualche fastidio.


Vorrei terminare riprendendo la chiusa di Zagrebelky: <ci sarebbe molto di serio da fare>.

4 commenti:

  1. Il post ci chiede perché il popolo dovrebbe partecipare alla politica se il suo voto non conta nulla.
    In questi anni di prima e seconda repubblica si sono avuti molti dibattitti. Molti dei professori che hanno firmato quell'appello hanno anche cambiato idea nel frattempo su alcuni punti fondamentali.
    Questi confronti non hanno portato a nessuna riforma determinante e siamo abbastanza concordi di vivere in un paese molto conservatore che non ha fatto scelte importanti.
    Fra i paesi malati dell'occidente siamo fra i più in crisi.
    Alta disoccupazione, alto debito pubblico, crescita economica inferiore alla media europea, poca produttività, mancanza di prospettive e di fiducia.
    Su questo ultimo punto credo, anche se questa è un'opinione personale, anche meno BIL rispetto ad altri paesi cosiddetti sviluppati.
    Non è mai emersa una leadership in grado di imprimere un cambiamento effettivo a questo trend. Anche chi come Berlusconi ha avuto maggioranze importanti non è riuscito nell'intento.
    Si da la colpa di questo, e io credo a ragione, ad una sorta di palude in cui affonda ogni progetto. Le procedure parlamentari, i meandri della burocrazia, il populismo e le sue piazze virtuali o meno, molto facilmente manipolabili che rappresentano sempre poca cosa rispetto alla maggioranza dei cittadini.
    Questa debolezza intrinseca ci porta inevitabilmente ad essere eterodiretti.
    Quali sono gli organismi sovranazionali che decidono sopra le nostre teste?
    La leadership europea tedesca?
    Chi detiene le principali leve economiche (il mercato in senso lato)?
    Se noi non siamo in grado di esprimere una politica parlamentare che decide, come potrebbe essere altrimenti. Quando una leadership prova ad esprimere un progetto che va in una direzione concreta si levano i lamenti di chi ne vede i limiti e indica un "meglio" che guarda caso non può ottenere una maggioranza certa e in ogni caso non si è mai voluto - potuto fare.

    Infine quanto sarebbe o sarebbe stato disastroso tornare a votare con una legge proporzionale che costringerebbe ad un nuovo governo d'inciucio oppure votare per la formazione dei consigli provinciali o ancora per un senato della repubblica in un quadro di bicameralismo perfetto?

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  2. Mi sembra che tu (possiamo credo darcelo) ponga molte domande alle quali dare risposta compiuta non è facile. Io credo che ci sia una fondamentale divergenza tra il nostro sentire: non penso che la causa centrale (anche se si tratta di un termine molto problematico, in quando nei fatti sociali parlare di centro e periferia è improprio) sia la "palude", la difficoltà a decidere. Credo che noi siamo dentro un enorme processo di dislocazione della decisionalità. Riprendendo dagli "organismi decisionali" che sovrastano le sfere pubbliche e decisionali nazionali, il riferimento è soprattutto al ruolo delle agenzia (come il WTO, di gran lunga il più importante) che sottraggono sfere di decisione e ambiti di sovranità alla dinamica politica nazionale e anche regionale (in senso sovranazionale). Gli effetti di questa dislocazione, avviata dagli anni novanta, che ha mutato segno anche agli organismi preesistenti nati dalla guerra (il FMI, ad esempio) sono per me giganteschi. Uno degli effetti è di demotivazione, depotenziamento, smobilitazione della politica nazionale. Questa non è l'unica dinamica in campo, ma io a vedo come quella di maggior momento.
    Intendiamoci, non voglio articolare un discorso nazionalista, ma questo per me è il problema del nostro tempo. Le strade per affrontarlo possono essere il recupero di una sfera internazionale politica (e di una sfera pubblica internazionale) o la ritirata (cioè la frammentazione e l'innalzamento di nuove barriere, con il possibile e già visto tragico esito finale).
    Dunque il problema non è la leadership europea tedesca, ma casomai i limiti stretti entro i quali anche la leadership politica di berlino intende le sue possibilità di azione. Usando uno slogan abusato, il problema è la "dittatura dei mercati", anche se il termine è ancora troppo determinato. Cioè il danno viene dall'eccessiva concentrazione di potere reale e troppo netta e veloce trasposizione di potere economico in politico (soprattutto se si tratta di potere politico "muto").

    Sinceramente, poi la chiusa, con la qualifica "governo d'inciucio" per un eventuale governo di coalizione analogo a quello che oggi governa in Germania, mi pare eccessiva. Io considerei disastroso avere un governo con il 100% del potere espresso dal 20% dei cittadini. Questa è la via attraverso la quale si arriva ad avere al governo dei demagoghi. E per una ragione strutturale sulla quale ti invito a riflettere un attimo: imporre meccanismi di alterazione della rappresentanza con lo scopo di garantire che la maggioranza relativa si traduca sempre in assoluta, quando la ragione della frammentazione del voto è sociale e strutturale, incita a prendere posizioni estreme in grado di polarizzare il 20% necessario degli aventi diritto sapendo che poi il meccanismo consentirà l'accesso alla totalità del potere. In un normale sistema gi imprenditori politici ed i partiti, sapendo che poi devono raggiungere la maggioranza del consenso (anche per via di coalizioni con simili) puntano a posizioni equilibrate. Questa regola, premia andare agli estremi. Gli effetti potrebbero essere di avere un ballottaggio tra un partito "responsabile" ed uno "populista estremo". A quel punto avremo quel che sembrerà a molti un referendum sulla casta. Gli esiti potrebbero essere sgraditi.

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  3. Concordo con te che la politica deve recuperare un suo ruolo importante sia in Italia che in Europa. Resto convinto che per ottenere questo risultato occorra rafforzare la decisionalità di questa politica. E' evidente che nel fare questo si debba evitare che piccole maggioranze decidano. La legge elettorale approvata alla Camera prevede un doppio turno se la coalizione non arriva al 37%. Il doppio turno consente anche a coloro che hanno perso il loro partito nel primo turno di esercitare un'opzione e questo dovrebbe garantire il prevalere del candidato "più equilibrato" e non di quello più estremista. D'altro canto nella società attuale ci sono tre aspetti fondamentali che stanno diventando determinanti in ogni campo e che non possiamo ignorare: la gestione della densità dell'informazione, la velocità e la complessità (interdipendenza dei sistemi). Una politica come quella che abbiamo avuto finora non è funzionale a nessuno di questi tre aspetti.
    Probabilmente, come dici tu, con questo nuovo sistema elettorale potremo avere la sorpresa di vedere al ballottaggio PD e 5 Stelle. Che cosa c'è di male? Io temo di più un immobilismo senza risposte. Stare fermi è peggio che muoversi male ed in ogni caso ci assumeremo la responsabilità delle nostre scelte. Io non ho timori per la tenuta della democrazia. Temo piuttosto l'implosione del sistema affogato nell'incapacità di decidere.

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  4. indubbiamente hai ragione a temere la dittatura (al ribasso) delle minoranze chiassose. E' uno dei rischi simmetrici, diciamo Scilla, a fronte della quale è il Cariddi della dittatura della maggioranza (magari artificiale, cioè "legale"). Ora, navigare tra i due estremi non è semplice ed è questione sia di regole (sul quale tema io temo l'eccesso di semplificazione) sia di dinamica politica e discorsiva (su cui ho timori, ma credo si possa difendere un punto razionale).
    Ovviamente stare fermi non si può, e decidere tra questi estremi è sempre un esercizio di prova ed errore.

    PS. Il tuo richiamo all'interdipendenza e la autoprogrammazione dei sistemi mi ricorda la polemica anni settanta-ottanta tra niklas Luhman e jurgen habermas nella quale ognuno dei due aveva una parte di ragione (infatti habermas incorpora il "sistema" nel suo schema). Magari un giorno ne scrivo (ma sono cose difficili e temo di annoiare tutti a morte). ;)

    saluti

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