Pagine

domenica 6 aprile 2014

Touchstone, “Uscire o non uscire, questo è il problema (dell’Euro)”

  
Su Officine Democratiche, sito dell’omonima associazione, è stato pubblicato un Post di Touchstone (pseudonimo di qualcuno dei molti autori dell’associazione) sul contesto nel quale si sta ponendo la scelta che ormai si profila abbastanza chiaramente all’orizzonte delle democrazie europee: lasciar cadere il progetto di unificazione monetaria o rilanciarlo? Un paio di giorni fa avevamo commentato in proposito un intervento di Gustavo Piga che alla fine propendeva per la seconda opzione, senza nascondere le straordinarie difficoltà del percorso (evocando addirittura l’esperienza americana, durata 150 anni di continue tensioni e crisi e due guerre, di cui una esattamente determinata dalle frizioni tra i sistemi economici del nord e del sud –anche se ce la raccontano come una questione di liberare gli schiavi-).


Touchstone riassume la questione, dal punto di vista economico (che, come è ovvio, non è l’unico), in questo modo:
-          l’impossibilità di coprire le esigenze di cassa espandendo il credito (“stampando moneta”) o la base monetaria tramite l’azione di una Banca Centrale sovrana (come fa la FED, la BoE o la BoJ), per la buona ragione che non c’è più, obbliga i singoli Stati che avessero bisogno di moneta per pagare le merci che importano (in misura maggiore delle esportazioni) a ricorrere ai prestiti;
-          in un sistema simile (fortemente voluto dalla cultura della Bundesbank), entro il sistema europeo finanziariamente interconnesso, se un sistema nazionale è in deficit deve farsi prestare il denaro da chi è in credito. Ed è in credito chi esporta più di quanto importa. Semplice contabilità elementare.
-          Touchstone, perfidamente, la mette in un altro modo “i soldi li presta il venditore, altrimenti non potrebbe vendere le proprie merci perché il compratore non avrebbe i soldi per pagarle”. 
-          Dunque, “in termini tecnici si dice che il disavanzo della bilancia commerciale si traduce in un aumento del debito estero (privato - cioè delle banche o pubblico -cioè dello Stato).”

-          In questo modo nei primi anni dell’Euro si sono accumulati centinaia di miliardi di debiti privati e crediti privati. Rispettivamente a carico dei consumatori (e delle banche) spagnole, irlandesi, portoghesi, italiane e delle banche (per loro tramite i risparmiatori) tedeschi, olandesi, francesi.

-          Nel 2008 però è arrivato lo shock noto e le banche in credito hanno preso paura. Quindi “hanno smesso di finanziare anzi hanno preteso il rientro”.
-          Qui nasce un gran problema: “i paesi indebitati non possono stampare Euro per pagare i debiti e spendono in importazioni più di quanto guadagnano in esportazioni, quindi non generano Euro in eccesso. Quindi non possono rimborsare i debiti”.

-          Soluzione. I soldi li presta la BCE alle banche nazionali che li useranno per ricomprarsi i debiti. Quindi le banche spagnole invece di avere debiti con le banche tedesche li avranno con la BCE (e lo Stato italiano li avrà con le banche italiane che a loro volta sono indebitate con la BCE)”. 
-          Ma qui entra in gioco la cultura della Bundesbank. La paura dell’inflazione (per me coltivata ad arte) e la proibizione di creare moneta, espandendo la base monetaria. Allora la BCE deve chiedere i soldi in prestito: alla Bundesbank.

Abbiamo trasformato in questo modo una piramide di debiti e crediti privati (una questione tra risparmiatori avidi e prestatori ingenui, con intermediari finanziari cinici) in un problema di debiti e crediti pubblici. In realtà è anche peggio: in una questione geopolitica. Quelle per le quali, di solito, scoppiavano le guerre.

Come si esce da questo disastro prima di arrivare ad esiti catastrofici? Bisogna riportare in attivo il saldo della bilancia commerciale. Qui arriva il veramente difficile, perché è evidente che non si possono avere tutti i saldi contemporaneamente in attivo (chi resta passivo? Marte?). Dimenticando questo dettaglio alcuni decisori (ad esempio Monti che si vantava in America di aver “distrutto la domanda interna italiana”) hanno pensato che la cosa da fare era ridurre le importazioni.
Ma cosa significa? Semplice: gli italiani devono comprare di meno. Cioè devono avere meno soldi in tasca. E come? Naturalmente aumentando i disoccupati e abbassando così i salari reali.

Ma, ragionando secondo questa impostazione, il punto è di creare un saldo positivo tra importazioni ed esportazioni, dunque è necessario aumentare anche le esportazioni. Cioè competere e sottrarre quote di mercato ai concorrenti (che, nella fattispecie sarebbero proprio i “partner europei”, ma va bene). Allora continua Touchstone ricordando che, appunto, la riduzione dei salari (che, come vedremo, sono già del 30% inferiori a quelli tedeschi) è una delle strade per aumentare la competitività. L’altra sarebbe di aumentare il valore aggiunto delle produzioni (cosa assai ardua in fase di debolezza della domanda).

Dunque se il problema è di fare in modo che le auto italiane si vendano al posto delle tedesche (o i pannelli solari italiani al posto dei cinesi, i computer al posto degli americani) un modo è uscire dall’Euro. Infatti “se tornassimo alla Lira potremmo svalutare del 15%, più o meno il gap cumulato nel costo del lavoro con la Germania, rendendo il nostro costo del lavoro più economico di un eguale ammontare”.

Invece, la posizione opposta punta su “riforme strutturali del mercato del lavoro”, contando che possano consentire di ridurre il salario dei lavoratori e, nel tempo, riallocare quote di lavoratori da industrie non competitive ad industrie più produttive.
Recentemente è stato pubblicato un Paper che stima in 25 anni il tempo necessario per questo riaggiustamento strutturale per queste vie. E’ una strada manifestamente improponibile, molto prima arriveranno crisi sociali distruttive, rivolte, rivoluzioni e probabilmente guerre a ridefinire i termini della questione.

Un’altra strada? Touchstone ne indica una:
-          “basterebbe che il processo di aggiustamento fosse diviso in tre terzi. Il primo lo fanno i paesi del sud abbassando il loro costo del lavoro, il secondo lo fanno i paesi in surplus aumentando il proprio costo del lavoro di un uguale importo ed il terzo lo fa l’Euro svalutandosi per un importo simile”.

Questa soluzione, come esplicita lo stesso autore, richiede che il mondo (e intanto l’Unione Europea) si comporti come una “comunità solidale”.
E’ del tutto evidente che non lo è. La Germania (e i suoi partner del nord) esprime una sorta di imperialismo senza armi. Quel che si sa fatica a non identificare come la prosecuzione (anche non volontaria) del programma di dominazione europea (ed in realtà mondiale) che ha portato a due guerre. Gli stessi USA non giocano così. Però, forse, sono più coscienti dei rischi.



Questa è la chiusa dell’autore: la condivido.
Siamo quindi in una nave in tempesta che sta attraversando una zona di bonaccia all’occhio del ciclone. Tenersi forte o cercare le scialuppe di salvataggio.


1 commento: