Su Officine Democratiche, sito dell’omonima
associazione, è stato pubblicato un Post
di Touchstone (pseudonimo di qualcuno dei molti autori dell’associazione) sul
contesto nel quale si sta ponendo la scelta che ormai si profila abbastanza chiaramente
all’orizzonte delle democrazie europee:
lasciar cadere il progetto di unificazione monetaria o rilanciarlo? Un paio
di giorni fa avevamo commentato in proposito un intervento
di Gustavo Piga che alla fine propendeva per la seconda opzione, senza nascondere
le straordinarie difficoltà del percorso (evocando addirittura l’esperienza
americana, durata 150 anni di continue tensioni e crisi e due guerre, di cui
una esattamente determinata dalle frizioni tra i sistemi economici del nord e
del sud –anche se ce la raccontano come una questione di liberare gli schiavi-).
Touchstone
riassume la questione, dal punto di vista
economico (che, come è ovvio, non è l’unico), in questo modo:
-
l’impossibilità di coprire le esigenze di cassa
espandendo il credito (“stampando moneta”) o la base monetaria tramite l’azione
di una Banca Centrale sovrana (come fa la FED , la
BoE o la BoJ ),
per la buona ragione che non c’è più, obbliga i singoli Stati che avessero
bisogno di moneta per pagare le merci che importano (in misura maggiore delle esportazioni)
a ricorrere ai prestiti;
-
in un sistema simile (fortemente voluto dalla cultura
della Bundesbank), entro il sistema europeo finanziariamente interconnesso, se
un sistema nazionale è in deficit deve farsi prestare il denaro da chi è in
credito. Ed è in credito chi esporta più di quanto importa. Semplice
contabilità elementare.
-
Touchstone, perfidamente, la mette in un altro
modo “i soldi li presta il venditore, altrimenti non potrebbe vendere le proprie
merci perché il compratore non avrebbe i soldi per pagarle”.
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Dunque, “in termini tecnici si dice che il disavanzo
della bilancia commerciale si traduce in un aumento del debito estero
(privato - cioè delle banche o pubblico -cioè dello Stato).”
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In questo modo nei primi anni dell’Euro si sono
accumulati centinaia di miliardi di debiti privati e crediti privati.
Rispettivamente a carico dei consumatori (e delle banche) spagnole, irlandesi,
portoghesi, italiane e delle banche (per loro tramite i risparmiatori) tedeschi,
olandesi, francesi.
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Nel 2008 però è arrivato lo shock noto e le banche in
credito hanno preso paura. Quindi “hanno smesso di finanziare anzi hanno
preteso il rientro”.
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Qui nasce un gran problema: “i paesi indebitati non
possono stampare Euro per pagare i debiti e spendono in importazioni
più di quanto guadagnano in esportazioni, quindi non generano Euro in eccesso. Quindi
non possono rimborsare i debiti”.
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“Soluzione.
I soldi li presta la BCE
alle banche nazionali che li useranno per ricomprarsi i debiti. Quindi le banche
spagnole invece di avere debiti con le banche tedesche li avranno con la BCE (e lo Stato italiano li
avrà con le banche italiane che a loro volta sono indebitate con la BCE )”.
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Ma qui entra in gioco la cultura della
Bundesbank. La paura dell’inflazione (per me coltivata ad arte) e la
proibizione di creare moneta, espandendo la base monetaria. Allora la BCE deve chiedere i soldi in
prestito: alla Bundesbank.
Abbiamo
trasformato in questo modo una piramide di debiti e crediti privati (una
questione tra risparmiatori avidi e prestatori ingenui, con intermediari
finanziari cinici) in un problema di debiti e crediti pubblici. In realtà è anche
peggio: in una questione geopolitica.
Quelle per le quali, di solito, scoppiavano le guerre.
Come si esce da
questo disastro prima di arrivare ad esiti catastrofici? Bisogna riportare in
attivo il saldo della bilancia commerciale. Qui arriva il veramente difficile, perché
è evidente che non si possono avere tutti i saldi contemporaneamente in attivo
(chi resta passivo? Marte?). Dimenticando questo dettaglio alcuni decisori (ad
esempio Monti che si
vantava in America di aver “distrutto la domanda interna italiana”) hanno
pensato che la cosa da fare era ridurre le importazioni.
Ma cosa significa?
Semplice: gli italiani devono comprare di
meno. Cioè devono avere meno soldi in tasca. E come? Naturalmente aumentando
i disoccupati e abbassando così i salari reali.
Ma, ragionando
secondo questa impostazione, il punto è di creare un saldo positivo tra
importazioni ed esportazioni, dunque è necessario aumentare anche le
esportazioni. Cioè competere e sottrarre quote di mercato ai concorrenti (che,
nella fattispecie sarebbero proprio i “partner europei”, ma va bene). Allora continua
Touchstone ricordando che, appunto, la riduzione dei salari (che, come vedremo,
sono già del 30% inferiori a quelli tedeschi) è una delle strade per aumentare
la competitività. L’altra sarebbe di aumentare il valore aggiunto delle
produzioni (cosa assai ardua in fase di debolezza della domanda).
Dunque se il
problema è di fare in modo che le auto italiane si vendano al posto delle
tedesche (o i pannelli solari italiani al posto dei cinesi, i computer al posto
degli americani) un modo è uscire dall’Euro. Infatti “se tornassimo alla Lira
potremmo svalutare del 15%, più o meno il gap cumulato nel costo del lavoro con
la Germania ,
rendendo il nostro costo del lavoro più economico di un eguale ammontare”.
Invece, la
posizione opposta punta su “riforme strutturali del mercato del lavoro”,
contando che possano consentire di ridurre il salario dei lavoratori e, nel
tempo, riallocare quote di lavoratori da industrie non competitive ad industrie
più produttive.
Recentemente è
stato pubblicato un Paper
che stima in 25 anni il tempo necessario per questo riaggiustamento strutturale
per queste vie. E’ una strada manifestamente improponibile, molto prima
arriveranno crisi sociali distruttive, rivolte, rivoluzioni e probabilmente
guerre a ridefinire i termini della questione.
Un’altra strada?
Touchstone ne indica una:
-
“basterebbe che il processo di aggiustamento fosse
diviso in tre terzi. Il primo lo fanno i paesi del sud abbassando il loro costo
del lavoro, il secondo lo fanno i paesi in surplus aumentando il proprio costo
del lavoro di un uguale importo ed il terzo lo fa l’Euro svalutandosi per un
importo simile”.
Questa
soluzione, come esplicita lo stesso autore, richiede che il mondo (e intanto l’Unione
Europea) si comporti come una “comunità solidale”.
E’ del tutto
evidente che non lo è. La
Germania (e i suoi partner del nord) esprime una sorta di
imperialismo senza armi. Quel che si sa fatica a non identificare come la
prosecuzione (anche non volontaria) del programma di dominazione europea (ed in
realtà mondiale) che ha
portato a due guerre. Gli stessi USA non giocano così. Però, forse, sono più coscienti dei rischi.
Questa è la
chiusa dell’autore: la condivido.
Siamo quindi in una nave in tempesta
che sta attraversando una zona di bonaccia all’occhio del ciclone. Tenersi
forte o cercare le scialuppe di salvataggio.
Soluzione Touchstone..in corso
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