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martedì 8 aprile 2014

ISTAT, "La competitività dell’industria italiana", indagine 2013


Roberto Monducci, Direttore del Dipartimento dei conti nazionali e delle statistiche economiche dell’ISTAT ha pubblicato a febbraio 2014 un interessante Rapportosulla competitività dei settori produttivi, riferito al periodo 2011-13.

In esso sono contenute molte informazioni interessanti, e per certi versi sorprendenti. Intanto il contesto generale: nei due episodi di recessione (il primo dal 2008 al 2009, poi dopo una breve pausa di stagnazione il 2011-13) l’Italia ha perso il 24% del prodotto industriale, solo la Spagna è riuscita a fare peggio (-30%), mentre Francia ed Inghilterra hanno perso circa la metà (-14,9 e -12% rispettivamente). La Germania è rimasta ad un modesto -2,3%.
Ciò significa che considerando una modesta crescita attesa (in assenza di crisi) del 1% anno, l’Italia sarebbe a -30% dal punto in cui avrebbe dovuto essere in questo momento e via via gli altri (la produzione industriale tedesca è sempre cresciuta di più e dunque è oltre il 10% in meno di quanto dovrebbe essere).

Disaggregando il dato con riferimento ai diversi settori produttivi e nella stessa comparazione è interessante osservare che l’Italia ha visto cali produttivi nel 90% dei settori circa, mentre la Francia nel 80% e la Spagna nel 88% ca. La Germania ha visto calare la produzione nel 65% dei settori produttivi.
Ma mentre quest’ultima ha visto anche crescere di oltre il 20% la produzione nel 6% dei settori (contro il 10% dei settori in Francia), l’Italia si è fermata ad un misero 1% di settori in forte crescita. Può essere interessante notare che i settori in crescita tra Francia e Germania sono invertiti: mentre crescono del 20% solo il 6% in Germania ed il 10% in Francia, la crescita del 10% è simmetrica. E ci sono il 20% dei settori che sono tra 0 e 10% di crescita in Germania, mentre sono solo il 6% in Francia (ed il 5% in Italia).
Al contrario settori in via di tracollo produttivo (-30% ed oltre) sono l’8% in Germania, un terzo in Francia e Italia e ben la metà in Spagna. Quelli che ci vanno vicino (riduzione produzione dal 20 al 30%) sono un altro 7% in Germania e il 35% in Italia (20% in Francia e 15% in Spagna). Dunque, restando all’Italia, il 67% dei settori produttivi ha avuto cali di produzione superiori al 20%.

Si parla quindi di una trasformazione epocale del tessuto produttivo da inquadrare in una caduta ininterrotta di 31 mesi della produzione industriale. Anche se bisogna notare che da maggio 2013 il trend sembra essersi invertito, con il 50% delle imprese in lieve ripresa produttiva.

Sin qui la produzione, ma il fatturato ha un andamento in parte diverso: distinguendo tra il fatturato ottenuto sul mercato interno e quello sull’estero, come immaginabile facilmente, si ha una fortissima divaricazione: il primo cala del 17%, il secondo sale di un modesto 3%. Una differenza che all’acme della crisi, aprile 2013, è arrivato al 28,5%. Su questa particolare classifica siamo solo in compagnia della Spagna. La peggiore performance, ancora più in dettaglio, su prodotti intermedi e beni di consumo.
C’è da notare, però, che malgrado il calo della produzione (che può determinare l’effetto statistico di abbassare la produttività in relazione all’output produttivo), il fatturato non ha seguito con lo stesso andamento. In realtà il 51% delle imprese lo ha aumentato (fatt. totale), mentre il 61% ha aumentato almeno quello estero. Cresce, in particolare, di più il fatturato nel settore alimentare (il 71% delle imprese lo incrementano) e soprattutto tra le grandi unità produttive. I settori che lavorano con l’estero che aumentano il fatturato sono quelli farmaceutici (il 73% delle imprese di settore) mentre quello minimo è l’abbigliamento (il 43%).
In sostanza, solo quattro settori hanno visto complessivamente calare il fatturato con l’estero (si tratta di produzione di mobili, legno, stampa e abbigliamento), mentre sul mercato interno solo l’alimentare ha aumentato il fatturato.

E’ anche presente una lieve (5% di variazione) spostamento di classe verso l’alto nella tendenza alla propensione all’export (cresce la classe alta e decresce quella bassa).

In termini numerici, nel campione di 25.000 imprese analizzato, “vincono” (aumentano il fatturato sia all’interno sia all’esterno) ca. 4.600 imprese (che rappresentano il 18% del totale registrato e il 20% del valore aggiunto). Mentre “ripiegano” 9.100 imprese (35% del totale e 30% del valore aggiunto). Sono in mezzo 8.500 imprese che crescono all’estero e 3.400 che crescono solo in Italia.
In questo campione l’ISTAT identifica le seguenti caratteristiche comuni alle imprese “vincenti”: innovazioni di processo, gamma, formazione, connettività.
fattori di successo

Mentre in quelle che crescono con l’estero: delocalizzazione, difesa delle quote di mercato, innovazioni di prodotto, formazione.
fattori di successo

Nell’indagine (dicembre 2013) si è registrata la tendenza del 70% delle imprese a rispondere alla crisi cercando di alzare la qualità, e nel 64% riducendo i costi, solo il 49% ha ridotto i margini unitari, mentre il 40% ha cercato di imporre modifiche organizzative. Verso l’esterno prevale invece la maggiore commercializzazione (46%).
Strategie "esterne" di competizione delle imprese italiane

Strategie "interne" di competizione delle imprese italiane


Nella tabella questa risposta è articolata per comparto. Vediamo che sui costi hanno agito soprattutto il settore degli autoveicoli, della raffinazione e dei mezzi di trasporto, mentre hanno puntato sul miglioramento della qualità l’elettronica ed i mezzi di trasporto.

Invece, nel grafico degli indici del fatturato per mercato di destinazione, si vede il settore estero che cresce moderatamente, dopo una profonda perdita nel 2009, e quello interno che continua il suo calo. E’ da notare che nel 2011, chiaramente a seguito delle politiche del Governo Monti, appare per la prima volta una netta divaricazione tra il fatturato sul mercato estero (che continua a crescere, sia pure con andamento nettamente minore) e quello sul mercato interno che precipita. La “distruzione della domanda interna”, di cui il prof. Monti si vantava a New York ha avuto effetto. Per comprenderne la logica soccorre questo intervento recente di Touchstone.

Fatturato imprese manifatturiere 2000-2013 (destagionalizato, 2010=100)

Un’altra cosa che può essere guardata nel grafico è l’andamento prima della crisi del 2007-8: il fatturato era trainato dalla domanda interna (come è normale in un paese sviluppato) sino al 2007, quando un lungo inseguimento del fatturato sul mercato estero è arrivato a risultato. Da allora cammina appaiato fino all’intervento di Monti. I due fatturati, più dettagliatamente, camminano paralleli dal 2000 (inizio della circolazione in Euro) per i primi 5 anni (dunque le nostre esportazioni non si avvantaggiano), per poi crescere velocemente nei tre anni dal 2005 al 2008.

Che succede negli altri paesi? In Germania, più o meno lo stesso (noi siamo sempre molto simili agli andamenti tedeschi, per la nostra struttura produttiva) ma non avendo avuto Monti la divaricazione è notevolmente minore.
Fatturato imprese manifatturiere 2000-2013 (destagionalizato, 2010=100)

In Francia procedono sempre insieme.

In Spagna la domanda interna cresce ininterrottamente dal 2002 e quella estera non la raggiunge mai, se non per effetto della crisi nel 2010. Da allora si invertono (anche loro hanno il loro Monti, si chiama Rajol).

Il Regno Unito procede abbastanza vicino, con lieve prevalenza della domanda interna fino alla crisi.

Nel successivo grafico a bolle, si trovano (bolle più grosse maggiore valore aggiunto, verdi in crescita), i diversi settori in funzione della variazione fatturato estero ed interno. In sostanza si vede come il settore industriale tradizionalmente più forte (macchinari ed apparecchiature: 24.000 imprese e ca. 450.000 addetti) ha aumentato in modo significativo il fatturato estero (+20%) mentre ha calato quello interno (-15%); il settore bevande cresce un poco meno all’estero ma perde meno in Italia, sono in zona negativa per entrambi l’abbigliamento, il legno e la stampa. In zona positiva per entrambi l’alimentare.
Variazione percentuale mediana del fatturato delle imprese per settore di attività economica tra il 2010 e il 2013 (gennaio-ottobre) - L’ampiezza delle bolle è commisurata al peso del settore in termini di valore aggiunto. Verde: fatturato totale in aumento; Rosso: fatturato totale in diminuzione; Grigio: fatturato totale invariato (variazione in valore assoluto inferiore all’1%)


In definitiva si tratta di un quadro, quello che ci restituisce l’ISTAT con la sua analisi, più articolato del previsto, dove sembra di leggere un processo di ristrutturazione in corso della nostra struttura industriale: un andamento verso la grande scala, con la crescita di alcuni settori tradizionali del made in italy come l’alimentare, il pellame (all’estero), i macchinari (all’estero) e le bevande (all’estero); una tenuta del tessile. Ma anche un calo della lavorazione di minerali non metalliferi, le apparecchiature elettriche, i mobili, il legno e l’abbigliamento (che cade soprattutto in Italia).
D’altra parte il calo vistoso della produzione, a fronte della tenuta migliore del fatturato, sembra alludere ad uno sforzo riuscito, almeno in alcuni casi, di riposizionarsi su prodotti a maggiore valore aggiunto. Dalle schede di dettaglio si vede, nei casi di tenuta, una significativa crescita del valore aggiunto per addetto e, in misura minore, del costo del lavoro. Ad esempio, nel settore fabbricazione di macchinari il valore aggiunto passa da 50.000 euro per addetto a 65.000, mentre il costo del lavoro da 40.000 a 46.000, la competitività di costo migliora quindi da 125% a 140%, come la redditività lorda (da 21% a 30%).

Vedremo se saranno rose.


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