Roberto Monducci, Direttore del
Dipartimento dei conti nazionali e delle statistiche economiche dell’ISTAT ha
pubblicato a febbraio 2014 un interessante Rapportosulla competitività dei settori produttivi, riferito al periodo 2011-13.
In esso sono contenute molte
informazioni interessanti, e per certi
versi sorprendenti. Intanto il contesto generale: nei due episodi di
recessione (il primo dal 2008 al 2009, poi dopo una breve pausa di stagnazione
il 2011-13) l’Italia ha perso il 24% del prodotto industriale, solo la Spagna è
riuscita a fare peggio (-30%), mentre Francia ed Inghilterra hanno perso circa
la metà (-14,9 e -12% rispettivamente). La Germania è rimasta ad un modesto
-2,3%.
Ciò significa che considerando una
modesta crescita attesa (in assenza di crisi) del 1% anno, l’Italia sarebbe a
-30% dal punto in cui avrebbe dovuto essere in questo momento e via via gli
altri (la produzione industriale tedesca è sempre cresciuta di più e dunque è oltre
il 10% in meno di quanto dovrebbe essere).
Disaggregando il dato con riferimento ai
diversi settori produttivi e nella stessa comparazione è interessante osservare
che l’Italia ha visto cali produttivi nel 90% dei settori circa, mentre la
Francia nel 80% e la Spagna nel 88% ca. La Germania ha visto calare la
produzione nel 65% dei settori produttivi.
Ma mentre quest’ultima ha visto anche
crescere di oltre il 20% la produzione nel 6% dei settori (contro il 10% dei
settori in Francia), l’Italia si è fermata ad un misero 1% di settori in forte
crescita. Può essere interessante notare che i settori in crescita tra Francia
e Germania sono invertiti: mentre crescono del 20% solo il 6% in Germania ed il
10% in Francia, la crescita del 10% è simmetrica. E ci sono il 20% dei settori
che sono tra 0 e 10% di crescita in Germania, mentre sono solo il 6% in Francia
(ed il 5% in Italia).
Al contrario settori in via di tracollo
produttivo (-30% ed oltre) sono l’8% in Germania, un terzo in Francia e Italia
e ben la metà in Spagna. Quelli che ci vanno vicino (riduzione produzione dal
20 al 30%) sono un altro 7% in Germania e il 35% in Italia (20% in Francia e
15% in Spagna). Dunque, restando all’Italia, il 67% dei settori produttivi ha
avuto cali di produzione superiori al 20%.
Si parla quindi di una trasformazione epocale
del tessuto produttivo da inquadrare in una caduta ininterrotta di 31 mesi
della produzione industriale. Anche se bisogna notare che da maggio 2013 il
trend sembra essersi invertito, con il 50% delle imprese in lieve ripresa
produttiva.
Sin qui la produzione, ma il fatturato
ha un andamento in parte diverso: distinguendo tra il fatturato ottenuto sul
mercato interno e quello sull’estero, come immaginabile facilmente, si ha una
fortissima divaricazione: il primo cala del 17%, il secondo sale di un modesto
3%. Una differenza che all’acme della crisi, aprile 2013, è arrivato al 28,5%.
Su questa particolare classifica siamo solo in compagnia della Spagna. La
peggiore performance, ancora più in dettaglio, su prodotti intermedi e beni di
consumo.
C’è da notare, però, che malgrado il
calo della produzione (che può determinare l’effetto statistico di abbassare la
produttività in relazione all’output produttivo), il fatturato non ha seguito
con lo stesso andamento. In realtà il 51% delle imprese lo ha aumentato (fatt. totale), mentre il 61% ha aumentato almeno
quello estero. Cresce, in particolare, di più il fatturato nel settore
alimentare (il 71% delle imprese lo incrementano) e soprattutto tra le grandi
unità produttive. I settori che lavorano con l’estero che aumentano il
fatturato sono quelli farmaceutici (il 73% delle imprese di settore) mentre
quello minimo è l’abbigliamento (il 43%).
In sostanza, solo quattro settori hanno
visto complessivamente calare il fatturato con l’estero (si tratta di
produzione di mobili, legno, stampa e abbigliamento), mentre sul mercato
interno solo l’alimentare ha aumentato il fatturato.
E’ anche presente una lieve (5% di
variazione) spostamento di classe verso l’alto nella tendenza alla propensione
all’export (cresce la classe alta e decresce quella bassa).
In termini numerici, nel campione di
25.000 imprese analizzato, “vincono” (aumentano il fatturato sia all’interno
sia all’esterno) ca. 4.600 imprese (che rappresentano il 18% del totale
registrato e il 20% del valore aggiunto). Mentre “ripiegano” 9.100 imprese (35%
del totale e 30% del valore aggiunto). Sono in mezzo 8.500 imprese che crescono
all’estero e 3.400 che crescono solo in Italia.
In questo campione l’ISTAT identifica le
seguenti caratteristiche comuni alle imprese “vincenti”: innovazioni di processo, gamma, formazione, connettività.
fattori di successo |
Mentre in quelle che crescono con
l’estero: delocalizzazione, difesa delle
quote di mercato, innovazioni di prodotto, formazione.
fattori di successo |
Nell’indagine (dicembre 2013) si è
registrata la tendenza del 70% delle imprese a rispondere alla crisi cercando
di alzare la qualità, e nel 64% riducendo i costi, solo il 49% ha ridotto i
margini unitari, mentre il 40% ha cercato di imporre modifiche organizzative.
Verso l’esterno prevale invece la maggiore commercializzazione (46%).
Strategie "esterne" di competizione delle imprese italiane |
Strategie "interne" di competizione delle imprese italiane |
Nella tabella questa risposta è
articolata per comparto. Vediamo che sui costi hanno agito soprattutto il
settore degli autoveicoli, della raffinazione e dei mezzi di trasporto, mentre
hanno puntato sul miglioramento della qualità l’elettronica ed i mezzi di
trasporto.
Invece, nel grafico degli indici del
fatturato per mercato di destinazione, si vede il settore estero che cresce
moderatamente, dopo una profonda perdita nel 2009, e quello interno che
continua il suo calo. E’ da notare che nel 2011, chiaramente a seguito delle
politiche del Governo Monti, appare per la prima volta una netta divaricazione
tra il fatturato sul mercato estero (che continua a crescere, sia pure con
andamento nettamente minore) e quello sul mercato interno che precipita. La
“distruzione della domanda interna”, di cui il prof. Monti si vantava a New
York ha avuto effetto. Per comprenderne la logica soccorre questo intervento
recente di Touchstone.
Fatturato imprese manifatturiere 2000-2013 (destagionalizato, 2010=100) |
Un’altra cosa che può essere guardata
nel grafico è l’andamento prima della crisi del 2007-8: il fatturato era
trainato dalla domanda interna (come è normale in un paese sviluppato) sino al
2007, quando un lungo inseguimento del fatturato sul mercato estero è arrivato
a risultato. Da allora cammina appaiato fino all’intervento di Monti. I due
fatturati, più dettagliatamente, camminano paralleli dal 2000 (inizio della
circolazione in Euro) per i primi 5 anni (dunque le nostre esportazioni non si
avvantaggiano), per poi crescere velocemente nei tre anni dal 2005 al 2008.
Che succede negli altri paesi? In
Germania, più o meno lo stesso (noi siamo sempre molto simili agli andamenti
tedeschi, per la nostra struttura produttiva) ma non avendo avuto Monti la
divaricazione è notevolmente minore.
Fatturato imprese manifatturiere 2000-2013 (destagionalizato, 2010=100) |
In Francia procedono sempre insieme.
In Spagna la domanda interna cresce ininterrottamente
dal 2002 e quella estera non la raggiunge mai, se non per effetto della crisi
nel 2010. Da allora si invertono (anche loro hanno il loro Monti, si chiama
Rajol).
Il Regno Unito procede abbastanza
vicino, con lieve prevalenza della domanda interna fino alla crisi.
Nel successivo grafico a bolle, si
trovano (bolle più grosse maggiore valore aggiunto, verdi in crescita), i diversi settori in
funzione della variazione fatturato estero ed interno. In sostanza si vede come
il settore industriale tradizionalmente più forte (macchinari ed
apparecchiature: 24.000 imprese e ca. 450.000 addetti) ha aumentato in modo
significativo il fatturato estero (+20%) mentre ha calato quello interno
(-15%); il settore bevande cresce un poco meno all’estero ma perde meno in Italia,
sono in zona negativa per entrambi l’abbigliamento, il legno e la stampa. In
zona positiva per entrambi l’alimentare.
In
definitiva si tratta di un quadro, quello che ci restituisce
l’ISTAT con la sua analisi, più articolato del previsto, dove sembra di leggere
un processo di ristrutturazione in corso della nostra struttura industriale: un
andamento verso la grande scala, con la crescita di alcuni settori tradizionali
del made in italy come l’alimentare, il pellame (all’estero), i macchinari
(all’estero) e le bevande (all’estero); una tenuta del tessile. Ma anche un
calo della lavorazione di minerali non metalliferi, le apparecchiature
elettriche, i mobili, il legno e l’abbigliamento (che cade soprattutto in
Italia).
D’altra parte il calo vistoso della
produzione, a fronte della tenuta migliore del fatturato, sembra alludere ad
uno sforzo riuscito, almeno in alcuni casi, di riposizionarsi su prodotti a
maggiore valore aggiunto. Dalle schede di dettaglio si vede, nei casi di
tenuta, una significativa crescita del valore aggiunto per addetto e, in misura
minore, del costo del lavoro. Ad esempio, nel settore fabbricazione di
macchinari il valore aggiunto passa da 50.000 euro per addetto a 65.000, mentre
il costo del lavoro da 40.000 a 46.000, la competitività di costo migliora
quindi da 125% a 140%, come la redditività lorda (da 21% a 30%).
Vedremo se saranno rose.
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