Il 1 aprile, è
morto uno storico che abbiamo amato, un grande intellettuale europeo, vanto del
suo paese. In suo onore proverò la lettura di uno dei suoi libri che mi hanno
più interessato. Le Goff ha condotto una lunghissima ricerca storica sul
medioevo, epoca che vede estesa dal II secolo alla rivoluzione francese, un periodo
di trasformazione ricco di valori, interessi, vivacità, contraddizioni.
In questo libro, Lo Sterco del diavolo, Le Goff mette a fuoco il fondamentale tema della circolazione monetaria e del
ruolo del denaro; la cosa difficile, quando si rilegge un’epoca così lontana,
quando si scruta nella vita di uomini e donne così diversi da noi, è utilizzare
le nostre categorie cadendo nel rischio di pensarli nostri contemporanei. Erano
persone che pensavano e vivevano diversamente da noi. Mentre il denaro rinvia,
per noi, alla problematica della ricchezza e quindi alla distribuzione ed all’ineguaglianza
per l’uomo medioevale non era così. Il mondo medioevale era certo molto
ineguale, ma per Le Goff in modo diverso: a lungo la distinzione sociale
predominante non è “ricco/povero”, come nel nostro tempo, ma “potente/umile”, e
ciò almeno fino al XIII-XV secolo.
Dalla caduta
dell’Impero Romano in poi e per tutto il medioevo la ricchezza è fondata sulla
terra, sul possesso di un bene che è lavorato da uomini ridotti ad utensili,
“umili” che non godono di alcuna autonomia. Schiacciati dal potere in un modo
che oggi sarebbe per noi impensabile. Anzi, all’inizio il denaro è visto come
una cosa di cui nutrire sospetti, nelle Etimologie
di Isidoro (ca. 570-636) l’attaccamento al denaro è uno dei peccati più gravi.
Tuttavia, per Le Goff, circola anche nelle campagne sia pure in piccole
quantità.
La svolta
avviene nei secoli XII-XIII, quando si registra il decollo della circolazione
monetaria e dei mercati, quindi lo sviluppo via via più forte del commercio e
delle città. Nel 1257 Alberto Magno ad Augusta pronuncia una serie di sermoni
nei quali i mercanti ed i ricchi sono visti in modo positivo; essi forniscono
ciò di cui c’è bisogno nella città, “permettono di sfamare i poveri e di
abbellire la città con splendidi monumenti” (LG, p. 23) L’avarizia retrocede al
terzo posto nei peccati capitali. Progressivamente le maggiori necessità (di
servizi, ufficiali pubblici, infrastrutture) determinano la necessità di
ristrutturare il prelievo fiscale e dunque la circolazione monetaria.
Insieme a questo
fenomeno crescono anche i poveri nelle città, e le attività caritatevoli condotte
in forma monetaria.
Lo storico
francese rifiuta la facile contrapposizione tra un economia assolutamente non
monetaria ed una monetizzata. La circolazione avviene in tutti i settori, ma è
vero che nelle città è più vivace, la pressione fiscale più acuta, i tentativi
di eluderla più netti. Scrive, ad esempio, Filippo di Beaumanoir, nel 1283: “nelle città molti conflitti nascono a causa
delle tasse, perché avviene spesso che i ricchi che ne governano gli affari
dichiarano meno di quello che dovrebbero per sé e per i parenti e tendono ad
esentare gli altri ricchi allo scopo di essere a propria volta esentati; in tal
modo tutte le imposte ricadono sulla massa dei poveri” (LG, p.37).
In questo secolo
di radicale trasformazione aumenta lo sfruttamento delle miniere, e quindi la
disponibilità di metallo prezioso, il denaro diventa strumento di
razionalizzazione anche a causa della necessità di far funzionare bene le
zecche e calcolare i flussi. Nel XIII secolo, nel più precoce e organizzato
degli stati e quello più ricco di denaro, quello Pontificio, progressivamente
le esigenze crescono e si va strutturando un’amministrazione specializzata.
L’altro polo di questo processo è l’Inghilterra di Enrico II Plantageneto, in
cui la circolazione è descritta, nel Policratus
di Giovanni di Salisbury, come un problema di giustizia e non economico; il re
deve, infatti, controllarla nell’interesse dei suoi sudditi. Seguiranno anche i
re Francesi.
Il problema nel
secolo è che fare denaro con denaro
(cioè prestare con interesse) è vista come un’attività empia. Solo progressivamente, e con molta fatica, il prestito ad
interesse sarà giustificato. Arriva quindi il momento dei “lombardi”, dei
cambiavalute e dei primi banchieri. Emerge in questo contesto gradualmente il
concetto che la stabilità è un bene comune del popolo e non del re. Si
perfeziona quindi il sistema finanziario, il sistema delle lettere di cambi e
dei contratti di assicurazione. Nasce insieme anche il concetto di rischio e di
previsione.
Malgrado ciò (o
forse grazie a ciò) cresce sempre più l’indebitamento delle città. Valencia
passa in pochi anni dai 37% di debito al 76%. Allora il debito genera una
spirale inarrestabile; le transazioni finanziarie, che gradualmente prendono il
sopravvento, “sono parte integrante di un tessuto di relazioni sociali,
rapporti di potere e relative strutture gerarchiche” (LG, p. 159). In sostanza
le Goff prende parte per la tesi di Polany contro quella di Cajanov. Per il
contadino medioevale la terra è un bene affettivo prima di essere un mezzo di
produzione, la vendita del terreno è una forma di scambio che coinvolge tutto
il tessuto dei rapporti sociali e personali tra i contraenti. Qualcosa che si
avvicina, per lo storico francese, all’economia del dono. Dunque non esiste un vero
e proprio mercato fondiario, come noi lo intendiamo. I meccanismi che
sovraintendono alla circolazione delle terre non obbediscono alle leggi di
mercato, sono nello spazio intermedio “tra la guerra e l’alleanza
interpersonale”. In altre parole hanno più a che fare con il potere che con il
denaro.
Anche gli ordini
mendicanti, ad esempio i francescani, hanno un rapporto molto complesso e
sofferto con il denaro. L’istituzione dei Monti di Pietà (un’istituzione
connessa con la carità il cui primo esempio è del 1462 a Perugia), creati per
assicurare piccoli prestiti a breve termine ai lavoratori in cambio di un
piccolo interesse, ne è un esempio: normalmente partiva da un predicatore (in
genere francescano) che raccoglieva il capitale iniziale nominava i direttori e
scriveva il regolamento. Ci fu un cinquantennio di violente dispute tra chi li
vedeva comunque come una forma di usura e chi pratiche di carità. La bolla Inter multiplices di papa Leone X, nel
1515, fermò la controversia.
Tutta la
circolazione che circonda queste pratiche, come quella della donazione post
mortem, è rivolta al trascendente. Ad un “modo di pensare, e ancor più di agire
rettamente secondo gli insegnamenti” (LG, p. 169).
Ciò che viene
condannato è la cupidigia, l’orientarsi verso un genere di rapporti, di
relazioni, estraneo al “buon vivere” di un cristiano. Cioè di un uomo ben
fatto, ben ordinato, adeguato. Per Le Goff, in questo in polemica esplicita con
il suo maestro Braudel, il capitalismo non si dà sino a che la società resta dominata
da questi valori. Il valore centrale, che impedisce alla monetazione di
guadagnare la centralità è la caritas, e quindi il dono. Essa è il supremo
valore sociale occidentale, essa “rappresenta un legame sociale fondamentale
tra gli uomini, e tra loro e Dio. Tommaso d’Aquino l’ha più volte ribadito:
<la carità è la madre di tutte le virtù nella misura in cui informa tutte le
vitù>” (LG., p. 185). Una tale forma attraversa tutte le modalità
organizzative sociali, ad esempio la determinazione del prezzo (cardine della
pratica capitalista) nel medioevo non ha nulla a che fare con il mercato ma con
una regolazione locale, stabile, equa e imperniata sulla caritas. L’asse è
sulla giustizia. Ma mentre per noi un
prezzo è giusto, quando è il
risultato di uno scambio libero (non
costretto dal potere), per un uomo medioevale è giusto quando è fondato sulla carità (cioè, credo si possa dire, su
rapporti sociali sani).
Le Goff cita lo
studio di Bartolomé Clavero per il quale né esiste l’economia, né il diritto è
in posizione centrale sino al XVIII secolo, la carità, l’amicizia e la
giustizia (in questo ordine) sono i cardini sociali.
Per Le Goff,
insomma, nel medioevo l’uso del denaro è da inserire nell’economia del dono, e
partecipa della generale subordinazione di tutte le attività umane alla grazia
di Dio. Resta subordinato alla concezione della giustizia e all’esigenza
spirituale alla carità.
Se ci resta
difficile da cogliere è perché noi siamo completamente immersi e formati in un
sistema mondo completamente diverso: al centro del quale è la competizione, la
lotta individuale l’uno contro l’altro, il desiderio illimitato, il consumo
bulimico.
Un uomo del
medioevo ci guarderebbe con una punta di sconcertata disapprovazione. Forse
avrebbe pietà di noi.
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