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mercoledì 2 aprile 2014

Jacques Le Goff, Lo sterco del diavolo. Il denaro nel medioevo.

  
Il 1 aprile, è morto uno storico che abbiamo amato, un grande intellettuale europeo, vanto del suo paese. In suo onore proverò la lettura di uno dei suoi libri che mi hanno più interessato. Le Goff ha condotto una lunghissima ricerca storica sul medioevo, epoca che vede estesa dal II secolo alla rivoluzione francese, un periodo di trasformazione ricco di valori, interessi, vivacità, contraddizioni.

In questo libro, Lo Sterco del diavolo, Le Goff mette a fuoco il fondamentale tema della circolazione monetaria e del ruolo del denaro; la cosa difficile, quando si rilegge un’epoca così lontana, quando si scruta nella vita di uomini e donne così diversi da noi, è utilizzare le nostre categorie cadendo nel rischio di pensarli nostri contemporanei. Erano persone che pensavano e vivevano diversamente da noi. Mentre il denaro rinvia, per noi, alla problematica della ricchezza e quindi alla distribuzione ed all’ineguaglianza per l’uomo medioevale non era così. Il mondo medioevale era certo molto ineguale, ma per Le Goff in modo diverso: a lungo la distinzione sociale predominante non è “ricco/povero”, come nel nostro tempo, ma “potente/umile”, e ciò almeno fino al XIII-XV secolo.
Dalla caduta dell’Impero Romano in poi e per tutto il medioevo la ricchezza è fondata sulla terra, sul possesso di un bene che è lavorato da uomini ridotti ad utensili, “umili” che non godono di alcuna autonomia. Schiacciati dal potere in un modo che oggi sarebbe per noi impensabile. Anzi, all’inizio il denaro è visto come una cosa di cui nutrire sospetti, nelle Etimologie di Isidoro (ca. 570-636) l’attaccamento al denaro è uno dei peccati più gravi. Tuttavia, per Le Goff, circola anche nelle campagne sia pure in piccole quantità.
La svolta avviene nei secoli XII-XIII, quando si registra il decollo della circolazione monetaria e dei mercati, quindi lo sviluppo via via più forte del commercio e delle città. Nel 1257 Alberto Magno ad Augusta pronuncia una serie di sermoni nei quali i mercanti ed i ricchi sono visti in modo positivo; essi forniscono ciò di cui c’è bisogno nella città, “permettono di sfamare i poveri e di abbellire la città con splendidi monumenti” (LG, p. 23) L’avarizia retrocede al terzo posto nei peccati capitali. Progressivamente le maggiori necessità (di servizi, ufficiali pubblici, infrastrutture) determinano la necessità di ristrutturare il prelievo fiscale e dunque la circolazione monetaria.
Insieme a questo fenomeno crescono anche i poveri nelle città, e le attività caritatevoli condotte in forma monetaria.
Lo storico francese rifiuta la facile contrapposizione tra un economia assolutamente non monetaria ed una monetizzata. La circolazione avviene in tutti i settori, ma è vero che nelle città è più vivace, la pressione fiscale più acuta, i tentativi di eluderla più netti. Scrive, ad esempio, Filippo di Beaumanoir, nel 1283: “nelle città molti conflitti nascono a causa delle tasse, perché avviene spesso che i ricchi che ne governano gli affari dichiarano meno di quello che dovrebbero per sé e per i parenti e tendono ad esentare gli altri ricchi allo scopo di essere a propria volta esentati; in tal modo tutte le imposte ricadono sulla massa dei poveri” (LG, p.37).
In questo secolo di radicale trasformazione aumenta lo sfruttamento delle miniere, e quindi la disponibilità di metallo prezioso, il denaro diventa strumento di razionalizzazione anche a causa della necessità di far funzionare bene le zecche e calcolare i flussi. Nel XIII secolo, nel più precoce e organizzato degli stati e quello più ricco di denaro, quello Pontificio, progressivamente le esigenze crescono e si va strutturando un’amministrazione specializzata. L’altro polo di questo processo è l’Inghilterra di Enrico II Plantageneto, in cui la circolazione è descritta, nel Policratus di Giovanni di Salisbury, come un problema di giustizia e non economico; il re deve, infatti, controllarla nell’interesse dei suoi sudditi. Seguiranno anche i re Francesi.

Il problema nel secolo è che fare denaro con denaro (cioè prestare con interesse) è vista come un’attività empia. Solo progressivamente, e con molta fatica, il prestito ad interesse sarà giustificato. Arriva quindi il momento dei “lombardi”, dei cambiavalute e dei primi banchieri. Emerge in questo contesto gradualmente il concetto che la stabilità è un bene comune del popolo e non del re. Si perfeziona quindi il sistema finanziario, il sistema delle lettere di cambi e dei contratti di assicurazione. Nasce insieme anche il concetto di rischio e di previsione.
Malgrado ciò (o forse grazie a ciò) cresce sempre più l’indebitamento delle città. Valencia passa in pochi anni dai 37% di debito al 76%. Allora il debito genera una spirale inarrestabile; le transazioni finanziarie, che gradualmente prendono il sopravvento, “sono parte integrante di un tessuto di relazioni sociali, rapporti di potere e relative strutture gerarchiche” (LG, p. 159). In sostanza le Goff prende parte per la tesi di Polany contro quella di Cajanov. Per il contadino medioevale la terra è un bene affettivo prima di essere un mezzo di produzione, la vendita del terreno è una forma di scambio che coinvolge tutto il tessuto dei rapporti sociali e personali tra i contraenti. Qualcosa che si avvicina, per lo storico francese, all’economia del dono. Dunque non esiste un vero e proprio mercato fondiario, come noi lo intendiamo. I meccanismi che sovraintendono alla circolazione delle terre non obbediscono alle leggi di mercato, sono nello spazio intermedio “tra la guerra e l’alleanza interpersonale”. In altre parole hanno più a che fare con il potere che con il denaro.

Anche gli ordini mendicanti, ad esempio i francescani, hanno un rapporto molto complesso e sofferto con il denaro. L’istituzione dei Monti di Pietà (un’istituzione connessa con la carità il cui primo esempio è del 1462 a Perugia), creati per assicurare piccoli prestiti a breve termine ai lavoratori in cambio di un piccolo interesse, ne è un esempio: normalmente partiva da un predicatore (in genere francescano) che raccoglieva il capitale iniziale nominava i direttori e scriveva il regolamento. Ci fu un cinquantennio di violente dispute tra chi li vedeva comunque come una forma di usura e chi pratiche di carità. La bolla Inter multiplices di papa Leone X, nel 1515, fermò la controversia.
Tutta la circolazione che circonda queste pratiche, come quella della donazione post mortem, è rivolta al trascendente. Ad un “modo di pensare, e ancor più di agire rettamente secondo gli insegnamenti” (LG, p. 169).
Ciò che viene condannato è la cupidigia, l’orientarsi verso un genere di rapporti, di relazioni, estraneo al “buon vivere” di un cristiano. Cioè di un uomo ben fatto, ben ordinato, adeguato. Per Le Goff, in questo in polemica esplicita con il suo maestro Braudel, il capitalismo non si dà sino a che la società resta dominata da questi valori. Il valore centrale, che impedisce alla monetazione di guadagnare la centralità è la caritas, e quindi il dono. Essa è il supremo valore sociale occidentale, essa “rappresenta un legame sociale fondamentale tra gli uomini, e tra loro e Dio. Tommaso d’Aquino l’ha più volte ribadito: <la carità è la madre di tutte le virtù nella misura in cui informa tutte le vitù>” (LG., p. 185). Una tale forma attraversa tutte le modalità organizzative sociali, ad esempio la determinazione del prezzo (cardine della pratica capitalista) nel medioevo non ha nulla a che fare con il mercato ma con una regolazione locale, stabile, equa e imperniata sulla caritas. L’asse è sulla giustizia. Ma mentre per noi un prezzo è giusto, quando è il risultato di uno scambio libero (non costretto dal potere), per un uomo medioevale è giusto quando è fondato sulla carità (cioè, credo si possa dire, su rapporti sociali sani).
Le Goff cita lo studio di Bartolomé Clavero per il quale né esiste l’economia, né il diritto è in posizione centrale sino al XVIII secolo, la carità, l’amicizia e la giustizia (in questo ordine) sono i cardini sociali.

Per Le Goff, insomma, nel medioevo l’uso del denaro è da inserire nell’economia del dono, e partecipa della generale subordinazione di tutte le attività umane alla grazia di Dio. Resta subordinato alla concezione della giustizia e all’esigenza spirituale alla carità.
Se ci resta difficile da cogliere è perché noi siamo completamente immersi e formati in un sistema mondo completamente diverso: al centro del quale è la competizione, la lotta individuale l’uno contro l’altro, il desiderio illimitato, il consumo bulimico.


Un uomo del medioevo ci guarderebbe con una punta di sconcertata disapprovazione. Forse avrebbe pietà di noi.

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