Su New York Review of Books un articolo
lungo sull’evento della traduzione del poderoso libro di Piketty in inglese da
parte di Paul Krugman. Nella recensione il grande economista americano è
generoso nelle sue lodi per il lavoro di Piketty, che è chiamato “magnifico
lavoro”, “una rivoluzione nella nostra comprensione delle tendenze a lungo termine
della disuguaglianza”, “un libro davvero superbo”, “un libro che cambierà sia
il nostro modo di pensare la società sia di fare economia”, “un lavoro
impressionante”.
Il rischio che
il libro dell’economista francese evidenzia è di diventare una società
impermeabile al talento, nella quale la ricchezza ed il successo derivano dalla
ricchezza già accumulata e tramandata in dinastie familiari. Un mondo che ritorni
ad assomigliare a quello antico, o per restare all’esempio ed alla
dimostrazione del libro, alla “belle epoque”.
Per accorgersi
di questo bisogna evitare di guardare solo al “pollo di Trilussa”, alle medie
su grandi aggregati (il primo 20% contro il restante 80%) e accedere a nuove
fonti di dati. Piketty (insieme ad Anthony Atkins a Oxford, e Emmanuel Saez a
Berkley) individua tale fonte nelle dichiarazioni dei redditi bilanciate da
altre fonti indirette e assunzioni; in questo modo riesce a mostrare che il
primo 1% della stratificazione dei redditi nel 1910 (appunto la Belle Epoque)
in Europa percepiva il 20% del reddito totale, il restante 9% (a completare il
primo decile) un altro 30%. Il 40% sottostante si divideva il 30% e la metà
della popolazione inferiore solo il 20%. Questa è la massima ineguaglianza, il
primo 10% ha metà del reddito, l’ultimo 50% solo il 20%.
Una simile
ineguaglianza ritorna negli USA nel 2010.
Il livello più
basso di ineguaglianza registrato nell’analisi di Piketty è in Scandinavia
negli anni settanta (fino agli ottanta): il primo 1% aveva “solo” il 7% del
reddito, mentre il 9% superiore un altro 18% (il primo 10% si divide il 25%),
la “classe media” il 45% e la metà inferiore della distribuzione sociale il
30%.
Come possono
essere successi questi spostamenti? Piketty pone l’accento sul reddito da
capitale. Normalmente viene considerato poco interessante, anche perché l’analisi
non si focalizza sulla grande ricchezza (il 1% o anche il 0,1%). Se, invece, si
compie questa scelta analitica si vede che nella parte alta della distribuzione
del reddito (quella che assorbe dal 7 al 20%) è proprio il reddito da capitale
che è determinante. E che questa fonte di reddito è il motore della crescita
delle ineguaglianze.
Si ha una sorta
di progressiva redistribuzione dal reddito da lavoro a quello da capitale. E
questo perché il tasso di remunerazione del capitale (“r”) cresce più del tasso
di crescita complessivo (“g”) o cala più lentamente se si ha un rallentamento
determinato dal progresso tecnologico (che sostituisce lavoro con capitale) o dalla
crisi demografica. Quando questo si verifica nella "gara", che Piketty individua
come fenomeno centrale, tra accumulazione del capitale e altri fattori di guida
della crescita (come crescita della popolazione e progresso tecnologico), vince
il capitale. La conseguenza è che “il passato
tende a divorare il futuro”.
La ricchezza
ereditata guadagna una posizione dominante che nessun talento può scalzare. Per
questo, come mostra Piketty, i romanzieri ottocenteschi erano ossessionati dal
tema dell’eredità, del buon matrimonio, dell’accesso “in società”. Il “capitalismo
patrimoniale”, che abbiamo lasciato con l’ottocento, potrebbe tornare nel
nostro futuro.
In questo libro,
che Krugman gratifica della qualifica di “impareggiabile profondità”, viene
insomma presentata una sorta di “teoria del campo unificato della
disuguaglianza” che riesce per la prima volta ad integrare in un solo quadro di
senso, coerente logicamente e relazionato ad accurate analisi empiriche, il
fenomeno della crescita economica, della distribuzione del reddito tra capitale
e lavoro, e la distribuzione delle ricchezza e del reddito tra gli individui.
C’è, però, un
problema: negli USA l’elevata ineguaglianza (in particolare nel 0,1%) non
deriva ancora sostanzialmente da capitali ereditati (e quindi da reddito da
capitale) ma da salari colossali derivanti dalla posizione dominante di alcuni
settori (in primis la finanza) e dei loro attori apicali. I “supersalariati”
sono responsabili di ca. 1/3 della disuguaglianza. I loro redditi sono saliti
del 362% dal 1970, mentre quelli dell’1% “solo” del 165%; questo quando quello
di tutti gli altri è rimasto stagnante o in calo. Più che sposare un’ereditiera/o
conviene diventare gestori di un “fondo speculativo”, se si vive a New York.
Questa
considerazione aprirebbe la vasta polemica sulla fonte di questo strapotere
salariale, ma nel medio periodo il punto non cambia: restando tali le politiche
fiscali la migliore politica sarà comunque quella di sposare la figlia (o il
figlio) del gestore del fondo.
Bene, se non si
vuole accedere ad una società ingessata, in cui gli individui volenterosi e di
talento, ma senza capitale, siano incoraggiati ad investire in abiti e bei
modi, anziché in istruzione tecnica e competenza utile, la proposta di Piketty
è di rimettere mano alle nostre politiche fiscali. In particolare al diritto
ereditario.
Per fermare la “deriva
verso l’oligarchia” servono energiche politiche pubbliche per riaggiustare il
tasso di rendimento del capitale dopo le
tasse, con quello di crescita economica generale. Un tasso calibrato bene
potrebbe gradualmente ripristinare una “classe media” robusta, che vive del suo
lavoro, capace di innovazione e di dinamismo.
Ne guadagnerebbe
la crescita economica nel lungo periodo e la stabilità sociale.
Ne guadagnerebbe
la giustizia.
Nessun commento:
Posta un commento