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venerdì 18 aprile 2014

Thilo Sarrazin, "L’Europa non ha bisogno dell’Euro"


Nel 2012 è uscito in Germania un libro di parte liberale, scritto da uno dei protagonisti della vita politica ed economica degli ultimi anni, molto attivo sia nel processo di annessione (l’anschluss) sia e soprattutto nei negoziati per la formazione del Trattato di Maastricht e la successiva implementazione dell’Euro. Membro del Partito Socialdemocratico fino al 2009 ed ex assessore alle finanze del Comune di Berlino (oltre che di ruoli direttivi in Deutsche Bank e prima in Deutsche Bahn), si tratta sicuramente di un membro dell’establishment tedesco.

Con questo libro “L’Europa non ha bisogno dell’Euro”, assume una posizione critica nei confronti della Moneta Unica, ma da un punto di vista molto “tedesco”. Come vedremo, per molti versi si tratta degli argomenti simmetrici a quelli che siamo ormai più abituati a frequentare. Tuttavia ascoltarli da un tale testimone è estremamente interessante.
Scheletricamente, e facendo al ricco testo una certa necessaria violenza, l’argomento che mi appare come centrale è che l’Euro deve essere abbandonato per salvare la pace in Europa. Perché non si possono cambiare i popoli con strumenti surrettizi, con le sue parole: “visto che le società e i popoli non si lasciano cambiare dall’esterno né bisognerebbe provarci, per nulla al mondo, sempre che si voglia mantenere la pace e l’amicizia tra i popoli”, allora bisognerebbe lasciare chi non vuole vivere secondo la “disciplina dell’unione monetaria” (che è disegnata su standard tedeschi) di tornare alla propria divisa nazionale.
Ma questa posizione poggia, letteralmente, sull’idea che esistano due approcci alla politica economica: quello tedesco e quello anglosassone. E che lo scontro tra questi due modelli informi le differenze politiche e sociali tra gli Stati membri.
Il modello anglosassone è basato sul debito (e sul credito) ed è fondato su una continua, ed artificiale, accelerazione della crescita, sulla ricerca ed espansione delle opportunità di investimento e di consumo, al fine di ampliare la creazione di moneta a sua volta garantita dalla Banca Centrale. Questa ha, infatti, la duplice “missione” di garantire la crescita (la piena occupazione) e la stabilità dei prezzi. Ma nel cercare di adempiere a questa missione contraddittoria (secondo il punto di vista di Sarrazin) crea continuamente instabilità e rischi. Il 2008 ne è stato l’esempio e la piena dimostrazione.
Il modello tedesco è l’opposto: basato sui risparmi prodotti dai territori, per Sarrazin implica lo sforzo di garantire sempre la stabilità dei prezzi ed il contenimento di ogni rischio di inflazione. L’economia predilige la stabilità e non è drogata dal debito. Il debito è, infatti, una “colpa”. Induce in questa “colpa” sostanzialmente la politica, a questo fine la Banca Centrale, nel modello stabile, è volta a “disciplinare” la politica. Questa “disciplina” è portata avanti dalla Bundesbank sin dal tempo dello scontro con Hitler (che voleva una politica più espansiva e la monetizzazione sia del debito di guerra sia degli investimenti per lo sviluppo ed il riarmo), e ha informato l’intera politica del dopoguerra.
Questa opposizione, fortemente idealizzata, informa l’intera argomentazione del testo che non nasconde affatto, anzi rivendica, il disegno tedesco delle istituzioni monetarie europee. Al contrario lamenta e stigmatizza la mancanza di coerenza nell’indulgere in “salvataggi” e in politiche di sostegno a suo dire proibite dai Trattati a piena ragion veduta. Secondo Sarrazin l’Europa è, insomma, un progetto politico imperfetto e per molti versi impossibile (“in ultima istanza impossibile”). Un progetto che in questa forma ambiziosa va abbandonato, essenzialmente per salvaguardare la pace.

Ma andiamo con più ordine nella lettura almeno di alcuni passaggi; per l’economista tedesco, con l’Euro, “la Germania si è infilata in una scommessa generica nei contenuti e poco chiara nei rischi, sacrificando gli interessi tedeschi” (p.7) in base ad un’ipotesi di costruzione di Unione Politica che in molti non volevano ed ancora oggi non vogliono. Un progetto in cui la maggior parte dei tecnici non credevano (e con ragione). Secondo Sarrazin alla fine il progetto fu scelto perché “le persone non ragionano sulla base delle argomentazioni. Solo gli esperti lo fanno e solo quando sono tra loro. Le persone pensano per immagini, e meno se ne intendono di qualcosa più lo fanno”. Per questo motivo quando Kohl fu davanti alla decisione di promuovere Maastricht guardò al suo ruolo nella Storia, più che ai particolari che non capiva. I tecnici (Hans Tietmeyer, Horst Kohler, Jurgen Stark) “strinsero i denti per contribuire a dar vita a quella figura da sogno, l’Unione Monetaria Europea. Inventarono persino un’incubatrice di nome <Patto di Stabilità> e in via precauzionale lo misero a disposizione” (p.10).

Dunque quel mostro che oggi riconosciamo (ed in fondo anche Sarrazin) nel “Patto di Stabilità”, che costringe tutti paesi europei a politiche procicliche distruttive e resta come un abito monotaglia in una caserma, troppo stretto per alcuni e largo per altri, era “un’incubatrice”. Serviva a garantire che il bambino della Moneta Unica potesse diventare grande e non morisse nella culla. Purtroppo mai nulla va come è immaginato. Soprattutto dai tecnici. E quindi la creatura ha preso vita propria, determinando le azioni di politici che Sarrazin vede prigionieri del “debito morale del dopoguerra” e costretti, dunque, a continui risarcimenti.
Il punto di vista tedesco (di alcune élite tedesche) si affaccia, prepotente, in questa argomentazione: alla Germania non conviene, e non può, farsi carico del salvataggio compensativo dei paesi  indebitati. Dunque ognuno si dovrebbe salvare da solo. Se no, nel contesto della globalizzazione che riduce le prerogative degli Stati Nazionali, controllare i comportamenti di indebitamento degli Stati induce “ingerenze di un’ampiezza tale da privare lo Stato delle sue prerogative di sovranità, altrimenti è inefficace” (p. 17).

Secondo la ricostruzione del vecchio protagonista, tutto nasce nei tre anni di intense negoziazioni che seguirono la consegna del “Rapporto Delors” nella primavera del 1989, e nei sei anni di “frenetici preparativi”, prima della vera e propria Unione Monetaria. Cardini di questi intensi negoziati sono stati da una parte la volontà francese di continuare la politica di “vincolare e dominare la Germania”, dall’altra la volontà della Germania stessa di trasporre lo spirito della Bundesbank nelle nuove istituzioni. Il cardine di tutto era la decisione di non “prendere parte” al finanziamento del debito pubblico. Cioè di non fare ciò che normalmente fanno gli USA (con la FED), il Giappone (con la BoJ) la Gran Bretagna (con la BoE), e che oggi prende nome di “alleggerimento quantitativo”. L’esclusione assoluta della monetizzazione della politica fiscale e del debito, senza che nessuno se ne sia compiutamente accorto e senza che se ne sia discusso approfonditamente, però, “modificò sostanzialmente la natura dei Titoli di Stato nell’Eurozona”. In sostanza è emerso quel che in nessun altro sistema sovrano esiste: il rischio default.
Dalla comparsa di questo rischio discendono numerose conseguenze, incluso l’imposizione di maggiore capitalizzazione alle Banche (e quindi la restrizione del credito che si è vista all’opera man mano che le Convenzioni “di Basilea” avanzavano).

Il secondo pilastro dell’accordo Franco-Tedesco è la clausola di “non salvataggio” (“no bail-out”), in base alla quale uno Stato insolvente non può essere salvato. Questa clausola doveva impedire che gli Stati si sovraindebitassero, cioè doveva ridurre il cosiddetto “rischio morale”.

Il terzo, e più importante in assoluto, equivoco alla base della incomprensione della struttura che si veniva a creare con l’Euro era che i tassi di interesse più bassi e l’inflazione sotto controllo determinata dalla presenza dell’Unione Monetaria fosse “un regalo”. Oppure, come si disse, “un dividendo” dell’Euro. Invece chi ha visto dimezzare i propri interessi ed in risposta ha raddoppiato il debito (impegnando il budget liberato) ha trascurato due cose: che la bassa inflazione stabilizzava il debito (che con una inflazione più alta si riduce da sé) e che con prezzi stabili non si può più scaricare sui clienti eventuali costi crescenti. Il meccanismo che si genera è in questo modo perverso e si potrebbe descrivere così: se aumento il debito per stimolare i consumi tendono ad alzarsi i prezzi interni, ma i clienti esterni restano con il vecchio prezzo, e quindi perdo competitività. Inoltre nel sistema complessivo siamo tutti in contatto senza un cambio a mediare i differenziali di costo di produzione, dunque “aumenta la pressione competitiva e si aggravano le conseguenze di decisioni sbagliate a livello imprenditoriale e di politica economica. Con l’inflazione si possono ridurre o correggere le storture nelle dinamiche di prezzi e costi in maniera flessibile e senza dare nell’occhio, semplicemente lasciando passare il tempo, ma con l’Euro anche questo è diventato assolutamente impossibile” (p. 25).
Questi gravissimi equivoci, fecero sì che la struttura del Trattato (definita tale per consentire la firma della Germania) fu presa sul serio solo da Austriaci, Olandesi e Tedeschi (che, peraltro, nel 2002-3 le violarono per primi).

Alla partenza della crisi, e soprattutto nel momento critico del 2011, si aprì quindi un “grande gioco di potere politico-economico”, rivolto a costringere la BCE ad assumere il ruolo di prestatore di ultima istanza che il Trattato di Maastricht escludeva espressamente. Sarrazin cita, in questo contesto, le posizioni di Roubini, Krugman, Rurup, Bofinger, tutti favorevoli all’acquisto di titoli di Stato da parte della BCE. Della stessa opinione, i capo economisti di grandi banche, tra cui il Capo Economista della Deutsche Bank, Thomas Meyer secondo il quale la BCE deve fissare un tasso massimo per i Titoli italiani (5%) e difenderlo illimitatamente. Tutti questi operatori consideravano il rischio di stimolare l’inflazione come un male minore. Tutto ciò in un contesto nel quale la moneta unica, dopo aver favorito l’indebitamento pubblico e privato (soprattutto) alla fine ha determinato effetti che il libro qualifica come “sempre più nocivi” sulla crescita economica dei paesi meridionali. E questo per un motivo semplicissimo: “da una parte sono prigionieri nella trappola dei costi, che ostacola le esportazioni e sfavorisce le imprese nazionali anche sul mercato interno. D’altra parte le difficoltà di bilancio fanno sì che non ci siano soldi per un’efficace politica di stimolo fiscale”. (p. 36)
Nella Tabella 3, a pag. 36 l’autore riporta, a dimostrazione di questa tesi, il PIL procapite a parità di potere di acquisto dall’inizio dell’Unione Monetaria al 2010. L’intera Eurozona che era al 113% sulla media UE, è scesa al 108%; ma sono scesi quasi tutti. La Germania da 121% a 118%; la Francia da 115 a 108; l’Italia da 118% a 101%. Conservano i loro valori la Svizzera (146% a 147%), l’Irlanda, che fa una parabola salendo prima da 127% a 148% nel 2007, per poi riscendere al 128%. Guadagnano comunque qualcosa la Spagna (da 96% a 100%) e la Grecia (da 83% a 90).
In particolare “l’andamento dell’Italia è stato drammatico”. Negli anni della seconda crisi (2011-13) gli unici due paesi che si erano avvantaggiati, la Spagna e la Grecia, “lo stanno pagando a caro prezzo”.
La Grecia, in particolare, ha subito diversi piani di salvataggio, invece di lasciarla fallire ed eventualmente poi recuperare le banche (ma non gli azionisti) dal fallimento. Questa dolorosa (ma “sana”) procedura avrebbe comportato costi minori, e avrebbe trasmesso il giusto messaggio, coerente con la clausola “no bail-out” dei Trattati. Invece sono stati avviati successivi “Pacchetti di salvataggio” che hanno salvaguardato il valore dei Titoli di Stato e dunque dei loro possessori (in primis le banche anche estere –cioè francesi e tedesche-), quindi i paesi europei che temevano di trovarsi nella stessa situazione e quindi generavano un comodo precedente, poi la Commissione Europea che (con la Troika) ha guadagnato un enorme potere.
Gli effetti dei Pacchetti sono controproducenti, per l’autore, perché “vengono costretti de facto a proseguire con uno sviluppo incontrollato del debito. Le riforme economiche concepite come misure di stabilizzazione hanno, per lo meno nel breve periodo, un effetto recessivo e quindi peggiorano ulteriormente il problema dell’indebitamento. Problema che, pur essendo la causa della crisi, non solo non viene risolto, ma nel breve periodo viene addirittura accentuato” (p. 116).
Il motivo per cui si sono perseguite queste politiche è articolato, ma non ultimo c’è la cattura del regolatore agli interessi del sistema finanziario (che avrebbe subito lui il fallimento ed i salvataggi, invece dello Stato).

Una dinamica simile, con obiezioni simili, è ricostruita intorno alla richiesta di Eurobond, che Sarrazin rifiuta in base al principio “ognuno sistemi i suoi conti”. Altrimenti si genera un rischio morale ed una tendenza ad una politica monetaria “troppo lassista” che lacera la rete di diritti e doveri reciproci. L’autore cita a questo proposito la rabbina Elisa Klapheck per la quale “la colpa, i debiti e i sensi di colpa non sono nulla di male. Il senso di colpa è il collante che ci tiene uniti. Dio è il proprietario di questo mondo, lo ha creato lui, motivo per cui gli dobbiamo qualcosa. Ma dobbiamo qualcosa anche ai nostri simili. Il senso di colpa è la precondizione affinché possiamo costruire una comunità”. (p.184) Ora, la rabbina riconosce che, al contrario, “essere liberi dai debiti” e dalla colpa (di cui l’istituzione della “confessione”, della “remissione” a fronte del “dire la verità”) è proprio della cultura cristiana. Malgrado ciò, il nostro spende alcune delle pagine più ispirate ed interessanti per dire che “i vincoli sociali di sottomissione, sostentamento e tassazione esistevano da sempre”, come da sempre esiste la bancarotta che ne fa integralmente parte.

In sostanza l’Unione Monetaria ha sostanzialmente accresciuto le differenze. Esattamente il risultato opposto a quello che era stato previsto o sbandierato. In particolare per i paesi del Sud si è rivelata una vera e propria “trappola della competitività” (p.45). Una trappola drammaticamente resa senza uscita dall’assenza delle normali (ed automatiche) contromisure determinate dai tassi di cambio.

Ma nel testo è contenuta anche la descrizione compiuta di un altro meccanismo di retroazione mal considerato: il Sistema di connessione tra i crediti bancari a “tre piani” (BCE, Banche Centrali Nazionali e Banche Commerciali) che porta il nome Target 2. Nel quadro determinato da  questo sistema (che il libro descrive da pag. 54) i crediti netti della Bundesbank nei confronti dell’Eurosistema (che nel 2006 erano di 18 miliardi), sono esplosi. Nel 2008, in due anni, erano saliti a 129 miliardi e nel 2012, in sei anni, a 550 miliardi. Si tratta di quello che Sinn ha chiamato “un errore strutturale dell’Euro come valuta comune”. In sostanza il credito apparentemente illimitato, tramite il sistema Target 2, ha spento il normale “campanello d’allarme” costituito dal calo delle riserve in valuta, che in presenza di squilibri commerciali determina normalmente o un aggiustamento di cambio o una restrizione di credito. La cosa, sempre secondo Sinn, ha una somiglianza con la situazione degli USA alla fine del sistema di Bretton Woods, quando lo squilibrio era finanziato in valuta estera grazie al ruolo di moneta di riserva del dollaro (fino a che fu insostenibile): “Come gli USA oggi i pigs riescono ad ottenere in questo modo un afflusso di capitali da Paesi stranieri che si ritrovano esposti ad un incontrollato rischio di credito”. “In breve. Quando i greci volevano importare una Mercedes, chiedevamo alla Bundesbank di stampare soldi e spedirli alla sede della Daimler, in cambio di un titolo di credito che consegnavano alla Bundesbank”. Il risultato a breve termine è aver venduto una Mercedes a chi non poteva pagarla in contanti, quello a lungo è che il sistema finanziario tedesco è pieno di crediti di difficile esigibilità.
Dunque la crisi dell’Euro è, sostanzialmente, una crisi della bilancia dei pagamenti interni. E può essere superata solo con la competitività e non con la disciplina fiscale. Ma la competitività (essendo termine relativo) significa indebolendo la forza commerciale tedesca. Esprimendo la cosa con nostre parole, qui si genera un dilemma irrisolvibile tra l’aggressivo mercantilismo germanico, tramite il quale ha inteso per la terza volta di dominare l’Europa, e gli effetti cumulati dello strumento adoperato (che è l’indebitamento degli altri) che diventa insostenibile per eccesso di successo.
Soluzioni semplici infatti non esistono, secondo quanto riportato dall’autore “non può esistere una politica monetaria europea che garantisca prezzi stabili ai tedeschi e al tempo stesso consenta la graduale riduzione dello svantaggio di costo esistente in Spagna e Italia”. Né è possibile ottenerlo tramite una maggiore inflazione in Germania, perché “non fa parte delle basi sulle quali è stato stipulato il Trattato dell’unione monetaria”. (p. 64)

Osservando più da vicino il deficit di competitività che si è creato, Sarrazin vede che (tab. 11, p.67) il costo del lavoro per unità di prodotto con Germania 2000 = 100 è nel 2010, 102 per la Germania stessa ma 137,3 per l’Italia. Separando le voci il costo del lavoro è inferiore (70 contro 100), ma la produttività del lavoro è solo il 66% di quella tedesca. Il rischio (e questo è di straordinaria importanza per la comprensione reale della situazione e delle paure di molti operatori) che “se uno o più paesi diventassero insolventi, si arriverebbe a crediti inesigibili di cui si dovrebbe fare carico la Bundesbank, e quindi la Germania, per un 27% che corrisponde alla propria quota di partecipazione all’eurosistema” (p. 58).

Questi squilibri generano allora un potenziale rischio che era presente nella discussione originaria solo sotto forma d’indebitamento pubblico (la teoria liberale vede l’indebitamento privato come irrilevante, peccato che come si vede lo diventi invece, ed anche molto, quando debiti e corrispondenti crediti si concentrano nelle mani di attori diversi). Dunque, con le parole di Sarrazin: “i controlli e le limitazioni all'indebitamento pubblico avevano giocato un ruolo centrale in tutte le riflessioni sin dall'inizio dei preparativi per l’unione monetaria. Dopotutto l’inflazione e il crollo di una valuta sono storicamente sempre state provocate da finanze pubbliche andate fuori controllo. A ciò si aggiunge la particolare sensibilità dei tedeschi, la cui moneta è collassata due volte a causa delle guerre finanziate dalla banca centrale” (p.68). In questo notevole brano troviamo la ragione dei famosi Parametri di Maastricht (il tetto del 3% annuo del PIL per il deficit pubblico e del 60% per il debito pubblico). Parametri che “non erano certamente cogenti da un punto di vista scientifico, ma erano pur sempre pragmaticamente sensati. Si potevano considerare come una regola di buon senso sull'indebitamento”.
Per Sarrazin essenzialmente nella Prima e Seconda Guerra mondiale un potere politico forte ha imposto alla Banca Centrale di finanziare l’armamento e la guerra, generano imponenti deficit che la sconfitta ha impedito di affrontare. Le sue esatte parole sono: “in entrambi i casi ha reso impossibile affrontare gradualmente il problema dell’eccesso di denaro, dalla posizione di forza dei vincitori, grazie all'afflusso di risorse dai Paesi sconfitti” (cioè saccheggiandoli). (p. 84)
Il “buon” senso, che cita l’autore tedesco, e che giustifica le regole rigide di Maastricht, è generato quindi interamente dallo sfruttamento di una paura, e da una memoria storica manipolata. Già negli anni sessanta la Bundesbank, infatti, ha avviato una martellante campagna di stampa accompagnata da insistenti Convegni scientifici, e Relazioni, per dimostrare che l’ascesa di Hitler era stata favorita dall’iperinflazione degli anni venti, quando lo fu dalla successiva austerità (basta controllare le date). Ma questo è un tema che merita un approfondimento, che faremo. Per ora basti l’ammissione dell’infondatezza “scientifica” dei Parametri, che sono essenzialmente un progetto politico e sociale tedesco (più precisamente della finanza tedesca).
Come del resto ammette esplicitamente Sarrazin, la Bundesbank, secondo una sua “classica tradizione, ha sempre utilizzato la politica monetaria per disciplinare la politica finanziaria” (p. 99). Cioè per disciplinare il potere politico e la democrazia. Lo stesso Draghi, Direttore Generale del Ministero del Tesoro Italiano negli anni novanta, ha utilizzato la stessa logica nella BCE, “la utilizzava di proposito per sottoporre a maggiore pressione la politica finanziaria degli stati dell’Euro”. Esercitando, cioè, una “pressione esterna sulle decisioni politiche”.

Naturalmente, come riconosce il nostro facendo l’esempio dell’equilibrio tra tasse, e tassi bassi accompagnati da ingenti prestiti dei cittadini allo Stato (che ha enorme debito cumulato), è tutta questione di equilibri. Quello Giapponese è sostenibile perché crediti e debiti restano entro il perimetro della nazione. Il caso esemplare opposto è la Spagna, che ha quasi tutto il suo debito con l’estero. Ora, in un’Unione Monetaria manca la Banca d’Emissione che possa fare da prestatore di ultima istanza, per questo il controllo del debito assume questa importanza. Purtroppo l’effetto è stato l’opposto, il credito a buon mercato (derivante dalla “fase credibile” dell’Euro) ha indotto comportamenti (privati) di sovra indebitamento. Quando si è perso l’effetto (ed è emerso il rischio insolvenza) i tassi si sono divaricati provocando una crisi del debito di enormi proporzioni.
Un altro aspetto della crisi, ma strettamente connesso, è il <blocco del credito> che Sarrazin riconduce alla relativa carenza di progetti redditizi e di investitori capaci di apportare i necessari capitali propri. (p.81)

Per tutte queste ragioni la Moneta Unica “non è stato un affare” e aumenta anzi la possibilità che “abbia portato a grosse predite” (derivanti dal possibile crollo del sistema Target 2, e quindi della guerra mercantile tedesca).

A questo punto, la conclusione di Sarrazin può essere più chiara: dato che la politica di bilancio e finanziaria sono “il cuore di uno stato”, e che la disciplina nordica necessaria per mantenere diversi sistemi in equilibrio, senza ricorrere alla monetizzazione ed alla finanza anglosassone, presuppone proprio il controllo stretto dei bilanci, questa struttura va abbandonata.


L’alternativa è perdere la pace e l’amicizia tra i popoli, ed incentivare la percezione di un’arroganza tedesca (fondata, “non a torto”, sulla proiezione del proprio modello come ottimale per tutti). 

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