Nel 2012 è uscito in
Germania un libro di parte liberale,
scritto da uno dei protagonisti della vita politica ed economica degli ultimi
anni, molto attivo sia nel processo di annessione (l’anschluss) sia
e soprattutto nei negoziati per la formazione del Trattato di Maastricht e la
successiva implementazione dell’Euro. Membro del Partito Socialdemocratico fino
al 2009 ed ex assessore alle finanze del Comune di Berlino (oltre che di ruoli
direttivi in Deutsche Bank e prima in Deutsche Bahn), si tratta sicuramente di
un membro dell’establishment tedesco.
Con questo libro “L’Europa non ha bisogno dell’Euro”,
assume una posizione critica nei confronti della Moneta Unica, ma da un punto
di vista molto “tedesco”. Come vedremo, per molti versi si tratta degli argomenti
simmetrici a quelli che siamo ormai più abituati a frequentare. Tuttavia
ascoltarli da un tale testimone è estremamente interessante.
Scheletricamente, e
facendo al ricco testo una certa necessaria violenza, l’argomento che mi appare
come centrale è che l’Euro deve essere abbandonato per salvare la pace in Europa. Perché non si possono cambiare i
popoli con strumenti surrettizi, con le sue parole: “visto che le società e i
popoli non si lasciano cambiare dall’esterno né bisognerebbe provarci, per
nulla al mondo, sempre che si voglia mantenere la pace e l’amicizia tra i
popoli”, allora bisognerebbe lasciare chi non vuole vivere secondo la “disciplina
dell’unione monetaria” (che è disegnata su standard tedeschi) di tornare alla
propria divisa nazionale.
Ma questa posizione
poggia, letteralmente, sull’idea che esistano due approcci alla politica economica:
quello tedesco e quello anglosassone. E che lo scontro tra questi due modelli
informi le differenze politiche e sociali tra gli Stati membri.
Il modello anglosassone
è basato sul debito (e sul credito) ed è fondato su una continua, ed artificiale,
accelerazione della crescita, sulla ricerca ed espansione delle opportunità di
investimento e di consumo, al fine di ampliare la creazione di moneta a sua
volta garantita dalla Banca Centrale. Questa ha, infatti, la duplice “missione”
di garantire la crescita (la piena occupazione) e la stabilità dei prezzi. Ma
nel cercare di adempiere a questa missione contraddittoria (secondo il punto di
vista di Sarrazin) crea continuamente instabilità e rischi. Il 2008 ne è stato
l’esempio e la piena dimostrazione.
Il modello tedesco è
l’opposto: basato sui risparmi prodotti dai territori, per Sarrazin implica lo
sforzo di garantire sempre la stabilità dei prezzi ed il contenimento di ogni
rischio di inflazione. L’economia predilige la stabilità e non è drogata dal debito.
Il debito è, infatti, una “colpa”. Induce in questa “colpa” sostanzialmente la politica, a questo fine la Banca Centrale , nel
modello stabile, è volta a “disciplinare” la politica. Questa “disciplina” è
portata avanti dalla Bundesbank sin dal tempo dello scontro con Hitler (che
voleva una politica più espansiva e la monetizzazione sia del debito di guerra
sia degli investimenti per lo sviluppo ed il riarmo), e ha informato l’intera
politica del dopoguerra.
Questa opposizione,
fortemente idealizzata, informa l’intera argomentazione del testo che non
nasconde affatto, anzi rivendica, il disegno tedesco delle istituzioni
monetarie europee. Al contrario lamenta e stigmatizza la mancanza di coerenza
nell’indulgere in “salvataggi” e in politiche di sostegno a suo dire proibite
dai Trattati a piena ragion veduta. Secondo Sarrazin l’Europa è, insomma, un
progetto politico imperfetto e per molti versi impossibile (“in ultima istanza
impossibile”). Un progetto che in questa forma ambiziosa va abbandonato, essenzialmente
per salvaguardare la pace.
Ma andiamo con più ordine
nella lettura almeno di alcuni passaggi; per l’economista tedesco, con l’Euro,
“la Germania
si è infilata in una scommessa generica nei contenuti e poco chiara nei rischi,
sacrificando gli interessi tedeschi” (p.7) in base ad un’ipotesi di costruzione
di Unione Politica che in molti non volevano ed ancora oggi non vogliono. Un
progetto in cui la maggior parte dei tecnici non credevano (e con ragione).
Secondo Sarrazin alla fine il progetto fu scelto perché “le persone non
ragionano sulla base delle argomentazioni. Solo gli esperti lo fanno e solo
quando sono tra loro. Le persone pensano per immagini, e meno se ne intendono
di qualcosa più lo fanno”. Per questo motivo quando Kohl fu davanti alla
decisione di promuovere Maastricht guardò al suo ruolo nella Storia, più che ai
particolari che non capiva. I tecnici (Hans Tietmeyer, Horst Kohler, Jurgen
Stark) “strinsero i denti per contribuire a dar vita a quella figura da sogno,
l’Unione Monetaria Europea. Inventarono persino un’incubatrice di nome
<Patto di Stabilità> e in via precauzionale lo misero a disposizione”
(p.10).
Dunque quel mostro che
oggi riconosciamo (ed in fondo anche Sarrazin) nel “Patto di Stabilità”, che
costringe tutti paesi europei a politiche procicliche distruttive e resta come
un abito monotaglia in una caserma, troppo stretto per alcuni e largo per
altri, era “un’incubatrice”. Serviva a garantire che il bambino della Moneta
Unica potesse diventare grande e non morisse nella culla. Purtroppo mai nulla
va come è immaginato. Soprattutto dai
tecnici. E quindi la creatura ha preso vita propria, determinando le azioni
di politici che Sarrazin vede prigionieri del “debito morale del dopoguerra” e
costretti, dunque, a continui risarcimenti.
Il punto di vista
tedesco (di alcune élite tedesche) si affaccia, prepotente, in questa
argomentazione: alla Germania non conviene, e non può, farsi carico del
salvataggio compensativo dei paesi
indebitati. Dunque ognuno si dovrebbe salvare da solo. Se no, nel
contesto della globalizzazione che riduce le prerogative degli Stati Nazionali,
controllare i comportamenti di indebitamento degli Stati induce “ingerenze di
un’ampiezza tale da privare lo Stato delle sue prerogative di sovranità,
altrimenti è inefficace” (p. 17).
Secondo la ricostruzione
del vecchio protagonista, tutto nasce nei tre anni di intense negoziazioni che
seguirono la consegna del “Rapporto Delors” nella primavera del 1989, e nei sei
anni di “frenetici preparativi”, prima della vera e propria Unione Monetaria. Cardini
di questi intensi negoziati sono stati da una parte la volontà francese di
continuare la politica di “vincolare e dominare la Germania ”, dall’altra la
volontà della Germania stessa di trasporre lo spirito della Bundesbank nelle
nuove istituzioni. Il cardine di tutto
era la decisione di non “prendere parte” al finanziamento del debito pubblico.
Cioè di non fare ciò che normalmente fanno gli USA (con la FED ), il Giappone (con la BoJ ) la Gran Bretagna (con la BoE ), e che oggi prende nome
di “alleggerimento quantitativo”. L’esclusione assoluta della monetizzazione
della politica fiscale e del debito, senza
che nessuno se ne sia compiutamente accorto e senza che se ne sia discusso
approfonditamente, però, “modificò sostanzialmente la natura dei Titoli di Stato nell’Eurozona”. In sostanza è emerso
quel che in nessun altro sistema sovrano esiste: il rischio default.
Dalla comparsa di questo
rischio discendono numerose conseguenze, incluso l’imposizione di maggiore
capitalizzazione alle Banche (e quindi la restrizione del credito che si è
vista all’opera man mano che le Convenzioni “di Basilea” avanzavano).
Il secondo pilastro dell’accordo
Franco-Tedesco è la clausola di “non salvataggio” (“no bail-out”), in base alla quale uno Stato insolvente non può
essere salvato. Questa clausola doveva impedire che gli Stati si
sovraindebitassero, cioè doveva ridurre il cosiddetto “rischio morale”.
Il terzo, e più
importante in assoluto, equivoco alla base della incomprensione della struttura
che si veniva a creare con l’Euro era che i tassi di interesse più bassi e
l’inflazione sotto controllo determinata dalla presenza dell’Unione Monetaria
fosse “un regalo”. Oppure, come si disse, “un dividendo” dell’Euro. Invece chi
ha visto dimezzare i propri interessi ed in risposta ha raddoppiato il debito
(impegnando il budget liberato) ha trascurato due cose: che la bassa inflazione
stabilizzava il debito (che con una inflazione più alta si riduce da sé) e che
con prezzi stabili non si può più scaricare sui clienti eventuali costi
crescenti. Il meccanismo che si genera è in questo modo perverso e si potrebbe
descrivere così: se aumento il debito per stimolare i consumi tendono ad
alzarsi i prezzi interni, ma i clienti esterni restano con il vecchio prezzo, e
quindi perdo competitività. Inoltre nel sistema complessivo siamo tutti in
contatto senza un cambio a mediare i differenziali di costo di produzione,
dunque “aumenta la pressione competitiva e si aggravano le conseguenze di
decisioni sbagliate a livello imprenditoriale e di politica economica. Con
l’inflazione si possono ridurre o correggere le storture nelle dinamiche di
prezzi e costi in maniera flessibile e senza dare nell’occhio, semplicemente
lasciando passare il tempo, ma con l’Euro anche questo è diventato
assolutamente impossibile” (p. 25).
Questi gravissimi equivoci,
fecero sì che la struttura del Trattato (definita tale per consentire la firma
della Germania) fu presa sul serio solo da Austriaci, Olandesi e Tedeschi (che,
peraltro, nel 2002-3 le violarono per primi).
Alla partenza della
crisi, e soprattutto nel momento critico del 2011, si aprì quindi un “grande
gioco di potere politico-economico”, rivolto a costringere la BCE ad assumere il ruolo di
prestatore di ultima istanza che il Trattato di Maastricht escludeva
espressamente. Sarrazin cita, in questo contesto, le posizioni di Roubini,
Krugman, Rurup, Bofinger, tutti favorevoli all’acquisto di titoli di Stato da
parte della BCE. Della stessa opinione, i capo economisti di grandi banche, tra
cui il Capo Economista della Deutsche Bank, Thomas Meyer secondo il quale la BCE deve fissare un tasso
massimo per i Titoli italiani (5%) e difenderlo illimitatamente. Tutti questi
operatori consideravano il rischio di stimolare l’inflazione come un male
minore. Tutto ciò in un contesto nel quale la moneta
unica, dopo aver favorito l’indebitamento pubblico e privato (soprattutto) alla
fine ha determinato effetti che il libro qualifica come “sempre più nocivi”
sulla crescita economica dei paesi meridionali. E questo per un motivo
semplicissimo: “da una parte sono prigionieri nella trappola dei costi, che
ostacola le esportazioni e sfavorisce le imprese nazionali anche sul mercato
interno. D’altra parte le difficoltà di bilancio fanno sì che non ci siano
soldi per un’efficace politica di stimolo fiscale”. (p. 36)
Nella Tabella 3, a pag. 36 l’autore riporta,
a dimostrazione di questa tesi, il PIL procapite a parità di potere di acquisto
dall’inizio dell’Unione Monetaria al 2010. L’intera Eurozona che era al 113%
sulla media UE, è scesa al 108%; ma sono scesi quasi tutti. La Germania da 121% a 118%; la Francia da 115 a 108; l’Italia da 118% a
101%. Conservano i loro valori la
Svizzera (146% a 147%), l’Irlanda, che fa una parabola
salendo prima da 127% a 148% nel 2007, per poi riscendere al 128%. Guadagnano
comunque qualcosa la Spagna
(da 96% a 100%) e la Grecia
(da 83% a 90).
In particolare
“l’andamento dell’Italia è stato drammatico”. Negli anni della seconda crisi
(2011-13) gli unici due paesi che si erano avvantaggiati, la Spagna e la Grecia , “lo stanno pagando
a caro prezzo”.
Gli effetti dei
Pacchetti sono controproducenti, per l’autore, perché “vengono costretti de
facto a proseguire con uno sviluppo incontrollato del debito. Le riforme
economiche concepite come misure di stabilizzazione hanno, per lo meno nel
breve periodo, un effetto recessivo e quindi peggiorano ulteriormente il
problema dell’indebitamento. Problema che, pur essendo la causa della crisi,
non solo non viene risolto, ma nel breve periodo viene addirittura accentuato”
(p. 116).
Il motivo per cui si
sono perseguite queste politiche è articolato, ma non ultimo c’è la cattura del
regolatore agli interessi del sistema finanziario (che avrebbe subito lui il
fallimento ed i salvataggi, invece dello Stato).
Una dinamica simile, con
obiezioni simili, è ricostruita intorno alla richiesta di Eurobond, che
Sarrazin rifiuta in base al principio “ognuno sistemi i suoi conti”. Altrimenti
si genera un rischio morale ed una tendenza ad una politica monetaria “troppo lassista”
che lacera la rete di diritti e doveri reciproci. L’autore cita a questo
proposito la rabbina Elisa Klapheck per la quale “la colpa, i debiti e i sensi
di colpa non sono nulla di male. Il senso di colpa è il collante che ci tiene
uniti. Dio è il proprietario di questo mondo, lo ha creato lui, motivo per cui
gli dobbiamo qualcosa. Ma dobbiamo qualcosa anche ai nostri simili. Il senso di
colpa è la precondizione affinché possiamo costruire una comunità”. (p.184) Ora,
la rabbina riconosce che, al contrario, “essere liberi dai debiti” e dalla
colpa (di cui l’istituzione della “confessione”, della “remissione” a fronte
del “dire la verità”) è proprio della cultura cristiana. Malgrado ciò, il nostro
spende alcune delle pagine più ispirate ed interessanti per dire che “i vincoli
sociali di sottomissione, sostentamento e tassazione esistevano da sempre”,
come da sempre esiste la bancarotta che ne fa integralmente parte.
In sostanza l’Unione
Monetaria ha sostanzialmente accresciuto le differenze. Esattamente il
risultato opposto a quello che era stato previsto o sbandierato. In particolare
per i paesi del Sud si è rivelata una vera e propria “trappola della
competitività” (p.45). Una trappola drammaticamente resa senza uscita
dall’assenza delle normali (ed automatiche) contromisure determinate dai tassi
di cambio.
Ma nel testo è contenuta
anche la descrizione compiuta di un altro meccanismo di retroazione mal
considerato: il Sistema di connessione tra i crediti bancari a “tre piani” (BCE,
Banche Centrali Nazionali e Banche Commerciali) che porta il nome Target 2. Nel quadro determinato da questo sistema (che il libro descrive da pag.
54) i crediti netti della Bundesbank nei confronti dell’Eurosistema (che nel
2006 erano di 18 miliardi), sono esplosi. Nel 2008, in due anni, erano
saliti a 129 miliardi e nel 2012,
in sei anni, a 550 miliardi. Si tratta di quello che
Sinn ha chiamato “un errore strutturale dell’Euro come valuta comune”. In
sostanza il credito apparentemente illimitato, tramite il sistema Target 2, ha spento il normale
“campanello d’allarme” costituito dal calo delle riserve in valuta, che in
presenza di squilibri commerciali determina normalmente o un aggiustamento di
cambio o una restrizione di credito. La cosa, sempre secondo Sinn, ha una
somiglianza con la situazione degli USA alla fine del sistema di Bretton Woods,
quando lo squilibrio era finanziato in valuta estera grazie al ruolo di moneta
di riserva del dollaro (fino a che fu insostenibile): “Come gli USA oggi i pigs
riescono ad ottenere in questo modo un afflusso di capitali da Paesi stranieri
che si ritrovano esposti ad un incontrollato rischio di credito”. “In breve.
Quando i greci volevano importare una Mercedes, chiedevamo alla Bundesbank di
stampare soldi e spedirli alla sede della Daimler, in cambio di un titolo di
credito che consegnavano alla Bundesbank”. Il risultato a breve termine è aver
venduto una Mercedes a chi non poteva pagarla in contanti, quello a lungo è che
il sistema finanziario tedesco è pieno di crediti di difficile esigibilità.
Dunque la crisi
dell’Euro è, sostanzialmente, una crisi della bilancia dei pagamenti interni. E
può essere superata solo con la competitività e non con la disciplina fiscale. Ma
la competitività (essendo termine relativo) significa indebolendo la forza
commerciale tedesca. Esprimendo la cosa con nostre parole, qui si genera un
dilemma irrisolvibile tra l’aggressivo mercantilismo germanico, tramite il
quale ha inteso per la terza volta di dominare l’Europa, e gli effetti cumulati
dello strumento adoperato (che è l’indebitamento degli altri) che diventa
insostenibile per eccesso di successo.
Soluzioni semplici infatti
non esistono, secondo quanto riportato dall’autore “non può esistere una
politica monetaria europea che garantisca prezzi stabili ai tedeschi e al tempo
stesso consenta la graduale riduzione dello svantaggio di costo esistente in
Spagna e Italia”. Né è possibile ottenerlo tramite una maggiore inflazione in
Germania, perché “non fa parte delle basi sulle quali è stato stipulato il
Trattato dell’unione monetaria”. (p. 64)
Osservando più da vicino
il deficit di competitività che si è creato, Sarrazin vede che (tab. 11, p.67)
il costo del lavoro per unità di prodotto con Germania 2000 = 100 è nel 2010,
102 per la Germania
stessa ma 137,3 per l’Italia. Separando le voci il costo del lavoro è inferiore
(70 contro 100), ma la produttività del lavoro è solo il 66% di quella tedesca.
Il rischio (e questo è di straordinaria importanza per la comprensione reale
della situazione e delle paure di molti operatori) che “se uno o più paesi
diventassero insolventi, si arriverebbe a crediti inesigibili di cui si
dovrebbe fare carico la
Bundesbank , e quindi la Germania , per un 27% che corrisponde alla propria
quota di partecipazione all’eurosistema” (p. 58).
Questi squilibri
generano allora un potenziale rischio che era presente nella discussione
originaria solo sotto forma d’indebitamento pubblico (la teoria liberale vede l’indebitamento
privato come irrilevante, peccato che come si vede lo diventi invece, ed anche
molto, quando debiti e corrispondenti crediti si concentrano nelle mani di
attori diversi). Dunque, con le parole di Sarrazin: “i controlli e le
limitazioni all'indebitamento pubblico avevano giocato un ruolo centrale in
tutte le riflessioni sin dall'inizio dei preparativi per l’unione monetaria. Dopotutto
l’inflazione e il crollo di una valuta sono storicamente sempre state provocate
da finanze pubbliche andate fuori controllo. A ciò si aggiunge la particolare sensibilità
dei tedeschi, la cui moneta è collassata due volte a causa delle guerre
finanziate dalla banca centrale” (p.68). In questo notevole brano troviamo la
ragione dei famosi Parametri di Maastricht (il tetto del 3% annuo del PIL per
il deficit pubblico e del 60% per il debito pubblico). Parametri che “non erano
certamente cogenti da un punto di vista scientifico, ma erano pur sempre
pragmaticamente sensati. Si potevano considerare come una regola di buon senso
sull'indebitamento”.
Per Sarrazin
essenzialmente nella Prima e Seconda Guerra mondiale un potere politico forte
ha imposto alla Banca Centrale di finanziare l’armamento e la guerra, generano
imponenti deficit che la sconfitta ha impedito di affrontare. Le sue esatte
parole sono: “in entrambi i casi ha reso impossibile affrontare gradualmente il
problema dell’eccesso di denaro, dalla posizione di forza dei vincitori, grazie
all'afflusso di risorse dai Paesi sconfitti” (cioè saccheggiandoli). (p. 84)
Il “buon” senso, che
cita l’autore tedesco, e che giustifica le regole rigide di Maastricht, è
generato quindi interamente dallo sfruttamento di una paura, e da una memoria storica manipolata. Già negli anni sessanta la Bundesbank , infatti, ha
avviato una martellante campagna di stampa accompagnata da insistenti Convegni
scientifici, e Relazioni, per dimostrare che l’ascesa di Hitler era stata
favorita dall’iperinflazione degli anni venti, quando lo fu dalla successiva austerità (basta controllare le date).
Ma questo è un tema che merita un approfondimento, che faremo. Per ora basti l’ammissione
dell’infondatezza “scientifica” dei Parametri, che sono essenzialmente un
progetto politico e sociale tedesco (più precisamente della finanza tedesca).
Come del resto ammette
esplicitamente Sarrazin, la
Bundesbank , secondo una sua “classica tradizione, ha sempre utilizzato la politica monetaria
per disciplinare la politica finanziaria” (p. 99). Cioè per disciplinare il
potere politico e la democrazia. Lo stesso Draghi, Direttore Generale del
Ministero del Tesoro Italiano negli anni novanta, ha utilizzato la stessa
logica nella BCE, “la utilizzava di proposito per sottoporre a maggiore
pressione la politica finanziaria degli stati dell’Euro”. Esercitando, cioè, una
“pressione esterna sulle decisioni politiche”.
Naturalmente, come
riconosce il nostro facendo l’esempio dell’equilibrio tra tasse, e tassi bassi
accompagnati da ingenti prestiti dei cittadini allo Stato (che ha enorme debito
cumulato), è tutta questione di equilibri.
Quello Giapponese è sostenibile perché crediti e debiti restano entro il
perimetro della nazione. Il caso esemplare opposto è la Spagna , che ha quasi tutto
il suo debito con l’estero. Ora, in un’Unione Monetaria manca la Banca d’Emissione che possa
fare da prestatore di ultima istanza, per
questo il controllo del debito assume questa importanza. Purtroppo l’effetto
è stato l’opposto, il credito a buon mercato (derivante dalla “fase credibile”
dell’Euro) ha indotto comportamenti (privati) di sovra indebitamento. Quando si
è perso l’effetto (ed è emerso il rischio insolvenza) i tassi si sono divaricati
provocando una crisi del debito di enormi proporzioni.
Un altro aspetto della
crisi, ma strettamente connesso, è il <blocco del credito> che Sarrazin
riconduce alla relativa carenza di progetti redditizi e di investitori capaci
di apportare i necessari capitali propri. (p.81)
Per tutte queste ragioni
la Moneta Unica
“non è stato un affare” e aumenta anzi la possibilità che “abbia portato a
grosse predite” (derivanti dal possibile crollo del sistema Target 2, e quindi
della guerra mercantile tedesca).
A questo punto, la conclusione
di Sarrazin può essere più chiara: dato che la politica di bilancio e
finanziaria sono “il cuore di uno stato”, e che la disciplina nordica
necessaria per mantenere diversi sistemi in equilibrio, senza ricorrere alla
monetizzazione ed alla finanza anglosassone, presuppone proprio il controllo
stretto dei bilanci, questa struttura va
abbandonata.
L’alternativa è perdere
la pace e l’amicizia tra i popoli, ed incentivare la percezione di un’arroganza
tedesca (fondata, “non a torto”, sulla proiezione del proprio modello come
ottimale per tutti).
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