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mercoledì 21 maggio 2014

Branko Milanovic, “La globalizzazione senza redistribuzione porterà al caos”


Su un sito in lingua spagnola, Sin permiso, Branko Milanovic che è probabilmente il massimo esperto di distribuzione ineguale dei redditi e della ricchezza, ha rilasciato questa breve intervista nella quale lancia un monito che faremmo bene ad ascoltare attentamente. Almeno dagli anni novanta l’argomento principe che è stato avanzato per promuovere l’integrazione dell’economia europea è che la globalizzazione, e la concorrenza che ne deriva, la rendono necessaria. Ciò che viene proposto come necessario è, in particolare, un adeguamento dei nostri sistemi sociali ed economici a quelli concorrenti (essenzialmente ai concorrenti a basso reddito, al modello delle autocrazie autoritarie orientali), perché altrimenti “non conteremo”. Ancora più in dettaglio, quel che diventa difficile sostenere è la spesa pubblica (per investimenti e welfare) estraendo risorse dalla produzione di ricchezza.

Quante volte avete sentito questo discorso? Non è infondato, ma parziale, e soprattutto è avanzato avendo di mira in realtà un obiettivo diverso: ciò che ci viene raccontato al fondo è che dobbiamo essere tutti più poveri perché i capitali possano essere abbastanza forti da competere, perché vengano attratti e trattenuti, e non fuggano in altri continenti. Di fronte a questo superiore interesse ogni alternativa non può essere neppure presa in considerazione. E’ questo l’interesse pubblico prevalente.

Branko Milanovic, Capo Economista della Banca Mondiale, ci ricorda che questa internazionalizzazione dei capitali ha un legame interno necessario con due fenomeni del nostro tempo: populismo e plutocrazia. E che questo tipo di mondo è incompatibile con la democrazia come noi la conosciamo.
Dalla caduta del Muro di Berlino (1989) alla nascita del WTO (1995, costituita dopo i negoziati dell’Uruguay Round) la globalizzazione degli scambi ha preso piede sulla base di due spinte ciclopiche: la fine del modello socialista, con conseguente affermazione del modello capitalista anglosassone come dominante; e l’irruzione della Cina come “officina del mondo”. La conseguenza, riferita alla distribuzione complessiva del reddito, è che un gran numero di persone ha visto crescere nel mondo i suoi redditi. Milanovic mostra “che tra il 1988 e il 2008, questa <nuova classe media globale> composta da centinaia di milioni di lavoratori, ha notevolmente progredito, circa dell'80% in termini reali”. Nello stesso modo sono cresciuti dell’80% i redditi del top ricco nei paesi OCSE (il famoso primo 1%).
Ma, non tutto brilla: “ci sono due tipi di persone che hanno sofferto. Che chiaramente la globalizzazione ha bypassato: sono i molto poveri in paesi molto poveri, ...  e le persone che possedevano un reddito che li inseriva prima [in mezzo] tra i più ricchi e la nuova classe media globale, vale a dire, la popolazione delle classi medie e inferiori dei paesi di OCSE”.  

Dunque si può dire che nei nostri paesi le ineguaglianze siano letteralmente esplose negli ultimi venti anni. A partire dalla totale liberalizzazione degli scambi di merci e di capitali che è una “invenzione” in effetti recentissima (o la reinvenzione dell’epoca dell’imperialismo).

Questa è l’ineguaglianza che, per Milanovic, minaccia le nostre democrazie. Infatti la verità è che solo i “super ricchi” si avvantaggiano di questa situazione; per la grande massa “c’è stata una stagnazione o addirittura un ripiegare del reddito”. “Negli Stati Uniti, dove più drammatico è stato il cambiamento, la classe media non corrisponde a più del 21% del reddito del paese, contro il 32% nel 1979, vale a dire un calo di un terzo”.  
Quella che l’autore vede è in sostanza una “alleanza de facto” tra i “vincitori”, cioè tra l'élite dei ricchi nei nostri paesi e le classi medie dei paesi emergenti, che “li pone in una posizione di rottura con le classi popolari nel loro paese”. Si apre in questo modo una radicale divergenza di interessi (ed una separazione sociale) che è “l'altro nome della globalizzazione, [ed] è a mio parere un grande pericolo per tali democrazie. Si può riassumere nel concetto del doppio P: Populismo e Plutocrazia”.  

Dunque il movimento della messa in concorrenza, senza protezioni o solidarietà sociale, della forza lavoro nei paesi occidentali con quella avviata alla produzione nei paesi in sviluppo da parte del capitale mobile (sostanzialmente OCSE) porterà, secondo la valutazione del Capo Economista della Banca Mondiale, ad altri cinquanta anni di stagnazione e regressione dei redditi della maggioranza e contemporaneamente ad una “grande vita” per l’1%. Infatti dopo che avremo finito di sfruttare la manodopera sottoutilizzata (perché dedita ad agricoltura a bassa produttività) in Cina ci sono India, Bangladesch e dopo l’Africa. Con i dovuti investimenti in termini di infrastrutture di trasporto, istruzione di base, stabilizzazione politica e amministrativa, ben oltre un altro miliardo di persone possono passare dall’impollinazione a mano degli alberi da frutta alla produzione di ipad in fabbriche su licenza occidentale.
Per fare accettare questa dura condizione alle popolazioni dei paesi sviluppati ci sono a disposizione le “due P”: Populismo e Plutocrazia. Del resto, come ricorda Milanovic, il secondo è ormai “quasi in pratica negli Stati Uniti”. 
E’ ormai da tempo solo “l'empowerment politico” dei ricchi a dettare l'agenda politica al paese oltreoceano; si parte dal finanziamento dei candidati allo scopo di assicurarsi che le leggi portino l’adeguato beneficio. Uno studio condotto dal sociologo Larry Bartels dimostra che i senatori statunitensi, qualunque sia il loro colore politico, sono sei volte più sensibili agli interessi dei ricchi rispetto delle masse. In genere ciò si traduce in notevoli tagli alle tasse per i ricchi e conseguentemente in enormi difficoltà a finanziare spese a vantaggio degli altri. Questa è la via che ha “aperto un enorme divario tra la maggioranza della popolazione e la democrazia”. Ma non succede solo negli USA: “alla fine della giornata, i governi di Mario Monti in Italia e Lukas Papademos in Grecia sono i migliori esempi di questa deriva”. Tra l’altro anche per le opache modalità in cui si sono affermati (mi riferisco alle polemiche uscite dopo le “rivelazioni” di Tin Geithner).

L'altra opzione è il Populismo. Si tratta di una reazione agli effetti della teoria economica del libero scambio, che impone la libera circolazione delle merci, ma anche dei fattori di produzione. Senza agire sulla prima (la libera circolazione) o senza procedere a una redistribuzione del reddito, esso cerca di placare i perdenti della globalizzazione nei paesi ricchi.    

Queste due opzioni, sono dunque in relazione l'una all'altra. Per Milanovic è questo il paradosso: per rendere accettabile socialmente e politicamente la globalizzazione “gli Stati europei devono porre l'accento sulla redistribuzione. E fare in modo che i grandi vincitori condividano i benefici con i perdenti”. Ma per fare ciò abbiamo un solo strumento: lo Stato Sociale, come vede correttamente l'economista Dani Rodrik. L’alternativa è che la globalizzazione venga rotta (è del resto già successo, e, nelle condizioni diverse dell’inizio del secolo scorso, portò a due guerre).

In modo assolutamente miope ed irresponsabile, invece, assistiamo al triste spettacolo di politiche esattamente opposte: “politiche di austerità minano le risorse del welfare state, e questo è esacerbato dalla concorrenza fiscale, che porta ad aliquote ridotte per i più ricchi, come dimostrato nettamente Thomas Piketty”.     

Dunque la soluzione a questi dilemmi “è di intensificare la redistribuzione nei paesi sviluppati”, ma “la controrivoluzione liberale” ha portato all’affermazione, nel dibattito pubblico e persino nelle classi medie che hanno tutto da perdere un paradigma che non è favorevole alla redistribuzione, “e che, oggi, è pienamente operativo”. Del resto è molto difficile scalfirlo anche per il robusto controllo del sistema economico (e per questa via dei media) che “trenta anni di questo regime ha portato”; si è generato un accumulo di capitale da parte del segmento più ricco della popolazione che non è paragonabile a nulla di quanto aveva conosciuto dopo la guerra. In modo non molto sorprendente (ma non previsto nella teoria liberale) “questa distanza con le altre classi ha inoltre portato ad un separatismo sociale senza precedenti”. 

In queste condizioni sarebbe nello stesso interesse dei ricchi (se ben compreso) revisionare e riconsiderare questo paradigma troppo parziale, “se vogliono continuare la globalizzazione, dato che ne sono i principali beneficiari”. 

Se insieme alla possibilità di scambiare merci e commerciare, di spostarsi, di condividere le idee, di investire non si sviluppa un pensiero all’altezza dei problemi “secondari” che nascono nei diversi sistemi economici e territori. Cioè se si pratica una globalizzazione indifferente (o “estrema”, come la chiama Milanovic) senza attenzione ai perdenti, lasciandoli soli, si può produrre un rifiuto puro e semplice di tutte le forme di cooperazione. 


Allora “l’orizzonte è il caos. E per tutti ...”  

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