Su un sito in
lingua spagnola, Sin permiso, Branko
Milanovic che è probabilmente il massimo esperto di distribuzione ineguale dei
redditi e della ricchezza, ha rilasciato questa breve intervista nella
quale lancia un monito che faremmo bene ad ascoltare attentamente. Almeno dagli
anni novanta l’argomento principe che è stato avanzato per promuovere
l’integrazione dell’economia europea è che la globalizzazione, e la concorrenza
che ne deriva, la rendono necessaria. Ciò che viene proposto come necessario è,
in particolare, un adeguamento dei nostri sistemi sociali ed economici a quelli
concorrenti (essenzialmente ai concorrenti a basso reddito, al modello delle
autocrazie autoritarie orientali), perché altrimenti “non conteremo”. Ancora
più in dettaglio, quel che diventa difficile sostenere è la spesa pubblica (per
investimenti e welfare) estraendo risorse dalla produzione di ricchezza.
Quante volte
avete sentito questo discorso? Non è infondato, ma parziale, e soprattutto è avanzato avendo di mira in realtà un
obiettivo diverso: ciò che ci viene raccontato al fondo è che dobbiamo essere
tutti più poveri perché i capitali possano essere abbastanza forti da
competere, perché vengano attratti e trattenuti, e non fuggano in altri
continenti. Di fronte a questo superiore interesse ogni alternativa non può
essere neppure presa in considerazione. E’ questo
l’interesse pubblico prevalente.
Branko Milanovic,
Capo Economista della Banca Mondiale, ci ricorda che questa
internazionalizzazione dei capitali ha un legame interno necessario con due
fenomeni del nostro tempo: populismo e
plutocrazia. E che questo tipo di mondo è incompatibile con la democrazia
come noi la conosciamo.
Dalla caduta del
Muro di Berlino (1989) alla nascita del WTO
(1995, costituita dopo i negoziati dell’Uruguay Round) la globalizzazione degli
scambi ha preso piede sulla base di due spinte ciclopiche: la fine del modello
socialista, con conseguente affermazione del modello capitalista anglosassone
come dominante; e l’irruzione della Cina come “officina del mondo”. La
conseguenza, riferita alla distribuzione complessiva del reddito, è che un gran
numero di persone ha visto crescere nel mondo i suoi redditi. Milanovic mostra
“che tra il 1988 e il 2008, questa <nuova classe media globale> composta
da centinaia di milioni di lavoratori, ha notevolmente progredito, circa dell'80%
in termini reali”. Nello stesso modo sono cresciuti dell’80% i redditi del
top ricco nei paesi OCSE (il famoso primo 1%).
Ma, non tutto
brilla: “ci sono due tipi di persone che hanno sofferto. Che chiaramente
la globalizzazione ha bypassato: sono i molto poveri in paesi molto poveri, ...
e le persone che possedevano un reddito che li inseriva prima [in mezzo] tra i
più ricchi e la nuova classe media globale, vale a dire, la popolazione delle
classi medie e inferiori dei paesi di OCSE”.
Dunque si può
dire che nei nostri paesi le ineguaglianze siano letteralmente esplose negli
ultimi venti anni. A partire dalla totale liberalizzazione degli scambi di
merci e di capitali che è una “invenzione” in effetti recentissima (o la
reinvenzione dell’epoca
dell’imperialismo).
Questa è l’ineguaglianza
che, per Milanovic, minaccia le nostre democrazie. Infatti la verità è che solo
i “super ricchi” si avvantaggiano di questa situazione; per la grande massa
“c’è stata una stagnazione o addirittura un ripiegare del reddito”. “Negli
Stati Uniti, dove più drammatico è stato il cambiamento, la classe media non
corrisponde a più del 21% del reddito del paese, contro il 32% nel 1979, vale a
dire un calo di un terzo”.
Quella che
l’autore vede è in sostanza una “alleanza de facto” tra i “vincitori”, cioè tra
l'élite dei ricchi nei nostri paesi e le classi medie dei paesi emergenti, che
“li pone in una posizione di rottura con le classi popolari nel loro paese”. Si
apre in questo modo una radicale divergenza di interessi (ed una separazione
sociale) che è “l'altro nome della globalizzazione, [ed] è a mio parere un
grande pericolo per tali democrazie. Si può riassumere nel concetto del
doppio P: Populismo e Plutocrazia”.
Dunque il
movimento della messa in concorrenza,
senza protezioni o solidarietà sociale, della forza lavoro nei paesi
occidentali con quella avviata alla produzione nei paesi in sviluppo da parte
del capitale mobile (sostanzialmente OCSE) porterà, secondo la valutazione del
Capo Economista della Banca Mondiale, ad altri cinquanta anni di stagnazione e
regressione dei redditi della maggioranza e contemporaneamente ad una “grande
vita” per l’1%. Infatti dopo che avremo finito di sfruttare la manodopera
sottoutilizzata (perché dedita ad agricoltura a bassa produttività) in Cina ci
sono India, Bangladesch e dopo l’Africa. Con i dovuti investimenti in termini
di infrastrutture di trasporto, istruzione di base, stabilizzazione politica e
amministrativa, ben oltre un altro miliardo di persone possono passare dall’impollinazione
a mano degli alberi da frutta alla produzione di ipad in fabbriche su licenza
occidentale.
Per fare
accettare questa dura condizione alle popolazioni dei paesi sviluppati ci sono a
disposizione le “due P”: Populismo e
Plutocrazia. Del resto, come ricorda Milanovic, il secondo è ormai “quasi
in pratica negli Stati Uniti”.
E’ ormai da
tempo solo “l'empowerment politico” dei ricchi a dettare l'agenda politica al
paese oltreoceano; si parte dal finanziamento dei candidati allo scopo di
assicurarsi che le leggi portino l’adeguato beneficio. Uno studio condotto
dal sociologo Larry Bartels dimostra che i senatori statunitensi, qualunque sia
il loro colore politico, sono sei volte più sensibili agli interessi dei ricchi
rispetto delle masse. In genere ciò si traduce in notevoli tagli alle
tasse per i ricchi e conseguentemente in enormi difficoltà a finanziare spese a
vantaggio degli altri. Questa è la via che ha “aperto un enorme divario tra la
maggioranza della popolazione e la democrazia”. Ma non succede solo negli
USA: “alla fine della giornata, i governi di Mario Monti in Italia e Lukas
Papademos in Grecia sono i migliori esempi di questa deriva”. Tra l’altro anche
per le opache modalità in cui si sono affermati (mi riferisco alle polemiche
uscite dopo le “rivelazioni” di Tin Geithner).
L'altra opzione
è il Populismo. Si tratta di una
reazione agli effetti della teoria economica del libero scambio, che impone la
libera circolazione delle merci, ma anche dei fattori di produzione. Senza
agire sulla prima (la libera circolazione) o senza procedere a una
redistribuzione del reddito, esso cerca di placare i perdenti della globalizzazione
nei paesi ricchi.
Queste due
opzioni, sono dunque in relazione l'una all'altra. Per Milanovic è questo il
paradosso: per rendere accettabile socialmente e politicamente la
globalizzazione “gli Stati europei devono porre l'accento sulla
redistribuzione. E fare in modo che i grandi vincitori condividano i
benefici con i perdenti”. Ma per fare ciò abbiamo un solo strumento: lo
Stato Sociale, come vede correttamente l'economista Dani Rodrik. L’alternativa
è che la globalizzazione venga rotta (è del resto già successo, e, nelle
condizioni diverse dell’inizio del secolo scorso, portò a due guerre).
In modo
assolutamente miope ed irresponsabile, invece, assistiamo al triste spettacolo
di politiche esattamente opposte: “politiche di austerità minano le risorse del
welfare state, e questo è esacerbato dalla concorrenza fiscale, che porta ad
aliquote ridotte per i più ricchi, come dimostrato nettamente Thomas Piketty”.
Dunque la
soluzione a questi dilemmi “è di intensificare la redistribuzione nei paesi
sviluppati”, ma “la controrivoluzione liberale” ha portato all’affermazione,
nel dibattito pubblico e persino nelle classi medie che hanno tutto da perdere
un paradigma che non è favorevole alla redistribuzione, “e che, oggi, è
pienamente operativo”. Del resto è molto difficile scalfirlo anche per il
robusto controllo del sistema economico (e per questa via dei media) che “trenta
anni di questo regime ha portato”; si è generato un accumulo di capitale da
parte del segmento più ricco della popolazione che non è paragonabile a nulla
di quanto aveva conosciuto dopo la guerra. In modo non molto sorprendente (ma
non previsto nella teoria liberale) “questa distanza con le altre classi ha inoltre
portato ad un separatismo sociale senza precedenti”.
In queste
condizioni sarebbe nello stesso interesse dei ricchi (se ben compreso) revisionare
e riconsiderare questo paradigma troppo parziale, “se vogliono continuare la
globalizzazione, dato che ne sono i principali beneficiari”.
Se insieme alla
possibilità di scambiare merci e commerciare, di spostarsi, di condividere le
idee, di investire non si sviluppa un pensiero all’altezza dei problemi “secondari”
che nascono nei diversi sistemi economici e territori. Cioè se si pratica una globalizzazione
indifferente (o “estrema”, come la chiama Milanovic) senza attenzione ai
perdenti, lasciandoli soli, si può produrre un rifiuto puro e semplice di tutte
le forme di cooperazione.
Allora “l’orizzonte
è il caos. E per tutti ...”
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