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lunedì 19 maggio 2014

Tommaso Padoa-Schioppa, “Interventi prima e dopo la crisi”, 2003-2008


Il Trattato di Nizza, a dicembre 2000, e la successiva “Dichiarazione sul Futuro dell’Unione”, avviano il processo che porta (passando per la “Dichiarazione di Laeken” del dicembre 2001) al tentativo di dare una Costituzione (come un poco enfaticamente sarà chiamato quello che è più un riordino sistematico dei Trattati esistenti) all’Europa. Tentativo che porta alla convocazione di una Convenzione (Presidente Valery Giscard d’Estaing) che doveva concludere i lavori nel 2004 e portò, in effetti, ad un testo presentato il 10 luglio 2003.

Tommaso Padoa-Schioppa
In questo contesto, sul Corriere della Sera, Tommaso Padoa-Schioppa, scrive alcuni articoli significativi per illuminare il clima nel quale vengono trasmesse in quegli anni, a noi vicini, le decisioni europee e le direzioni di azione. L’autore è economista, “keynesiano liberale” durante gli anni della Banca d’Italia, dal 1979 nella Commissione Europea (Direttore Generale per l’Economia e la Finanza), tornato in Banca d’Italia e nominato nel 1989 membro del Comitato Delors che progettò l’Euro, dal 1998 al 2006 parte del Board della BCE, dal 2006 al 2008 Ministro dell’Economia e delle Finanze nel secondo governo Prodi.

Quella di Padoa-Schioppa è una figura complessa: il primo a coniare per l’Euro il termine “Moneta senza Stato”, ed a profetizzare che senza uno Stato e senza politica europea i cittadini avrebbero prima o poi presentato il conto di un’accresciuta delegittimazione; un economista che nel 2008, all’avvio della crisi internazionale, riconosce senza esitazioni che si presenta sulla scena una crisi strutturale che indurrà una svolta in merito a “ideologia economica, modello di crescita in Usa, assetti e pratiche della finanza, comportamenti delle autorità, rapporti di forza economica e politica tra le grandi aree del mondo, atteggiamento della politica” e che “il mercato non è capace di autoregolarsi” e che contiene in sé i “germi dell’autodistruzione”. Nello stesso articolo si mostra capace di proporre, dopo molti ma prima di altri, cose utili come un “prestatore di ultima istanza”, che deve essere pubblico ed europeo, e la vigilanza unitaria (presso la BCE) del sistema bancario europeo.
L’economista ex keynesiano, in questi anni si dichiara convinto sostenitore di una posizione che definisce “pragmatica”, capace di criticare contemporaneamente quelli che chiama “gli eccessi” del Keynesismo e del liberismo: “Negli anni 70 abbiamo visto il pendolo del keynesismo giungere a estremi assurdi, che hanno generato inflazione e debito pubblico. Ora vediamo gli estremi assurdi a cui sono giunte, in 30 anni, le rivoluzioni thatcher-reaganiane: per una specie di eterogenesi dei fini l'eccesso di liberismo produce statalismo.
L'economia dovrebbe essere terreno di pragmatismo, non di ideologia. Lo Stato, la politica, hanno una funzione insostituibile: il fatto che possano sbagliare non li rende inutili; anche il privato può sbagliare, come vediamo”. 
Dunque la sua analisi riconduce la crisi ormai esplosa all'eccesso di liquidità ed al ruolo di “un'ideologia troppo fiduciosa nella capacità di autoregolamentazione del mercato e un atteggiamento delle autorità troppo timoroso di scontentare le imprese e le banche”. Ciò che è mancato, a suo parere, è l’indipendenza delle Autorità di Controllo dagli operatori, oltre che solo “dalla politica”.

Purtroppo Padoa-Schioppa non sembra vedere, anche nel mezzo di una valutazione critica per certi versi promettente dei fallimenti del mercato (anche se non certo radicale, scavalcata a sinistra in effetti persino da Rajan), che essere indipendente “dalla politica”, per le Autorità di Controllo, di fatto significa esserlo dalla democrazia. Ed essere indipendente dalla democrazia, significa fatalmente non sentire la pressione di giustificare con buoni argomenti e appropriate descrizioni fattuali le proprie azioni. Senza questo contrappeso, questo legame, le “Autorità” restano inermi davanti alle pressioni degli “operatori”.

Questa incomprensione del ruolo di diga della democrazia (soprattutto, ma non solo, nella sua dimensione deliberativa) non permette a Padoa-Schioppa di inquadrare il fatto che ci sia un nesso sistematico e strutturale nell’incapacità/mancanza di volontà di “governare a sufficienza” la globalizzazione e nel fatto di “consentirla”. Alla sua frase, “il conto che la globalizzazione ci presenta è per non averla governata a sufficienza, non per averla consentita”, occorrerebbe rispondere: che “il conto” ci viene presentato dalla globalizzazione proprio perché “consentirla” disarma chi dovrebbe governarla. La globalizzazione non è infatti altro che l’insieme di norme e regolamenti, di rapporti di forza, di convenienze e di volontà dominanti la scena mondiale. Risponde sicuramente al vero che sia anche “frutto della tecnologia”, ma gli “impulsi umani” cui risponde sono gli stessi presenti sempre nella storia umana. Se in alcuni momenti storici hanno determinato degli effetti, ed in altri no è perché allora hanno trovato terreno ricettivo, ovvero perché le difese messe a punto nel novecento sono state fatte cadere.
Trovo fuorviante, in altre parole, dire che la globalizzazione “non ci ha chiesto il permesso, non ha bussato prima di entrare; è frutto della tecnologia e di impulsi umani che si possono disciplinare, non sopprimere”. E trovo altamente demagogico aggiungere che “volere uscire dalla povertà, come India e Cina stanno facendo, non è una colpa”. Certamente non è una colpa, come non lo era nell’ottocento, quando le cannoniere e i reggimenti europei sono andati ad imporre l’apertura dei mercati alle merci inglesi prodotte a Manchester dai bravi operai locali.
Il punto è che la globalizzazione viene “consentita” per un insieme di motivi (tra i quali importare deflazione tramite le merci, per compensare l’espansione monetaria necessaria per compensare un calo degli investimenti strutturale, contemporaneamente disciplinando i lavoratori –esponendoli al rischio della disoccupazione e del lavoro precario- e recuperando margini industriali) che non hanno nulla di naturale. Si tratta di motivi tecnici e politici.
La globalizzazione è sostanzialmente un sistema sociale di governo dalle imponenti dimensioni geostrategiche e distributive, a suo modo geniale; uno schema essenziale di ripartizione del potere.

Entro la lettura che invece fa Padoa-Schioppa della globalizzazione come destino ineluttabile (al contempo da sfruttare e governare) si inquadra il suo desiderio/monito del “più Stato europeo” (e dunque meno stato nazionale). Il calcolo è di potenza, a specifica domanda il nostro infatti risponde: “è chiaro che ci voleva più Stato europeo, non meno moneta europea: senza l'euro l'Europa vivrebbe oggi giorni di catastrofe. Una delle ragioni del discredito delle classi dirigenti nazionali e della crisi della politica è che si continua ad alimentare l'illusione che i poteri nazionali siano in grado di affrontare problemi (energia, clima, finanza, sicurezza, immigrazione, beni primari) che sono non nazionali, ma continentali e mondiali”. 
Questa frase, che in effetti si ritrova molto spesso nella difesa del macrostato europeo non mi riesce a convincere: salvo il clima, che appartiene alla sfera naturale (globale per definizione), gli altri problemi sono “continentali e mondiali”, solo perché il frame work è tale. Solo perché il sistema di regole che determina la globalizzazione inibisce i tradizionali modi di gestione di ognuno di questi problemi.

Non voglio dire che non sia utile ed opportuno avere una politica europea per l’energia (e tanto meno per il clima), né che la sicurezza non possa essere gestita su scala sovranazionale (di fatto essa è appaltata alla NATO e così resterà a lungo), oppure che l’immigrazione non possa utilmente vedere politiche di coordinamento e forme di solidarietà (ma ogni paese ancora oggi è in prima linea nella sua gestione da solo), dico che questi problemi non sono intrinsecamente “continentali”. Non lo sono stati per secoli. Diventano continentali nel quadro dato e data la debolezza delle politiche pubbliche nazionali. Riescono a diventare problemi continentali, perché ognuno di questi implica distribuzioni di risorse sociali entro i diversi gruppi e individui, e spostare la decisione quanto più lontano dai luoghi nei quali si è sedimentato il controllo democratico, rendendoli possibilmente impersonali e “senza luogo”, è una fondamentale astuzia della ragione economica diventata dominante. Questa astuzia esplica effetti di disciplina, tramite l’esercizio di calibrata violenza, che sono assolutamente compresi e incoraggiati dal nostro economista ex-keynesiano.

Se si vuole avere conferma si può leggere quel che cinque anni prima, il 26 agosto 2003, nel contesto della discussione sulla proposta di Costituzione Europea, Padoa Schioppa (quando la crisi finanziaria non si è ancora presentata sulla scena, ma solo due anni prima si era avuta la crisi delle società tecnologiche, la bolla .dot-com, che portò alla crisi per la cui risoluzione i mercati furono inondati di capitali da parte della FED), scrive in un articolo per il Corriere della Sera nel quale è contenuta una difesa a spada tratta della logica delle cosiddette “riforme strutturali”. L’economista considerato “di sinistra” iscrive in tal modo il proprio nome in continuità con l’approccio liberista ante litteram di Luigi Einaudi che descrive così: “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione”.
Ascrive anzi questa prospettiva a Francia e Germania (il 14 marzo Schroder aveva tenuto il discorso di lancio dell’Agenda 2010, davanti al Bundestag) e definisce il suo campo di azione in questo modo: pensioni, sanità, mercato del lavoro, scuola. In tutti questi settori “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.

Con questa incredibile frase Padoa Schioppa si iscrive, per chiunque abbia presenti i dibattiti del novecento, nel novero della destra storica. Anche la brutalità dei termini (“durezza del vivere”, “rovesci della fortuna”) individua un’adesione ad un’antropologia che non si vedeva in campo da quando (ne parla lo straordinario libro di Rosanvallon) nella prima parte dell’ottocento, conservatori come Girardin qualificavano come “barbari” gli operai in rivolta scrivendo: “la miseria è il castigo della pigrizia e del vizio. Ecco gli insegnamenti che ci dà la Storia”. Le classi lavoratrici sono, per il moralista ottocentesco, viziose e pericolose; occorre dunque istruirle e moralizzare.
Oltre centocinquanta anni dopo Padoa Schioppa, che si sente abbastanza incredibilmente di sinistra, riesce a scrivere, senza che gli tremi la penna, che “cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute dono del signore, la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna”.
Simili frasi prefigurano –anche e soprattutto nella prospettiva etica- una totale liquidazione dello stato sociale, dei diritti di dignità e protezione che rendono la vita sicura e degna, dell’equilibrio che rende possibile azionare i propri diritti ed esercitare il potere cui la natura di libero cittadino ha dotato ognuno. Prefigurano il ritorno alla società gerarchica passata, nella quale l’individuo è abbandonato alle proprie forze di fronte al preminente potere del denaro e della gerarchia sociale.
Padoa Schioppa arriva ad esprimere una frase che potrebbe essere virgolettata da un testo preso da un robivecchi: “il campo della solidarietà … è degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.

Invito a confrontare tale prosa con l’analisi dello storico francese che ci mostra come nel XIX secolo, non a caso il secolo dell’ineguaglianza, essa (la disuguaglianza) era vista come “legge del mondo”, inseparabilmente naturale, anzi morale. Scrive acutamente Rosanvallon: “grazie a questo slittamento, l’ideologia liberal-conservatrice raggiungeva le concezioni più aristocratiche e reazionarie della disuguaglianza come motore necessario e positivo del mondo. In questa corrente è stata teorizzata la contraddizione tra libertà ed eguaglianza” (R., p. 103). I padri di questa concezione sono Necker (1793) e Burke che teorizzano la preminenza della libertà, perché universalizzante, sull’uguaglianza che, in quanto implicante un trasferimento di ricchezze indica <parzialità>, è cioè legata all’idea di una divisione sociale. Con le parole di Rosanvallon: “Questa tematica della uguaglianza liberticida è stata al centro dell’ideologia liberal-conservatrice, continuando ad irrigare le giustificazioni per uno status quo sociale e la resistenza alle idee riformatrici”.

Dopo centocinquanta anni toni morali simili si ritrovano nella prosa dell’esponente di una élite tecnocratica democraticamente irresponsabile (un “tecnico” che ha rivestito alte cariche pubbliche e ruoli di grande responsabilità decisionale senza mai essersi esposto alla ricerca del consenso dei suoi concittadini) che si inquadra come di sinistra. Un giorno varrà la pena di riflettere su questo mutamento genetico.
Questa ripresa di temi reazionari si legano comunque, e chiaramente, ad un fenomeno sociale molto forte che prende l’avvio a partire dalla fine degli anni settanta: il lavoro si è individualizzato (su questo si può leggere anche Sennett) e tutta la società promuove ormai una sorta di “individualismo della singolarità”; ognuno è quindi invitato a promuovere una sorta di “esistenza pienamente personale”. E’ così che si può vedere la ripresa dell’ideale dell’uguaglianza delle opportunità settecentesca, ma in un’ottica radicale individualizzante. Rileggendolo, cioè, come concorrenza generalizzata che in effetti si rafforza proprio man mano che il disincanto democratico prende piede. Un disincanto perfettamente espresso dalla biografia e dalle convinzioni del nostro.

Il testo, sia pur breve, di Padoa Schioppa sembra ricondursi a queste atmosfere e si chiude –non a caso- con un apologo della svolta di Germania e Francia; paesi “con forte struttura dello Stato, consapevoli di sé, determinati a contare nel mondo, sorretti da classi dirigenti attente all’interesse generale”.

Insomma nell’articolo del 2003 troviamo un apologo della riduzione del perimetro dello Stato, esattamente allo scopo di esporre l’individuo solitario alla pienezza dei rischi resi presenti nella vita di ognuno con la globalizzazione; nell’ipotesi, riecheggiante temi ottocenteschi, che in questo modo le masse indisciplinate, e pretenziose, “messe a contatto con la durezza del vivere” siano ricondotte a ragione. La globalizzazione, cioè l’esposizione senza protezioni individuali né sociali alla concorrenza, è lo strumento che renderà tale servizio. Rendendolo servirà anche il desiderio di potenza degli Stati e delle élite che li controllano.


Nel 2008 lo stesso Padoa-Schioppa ne intravedrà le conseguenze (ma non le capirà). Sarà comunque troppo tardi.

4 commenti:

  1. Ho scoperto il suo blog attraverso goofynomics e lo trovo illuminante e assolutamente sopra la media. Riguardo il contento del post, vorrei aggiungere solo che Padoa Schioppa usa il "trucco" di far passare per naturale ciò che è culturale, in modo da escludere le alternative al modello di società che cerca di giustificare: la regola del capitalismo,cioè la legge del più forte, diventa la "durezza del vivere"; ma non c'è alcuna dimostrazione antropologica che la natura umana sia fondamentalmente violenta ed egoista. Molti popoli non mostra(va)no affatto comportamenti simili, ed essendo umani tanto quanto i popoli guerrieri, dimostrano che gli "impulsi" di cui parla Padoa Schioppa non sono affatto gli unici modi di relazionarsi con gli altri. Probabile anzi che siano modalità che si esprimono solo a causa della scarsità di risorse, dovuta all'aumento della popolazione.

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  2. Si, questo tema dell'antropologia implicita (ma neppure tanto) del modello conservatore è di grande importanza, il nostro usa termini chiave della letteratura reazionaria storica (come "compassione") ed un approccio chiaramente individualista per naturalizzare uno schema sociale che è invece storico. La cosa si potrebbe prendere da diverse angolazioni, ed ogni tanto ci torno anche se non lo ho mai tematizzato direttamente. Quel che colpisce, in questo florilegio di temi di destra storica che l'autore introduce è che sarebbe un economista di sinistra. Spesso discutendo con progressisti "liberal" si ha questo effetto di spiazzamento. Negli anni novanta molti sembrano avere preso il crollo del modello socialista ("reale") come occasione per rottamare dentro di loro un insieme molto vasto di caposaldi. Tra questi il concetto di società e solidarietà, che viene riportata allo "stadio zero" della compassione. Sarebbe da riflettere.

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  3. L'Ottocento non fu solo l'epoca della compassione e della promozione borghese del self-help moralistico. Fu anche humus per il pensiero socialista, nei suoi vari filoni.
    Gli ultimi nostri anni mi paiono molto peggiori, perché il modello conservatore è incontrastato. La cosiddetta sinistra attuale appare, piuttosto, come un'ala sinistra del Partito Unico Liberale Mercantilista.
    I pensatori borghesi sono rifluiti più o meno tutti nella compagine conservatrice (magari, continuando a dire di essere di sinistra), se non in quella reazionaria.
    Ma è soprattutto l'individualismo a prendere piede.
    Lo si incontra ovunque. Anche nei libri di diritto. Per esempio, si racconta agli studenti che la proprietà privata nasce come individuale (libera apprensione delle utilità da parte dell'individuo), quando il concetto di individuo è, in realtà, piuttosto recente. Nell'Ottocento, questa ultima evidenza era ben chiara a molti scrittori liberali.
    Siamo andati indietro, invece che progredire.

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  4. Un grande secolo l'ottocento, continuare a scavare in esso ci potrebbe insegnare molte cose che abbiamo perso. Probabilmente le difficoltà del sentire comune (e quindi l'individualismo, invenzione moderna senz'altro) sono alla radice di molti sbarramenti che impediscono di vedere soluzioni diverse. Credo che bisognerebbe leggere il passato insieme al presente contemporaneo, con rispetto ma con vigore (prendendo qualche rischio di sovrascrittura). E che bisognerebbe rileggere con cura il passato recente, gli anni ottanta e novanta, nella letteratura "bassa" in particolare, per capire e rivedere alla luce dei problemi del presente che cosa "è passato". Ora che vediamo gli esiti possiamo capire meglio le premesse. Almeno questo è quel che, con poche forze e qualche volontà, a tratti tento.

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