Nei giorni
scorsi, contrariamente all’uso abbiamo scritto un lungo post a puntate. Il cui
scopo è guardare più da vicino la parte finale del processo di decisione che ci
ha portato dentro l’Unione Europea e dentro l’Euro. Un processo che prende tre
anni, il 1991 nel quale si svolge il negoziato finale, in effetti avviato con
il 1989, cioè con la caduta del muro di Berlino che pone in modo nuovo e
diverso all’ordine del giorno il tema dell’Unità Europea, fino al 1993 in cui
avviene la nostra ratifica.
Nella Prima Parte
avevamo inquadrato la vicenda e illustrato il programma (dopo la cronologia
essenziale, ci eravamo dai il compito di leggere alcuni “documenti” ed infine
alcune testimonianze del dibattito sui media, quindi trarre le conclusioni in
termini di attori in campo, logiche ed argomenti espressi, poste in gioco),
quindi abbiamo avviato la lettura delle prime giornate della discussione finale
di ratifica nella Camera dei Deputati; nella Seconda Parte
abbiamo continuato questa lettura; in questa Terza Parte la concluderemo, insieme all’analisi degli argomenti
proposti nelle repliche del Governo.
Il 29 ottobre 1992,
la seduta si conclude quindi con il voto, prenderanno la parola soprattutto il
relatore della proposta di legge, Antonio
Cariglia, e il Ministro degli Esteri Emilio
Colombo, per le repliche. Quindi si procederà da parte della Presidenza a
dichiarare “inammissibili” praticamente tutti gli emendamenti proposti ed al
voto di approvazione finale.
Antonio Cariglia,
ripercorre brevemente tutte le posizioni assunte dai diversi relatori,
replicando alle loro principali obiezioni. In sostanza riafferma la necessità
di “prendere l’Europa così come
Maastricht per il momento ce la offre”, anziché rigettarla in favore di
“più Europa o comunque un’Europa diversa” che, evidentemente, non è all’ordine
del giorno del momento.
Nella sua
replica a Galante, Cariglia esprime la convinzione che il grande mercato comune
europeo, istituito nel Trattato (che libera totalmente tutti i flussi di merci,
persone e capitali, concludendo un percorso già avviato) sarà, sia “la più
grande potenza commerciale del mondo”, sia un mercato aperto e collaborativo
nei confronti delle altre aree economiche del mondo. Sarà da questa
“collaborazione” (in quel momento è in corso il negoziato sul GATT, il
controverso Uruguay-round) che discenderà la soluzione di molti dei suoi
problemi interni.
L’ottimismo del
relatore (cui contrappone “il pessimismo” di Galante) arriva a riconoscere il
pericolo della supremazia tedesca, ma ad esprimere la convinzione su questo
punto centrale che sia la Comunità integrata ad esserne soluzione. L’unica
strada per combattere l’egemonia tedesca, in altre parole, è quella “dell’unità
europea, della moneta unica, della convergenza delle economie”. Secondo
l’esponente del Psdi è maggiore il pericolo “dell’insorgenza del nazismo in
un’Europa divisa che in un’Europa unita”. Arriva ad improvvisarsi storico per
sostenere temerariamente che la seconda guerra mondiale non sarebbe scoppiata
“se al posto degli egoismi delle nazioni animate dall’idea totalitaria, ci
fossero stati l’Unione Europea, il Parlamento Europeo, l’Unione Monetaria e un
unico mercato nel quale far circolare liberamente merci, uomini e
capitali”. Come dire: non sarebbe
scoppiata se nessuno l’avesse voluta.
Con simile
logica fallace oppone all’argomento dell’on. Servello “che le nostre
insufficienze nazionali non sono l’effetto della politica comunitaria… semmai è
vero il contrario: se avessimo avuto più vincoli europei, quanto meno avremmo
avuto la stabilità politica di cui godono tutti i nostri partners comunitari”.
Come se la “stabilità politica” dipendesse dai vincoli (economici) e non dalle
caratteristiche politiche, sociali ed economiche di una comunità nazionale.
Terzo controargomento proposto è che fuori dalla comunità non si può
crescere economicamente e socialmente, in quanto un paese trasformatore di
materie prime e bramoso di mercati di sbocco ha bisogno dell’Europa. Spiace che
l’esperienza degli ultimi anni mostri (ma lo mostrava da decenni la semplice
logica dei numeri, cfr dibattito sullo SME nelle posizioni di Spaventa,
Napolitano
e Scalfari)
che un paese come il nostro bramoso di mercati è danneggiato da un cambio
fortemente sopravvalutato.
In definitiva,
per Cariglia, “i vincoli che discendono dal Trattato per un paese come il
nostro, che è governato dalle incertezze, rappresentano un fattore di
incentivazione ad assumerci quelle responsabilità che rendano compatibile la
nostra politica interna con la presenza nella Comunità” (il che è un poco
logicamente circolare).
La seconda replica
è affidata al Ministro degli Esteri, Emilio
Colombo che richiama importanti momenti del negoziato, riconoscendo che la
“linea pragmatica” in esso seguita dai principali partner era motivato dalla
percezione del superamento del federalismo (“considerato una cosa d’altri
tempi, una dottrina sorpassata”).
Secondo la
testimonianza del Ministro questo mutamento nell’atteggiamento dei negoziatori
europei, e dunque dei Governi, è intervenuta man mano che la preoccupazione per
la pacifica rivoluzione dell’Est Europeo si è stabilizzata. Nei primi mesi del
1989 (qui
una cronologia sul sito del Parlamento Europeo) c’era stato il riconoscimento
di Solidarnosc che a giugno vince le elezioni in Polonia, a settembre cade la “cortina
di ferro” tra Austria e Ungheria, ad ottobre si dimette Honeker in Germania
Est, a novembre la “rivoluzione di velluto” in cecoslovacchia, a dicembre in
Romania, nel 1990 si completa la riunificazione
tedesca, nel 1991 si dissolve l’URSS.
Nei due anni più
importanti degli ultimi cinquanta, la preoccupazione delle segreterie europee
era di garantire coesione e stabilità. L’Unione Europea si candidava in
sostanza a diventare attore primario (in affiancamento e parziale sostituzione
agli USA) dell’assorbimento dei paesi ex socialisti nell’economia di mercato.
In una prima fase, secondo Colombo, l’enormità del compito, e le notevoli
tensioni soggiacenti all’impresa, consigliavano di condurla in modo cooperativo
con il contributo attivo di tutti. Nella dichiarazione durante il
vertice franco-tedesco del 1989 si manifestano subito tensioni tra una
posizione che spinge verso l’integrazione politica (il Ministro dell’economia
francese, in particolare) ed una (la Bundesbank) che spinge prima sulla
convergenza economica.
Fatto sta che man mano che il pericolo si allontana,
procedendo nel 1990 e 91, e l’annessione della Germania dell’Est diventa un
fatto compiuto (e, cosa anche più importante, la potenziale minaccia dell’URSS
scompare con il fallito golpe), “si è assistito alla ripresa dell’antico
modello di negoziato, basato sul dare e non dare, cedere e non cedere
sovranità, fare e non fare passi avanti”.
Malgrado questa
consapevolezza colombo dichiara che sono stati fatti passi avanti, la BCE, ad
esempio, non è una copia della Bundesbank (anche se progettata da Delors su
quella base), ma “un organo a struttura federale” (dato che vi partecipano
tutte le banche centrali nazionali) non totalmente priva di riferimenti e
controlli.
Anche l’Unione
economica e monetaria gli appare espressione di una convergenza salutare “perché
il nostro paese ha bisogno di essere legato ad una disciplina internazionale
che sia anche quantificata”.
Il Ministro
arriva a negare anche che il Trattato comporterà “una politica di stagnazione,
addirittura di recessione”. Non è vero, a suo parere, che “la stabilità dei
prezzi [sia] incompatibile con una politica di sviluppo economico”, dei margini
di manovra permangono (infatti saranno i Trattati successivi, introdotti
durante la crisi del 2008 a stringerli, in particolare attraverso il “Fiscal
Compact”).
Insomma, dei
limiti ci sono, ma “un negoziato dà quello che può nel momento in cui viene
svolto; bisogna, quindi, tenere conto dei limiti che purtroppo ancora esistono”.
Poco più di un’ora
dopo la Camera voterà a favore e ratificherà il Trattato.
La replica del
Governo evidenzia l’ambizione e le illusioni che ispirano le segreterie europee
in quegli anni turbolenti.
Si potrebbe
temporaneamente dire che nell’insieme di argomenti e racconti portati a prova
della bontà (e dell’inevitabilità) del Trattato che ci porta nell’Euro si intravedono:
due piani di ambizione, una tattica ed
una posta.
Le due ambizioni,
che nel punto di osservazione italiano (non così in quello tedesco) ed in parte
francese incorporano un “autoinganno”, sono di diventare la prima area commerciale del mondo e di diventare la potenza strategica di
equilibrio del mondo occidentale.
La prima ambizione
incrocia la forza reale degli Stati Uniti, che negli stessi anni determinano
con i negoziati del GATT la dominazione delle loro industrie multinazionali
innovative (in parte tramite un diritto di proprietà intellettuale sostenuto
dalla forza del paese, ma ci torneremo) delle quali, ad esempio ci parla ancora
oggi Moretti.
Ed incrociano anche l’esplosione dei paesi emergenti che si avrà nei due
decenni a cavallo del millennio. L’illusione e l’autoinganno qui espresso dal
relatore Cariglia, è che l’allargamento e la regolazione del commercio possa
avviare dinamiche cooperative che ribilancino l’oggettiva prevalenza dell’industria
tedesca aprendo anche alle industrie comparativamente più deboli (tra cui la
nostra, che è la seconda) ampi mercati di sbocco.
La seconda ambizione, ancora più infondata, è geopolitica e reincrocia
lo stesso attore, ma ne ha di mira intanto uno più vicino. La Germania di Kohl
aveva rotto l’approccio cooperativo (se mai è esistito) con la sua
dichiarazione al Bundestag del novembre 1989, solo due settimane dopo la caduta
del muro, in cui dichiarava l’intenzione di unificare le due Germanie. Una
dichiarazione alla quale la Thatcher rispose <abbiamo già sconfitto per due
volte la Germania, non vorremmo essere costretti a batterla una terza> e
Andreotti, più fine, con <amiamo talmente la Germania che ne vogliamo
due>. Nulla fermò Kohl che in un solo anno completò l’annessione a forza di
violente forzature all’interno ed all’esterno; è in quei mesi convulsi che Mitterrand
“impose” almeno in cambio la rinuncia del marco. Qui, probabilmente, sia in riferimento
alla Francia sia e soprattutto all’Italia, è in opera (certo con il senno di
poi) un “autoinganno”; Kohl cedette su un punto simbolico (e politicamente
costoso) ma ottenne, in realtà un surplus
di dominio. La testimonianza in tal senso di Sarrazin
mostra come i tecnici (Hans Tietmeyer, Horst Kohler, Jurgen Stark)
impostarono un meccanismo rivolto a costringere i paesi del sud, di cui si
aveva paura, a infilarsi negli abiti tedeschi. Ora quando si costringe qualcun
altro a giocare il proprio gioco, rinunciando al suo, si sta progettando la
vittoria “facile”.
Nessun sospetto
su questa doppiezza nordica sembra sfiorare (o meglio è ammissibile tematizzare
esplicitamente) i componenti del Governo che negoziano e che poi difendono il
loro punto.
Invece viene
spesso strumentalmente avanzato (ma non è la prima volta che ricorre) un argomento tattico. In qualche modo,
allo scopo di chiudere la bocca agli avversari è usata un’arma finale. Ci si, <nasconde
dietro il fantasma di Hitler>, per così dire. Se non si arriverà al mercato
unitario si attiverà una dinamica di anarchica dissoluzione (è presente anche l’esempio
della ex jugoslavia) che porterà guerra, distruzione e dittatura. Peccato che
questo scenario non è logicamente coerente con il timore per la dominazione
tedesca (cioè l’opposto dell’anarchia) che l’Euro dovrebbe evitare. Oggi lo
stesso argomento “del fantasma” è evocato in riferimento al “populismo” (che,
semmai è un effetto dell’unificazione e della sua insostenibile struttura
macroeconomica).
Infine resta all’opera
la posta (interna) reale, quella che
probabilmente “chiude” in foro interiore il sistema di obiezioni e giustificazioni
nel quale non può che essere coinvolta la mente di un attore politico esperto
di fronte a vicende talmente complesse ed ambigue: l’autovincolo che si assume
con l’Euro, ed in particolare con i suoi standard quantitativi rigidi sui conti
pubblici e l’indebitamento servirà a disciplinare e richieste di distribuzione
e redistribuzione. A contenere la dinamica dei salari. A ridurre le prestazioni
assistenziali.
Sposterà radicalmente negli anni verso l’alto la
ricchezza disponibile. Per alcuni un’ipotesi più che attraente.
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