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venerdì 2 maggio 2014

Dicembre 1991-novembre 1993, il Trattato di Maastricht (terza parte.


Nei giorni scorsi, contrariamente all’uso abbiamo scritto un lungo post a puntate. Il cui scopo è guardare più da vicino la parte finale del processo di decisione che ci ha portato dentro l’Unione Europea e dentro l’Euro. Un processo che prende tre anni, il 1991 nel quale si svolge il negoziato finale, in effetti avviato con il 1989, cioè con la caduta del muro di Berlino che pone in modo nuovo e diverso all’ordine del giorno il tema dell’Unità Europea, fino al 1993 in cui avviene la nostra ratifica.
Nella Prima Parte avevamo inquadrato la vicenda e illustrato il programma (dopo la cronologia essenziale, ci eravamo dai il compito di leggere alcuni “documenti” ed infine alcune testimonianze del dibattito sui media, quindi trarre le conclusioni in termini di attori in campo, logiche ed argomenti espressi, poste in gioco), quindi abbiamo avviato la lettura delle prime giornate della discussione finale di ratifica nella Camera dei Deputati; nella Seconda Parte abbiamo continuato questa lettura; in questa Terza Parte la concluderemo, insieme all’analisi degli argomenti proposti nelle repliche del Governo.


Il 29 ottobre 1992, la seduta si conclude quindi con il voto, prenderanno la parola soprattutto il relatore della proposta di legge, Antonio Cariglia, e il Ministro degli Esteri Emilio Colombo, per le repliche. Quindi si procederà da parte della Presidenza a dichiarare “inammissibili” praticamente tutti gli emendamenti proposti ed al voto di approvazione finale.

Antonio Cariglia, ripercorre brevemente tutte le posizioni assunte dai diversi relatori, replicando alle loro principali obiezioni. In sostanza riafferma la necessità di “prendere l’Europa così come Maastricht per il momento ce la offre”, anziché rigettarla in favore di “più Europa o comunque un’Europa diversa” che, evidentemente, non è all’ordine del giorno del momento.
Nella sua replica a Galante, Cariglia esprime la convinzione che il grande mercato comune europeo, istituito nel Trattato (che libera totalmente tutti i flussi di merci, persone e capitali, concludendo un percorso già avviato) sarà, sia “la più grande potenza commerciale del mondo”, sia un mercato aperto e collaborativo nei confronti delle altre aree economiche del mondo. Sarà da questa “collaborazione” (in quel momento è in corso il negoziato sul GATT, il controverso Uruguay-round) che discenderà la soluzione di molti dei suoi problemi interni.
L’ottimismo del relatore (cui contrappone “il pessimismo” di Galante) arriva a riconoscere il pericolo della supremazia tedesca, ma ad esprimere la convinzione su questo punto centrale che sia la Comunità integrata ad esserne soluzione. L’unica strada per combattere l’egemonia tedesca, in altre parole, è quella “dell’unità europea, della moneta unica, della convergenza delle economie”. Secondo l’esponente del Psdi è maggiore il pericolo “dell’insorgenza del nazismo in un’Europa divisa che in un’Europa unita”. Arriva ad improvvisarsi storico per sostenere temerariamente che la seconda guerra mondiale non sarebbe scoppiata “se al posto degli egoismi delle nazioni animate dall’idea totalitaria, ci fossero stati l’Unione Europea, il Parlamento Europeo, l’Unione Monetaria e un unico mercato nel quale far circolare liberamente merci, uomini e capitali”.  Come dire: non sarebbe scoppiata se nessuno l’avesse voluta.
Con simile logica fallace oppone all’argomento dell’on. Servello “che le nostre insufficienze nazionali non sono l’effetto della politica comunitaria… semmai è vero il contrario: se avessimo avuto più vincoli europei, quanto meno avremmo avuto la stabilità politica di cui godono tutti i nostri partners comunitari”. Come se la “stabilità politica” dipendesse dai vincoli (economici) e non dalle caratteristiche politiche, sociali ed economiche di una comunità nazionale.
Terzo controargomento proposto è che fuori dalla comunità non si può crescere economicamente e socialmente, in quanto un paese trasformatore di materie prime e bramoso di mercati di sbocco ha bisogno dell’Europa. Spiace che l’esperienza degli ultimi anni mostri (ma lo mostrava da decenni la semplice logica dei numeri, cfr dibattito sullo SME nelle posizioni di Spaventa, Napolitano e Scalfari) che un paese come il nostro bramoso di mercati è danneggiato da un cambio fortemente sopravvalutato.
In definitiva, per Cariglia, “i vincoli che discendono dal Trattato per un paese come il nostro, che è governato dalle incertezze, rappresentano un fattore di incentivazione ad assumerci quelle responsabilità che rendano compatibile la nostra politica interna con la presenza nella Comunità” (il che è un poco logicamente circolare).

La seconda replica è affidata al Ministro degli Esteri, Emilio Colombo che richiama importanti momenti del negoziato, riconoscendo che la “linea pragmatica” in esso seguita dai principali partner era motivato dalla percezione del superamento del federalismo (“considerato una cosa d’altri tempi, una dottrina sorpassata”).
Secondo la testimonianza del Ministro questo mutamento nell’atteggiamento dei negoziatori europei, e dunque dei Governi, è intervenuta man mano che la preoccupazione per la pacifica rivoluzione dell’Est Europeo si è stabilizzata. Nei primi mesi del 1989 (qui una cronologia sul sito del Parlamento Europeo) c’era stato il riconoscimento di Solidarnosc che a giugno vince le elezioni in Polonia, a settembre cade la “cortina di ferro” tra Austria e Ungheria, ad ottobre si dimette Honeker in Germania Est, a novembre la “rivoluzione di velluto” in cecoslovacchia, a dicembre in Romania, nel 1990 si completa la riunificazione tedesca, nel 1991 si dissolve l’URSS.


Nei due anni più importanti degli ultimi cinquanta, la preoccupazione delle segreterie europee era di garantire coesione e stabilità. L’Unione Europea si candidava in sostanza a diventare attore primario (in affiancamento e parziale sostituzione agli USA) dell’assorbimento dei paesi ex socialisti nell’economia di mercato. In una prima fase, secondo Colombo, l’enormità del compito, e le notevoli tensioni soggiacenti all’impresa, consigliavano di condurla in modo cooperativo con il contributo attivo di tutti. Nella dichiarazione durante il vertice franco-tedesco del 1989 si manifestano subito tensioni tra una posizione che spinge verso l’integrazione politica (il Ministro dell’economia francese, in particolare) ed una (la Bundesbank) che spinge prima sulla convergenza economica.


Fatto sta che man mano che il pericolo si allontana, procedendo nel 1990 e 91, e l’annessione della Germania dell’Est diventa un fatto compiuto (e, cosa anche più importante, la potenziale minaccia dell’URSS scompare con il fallito golpe), “si è assistito alla ripresa dell’antico modello di negoziato, basato sul dare e non dare, cedere e non cedere sovranità, fare e non fare passi avanti”.

Malgrado questa consapevolezza colombo dichiara che sono stati fatti passi avanti, la BCE, ad esempio, non è una copia della Bundesbank (anche se progettata da Delors su quella base), ma “un organo a struttura federale” (dato che vi partecipano tutte le banche centrali nazionali) non totalmente priva di riferimenti e controlli.
Anche l’Unione economica e monetaria gli appare espressione di una convergenza salutare “perché il nostro paese ha bisogno di essere legato ad una disciplina internazionale che sia anche quantificata”.

Il Ministro arriva a negare anche che il Trattato comporterà “una politica di stagnazione, addirittura di recessione”. Non è vero, a suo parere, che “la stabilità dei prezzi [sia] incompatibile con una politica di sviluppo economico”, dei margini di manovra permangono (infatti saranno i Trattati successivi, introdotti durante la crisi del 2008 a stringerli, in particolare attraverso il “Fiscal Compact”).
Insomma, dei limiti ci sono, ma “un negoziato dà quello che può nel momento in cui viene svolto; bisogna, quindi, tenere conto dei limiti che purtroppo ancora esistono”.

Poco più di un’ora dopo la Camera voterà a favore e ratificherà il Trattato.


La replica del Governo evidenzia l’ambizione e le illusioni che ispirano le segreterie europee in quegli anni turbolenti.
Si potrebbe temporaneamente dire che nell’insieme di argomenti e racconti portati a prova della bontà (e dell’inevitabilità) del Trattato che ci porta nell’Euro si intravedono: due piani di ambizione, una tattica ed una posta.

Le due ambizioni, che nel punto di osservazione italiano (non così in quello tedesco) ed in parte francese incorporano un “autoinganno”, sono di diventare la prima area commerciale del mondo e di diventare la potenza strategica di equilibrio del mondo occidentale.
La prima ambizione incrocia la forza reale degli Stati Uniti, che negli stessi anni determinano con i negoziati del GATT la dominazione delle loro industrie multinazionali innovative (in parte tramite un diritto di proprietà intellettuale sostenuto dalla forza del paese, ma ci torneremo) delle quali, ad esempio ci parla ancora oggi Moretti. Ed incrociano anche l’esplosione dei paesi emergenti che si avrà nei due decenni a cavallo del millennio. L’illusione e l’autoinganno qui espresso dal relatore Cariglia, è che l’allargamento e la regolazione del commercio possa avviare dinamiche cooperative che ribilancino l’oggettiva prevalenza dell’industria tedesca aprendo anche alle industrie comparativamente più deboli (tra cui la nostra, che è la seconda) ampi mercati di sbocco.
La seconda ambizione, ancora più infondata, è geopolitica e reincrocia lo stesso attore, ma ne ha di mira intanto uno più vicino. La Germania di Kohl aveva rotto l’approccio cooperativo (se mai è esistito) con la sua dichiarazione al Bundestag del novembre 1989, solo due settimane dopo la caduta del muro, in cui dichiarava l’intenzione di unificare le due Germanie. Una dichiarazione alla quale la Thatcher rispose <abbiamo già sconfitto per due volte la Germania, non vorremmo essere costretti a batterla una terza> e Andreotti, più fine, con <amiamo talmente la Germania che ne vogliamo due>. Nulla fermò Kohl che in un solo anno completò l’annessione a forza di violente forzature all’interno ed all’esterno; è in quei mesi convulsi che Mitterrand “impose” almeno in cambio la rinuncia del marco. Qui, probabilmente, sia in riferimento alla Francia sia e soprattutto all’Italia, è in opera (certo con il senno di poi) un “autoinganno”; Kohl cedette su un punto simbolico (e politicamente costoso) ma ottenne, in realtà un surplus di dominio. La testimonianza in tal senso di Sarrazin mostra come i tecnici (Hans Tietmeyer, Horst Kohler, Jurgen Stark) impostarono un meccanismo rivolto a costringere i paesi del sud, di cui si aveva paura, a infilarsi negli abiti tedeschi. Ora quando si costringe qualcun altro a giocare il proprio gioco, rinunciando al suo, si sta progettando la vittoria “facile”.
Nessun sospetto su questa doppiezza nordica sembra sfiorare (o meglio è ammissibile tematizzare esplicitamente) i componenti del Governo che negoziano e che poi difendono il loro punto.

Invece viene spesso strumentalmente avanzato (ma non è la prima volta che ricorre) un argomento tattico. In qualche modo, allo scopo di chiudere la bocca agli avversari è usata un’arma finale. Ci si, <nasconde dietro il fantasma di Hitler>, per così dire. Se non si arriverà al mercato unitario si attiverà una dinamica di anarchica dissoluzione (è presente anche l’esempio della ex jugoslavia) che porterà guerra, distruzione e dittatura. Peccato che questo scenario non è logicamente coerente con il timore per la dominazione tedesca (cioè l’opposto dell’anarchia) che l’Euro dovrebbe evitare. Oggi lo stesso argomento “del fantasma” è evocato in riferimento al “populismo” (che, semmai è un effetto dell’unificazione e della sua insostenibile struttura macroeconomica).

Infine resta all’opera la posta (interna) reale, quella che probabilmente “chiude” in foro interiore il sistema di obiezioni e giustificazioni nel quale non può che essere coinvolta la mente di un attore politico esperto di fronte a vicende talmente complesse ed ambigue: l’autovincolo che si assume con l’Euro, ed in particolare con i suoi standard quantitativi rigidi sui conti pubblici e l’indebitamento servirà a disciplinare e richieste di distribuzione e redistribuzione. A contenere la dinamica dei salari. A ridurre le prestazioni assistenziali.


Sposterà radicalmente negli anni verso l’alto la ricchezza disponibile. Per alcuni un’ipotesi più che attraente.

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