1° agosto 1846,
Giuseppe Mazzini il grande rivoluzionario e
politico italiano, scrive alcuni articoli per una rivista inglese; Mazzini è una
figura di straordinaria importanza nello sviluppo del pensiero libero, che
ispirerà una linea ininterrotta di azione e testimonianza che passa per Leon
Tolstoj, per arrivare al Mahatma Gandhi. Si tratta se si vuole della seconda
linea di sviluppo del pensiero radicale sull’uomo, con una forte e non nascosta
componente religiosa, che procede parallela a quella laica e socialista molto
più nota. Questa linea di riflessione sull’uomo, la società e la vita è stata
tenuta in vita da autori come Illich, Ellul, e tra i contemporanei Zanotelli
(Latouche probabilmente trae radici in entrambe).
Come sia, ogni
tanto traggo giovamento dalla lettura di questi antichi testi (come in quelli
dell’altra linea che per molti versi mi sono più vicini e familiari), nei quali
vive una tensione verso la liberazione dell’uomo e l’emancipazione sulla quale
sarebbe bene riflettere. Una tensione che il nostro tempo, rivolto alla
auto-valorizzazione individuale stenta a ritrovare.
Giuseppe Mazzini
scrive quindi per il “People’s journal”
(ora in “Pensieri sulla democrazia in
Europa”, ed. Feltrinelli) sette brevi articoli nei quali descrive, una ad
una, le diverse tendenze politiche a sé contemporanee, provvedendo a sviluppare
verso ciascuna accurate critiche che risuonano, peraltro, in molti casi
familiari alle nostre orecchie. Certo, il suo tono è tipico del suo tempo,
avvia il suo discorso inneggiando, ad esempio, alla “legge del continuo
progresso – senza la quale non ci sarebbe né vita, né movimento, né religione;
perché non ci sarebbe Provvidenza”. Una “legge il cui movimento ci incalza”.
Una legge che fa
dire a Mazzini di lavorare, come tutto quello che chiama il “movimento
democratico”, “affinché lo sviluppo della società umana possa essere, per
quanto possibile, somigliante alla società divina, alla città celeste, dove
tutti sono uguali, dove non esiste che un solo amore e una sola felicità.” E’
per questo che “noi protestiamo contro ogni ineguaglianza, contro ogni
oppressione, dovunque siano praticate: perché noi non consideriamo nessuno come
straniero, noi distinguiamo solamente il giusto dall’ingiusto, gli amici dai
nemici delle legge di Dio”.
Il punto, sul quale gioverebbe
riflettere ancora oggi, è che “si possono sviluppare quanto si voglia gli
interessi materiali: se un rinnovamento morale non li governa, probabilmente si
accresceranno le già troppo grandi ricchezze dei pochi, ma la massa di coloro
che producono non vedrà migliorate le proprie condizioni: o addirittura
aumenterà l’egoismo; sarà soffocato sotto i piaceri fisici tutto ciò che v’è di
più nobile nella natura umana; un progresso solo materiale potrebbe sfociare in
un’immobile società di tipo cinese.” (p.72)
Dunque, “noi
democratici vogliamo che l’uomo sia migliore di quanto egli è; che egli abbia
più amore, un maggior senso del bello, del grande, del vero; che l’ideale che
egli persegue sia più puro, che egli senta la propria dignità, e abbia più
rispetto per la sua anima immortale. Che egli abbia, in una fede liberamente
adottata, un faro che lo guidi, e le sue azioni corrispondano a questo credo”. La
Democrazia è, per
Mazzini, un ideale esigente; essa dice: “lavorate tutti per associarvi.
Invitate tutti al banchetto della vita. Abbattete le barriere che vi separano.
Fatta eccezione per quelli dell’intelligenza e della moralità, sopprimete tutti
i privilegi che vi rendono ostili o invidiosi. Rendete voi stessi eguali, per
quanto è possibile. E ciò non solo perché la natura umana ha ovunque gli stessi
diritti, ma perché è possibile migliorare gli uomini solo migliorando l’UOMO, solo migliorando la stessa idea
della vita che lo spettacolo dell’ineguaglianza tende a peggiorare. Ogni ineguaglianza porta con sé una quantità
proporzionale di tirannia; ovunque ci sia stato uno schiavo, c’è stato anche un
padrone ed entrambi distorcono, e corrompono, in coloro che li vedono l’idea
della vita.”
Nel secondo
articolo, Mazzini, distingue due correnti nel vasto e frammentato movimento
“democratico”: quella che si basa sui diritti
degli individui e quella che, al contrario, fonda la propria dottrina su alcuni
doveri derivanti da qualcosa di
superiore agli stessi, e spesso all’intera società. E’, in effetti, la frattura
tra le posizioni liberali e quelle socialiste. Naturalmente in quegli anni la
prima è forte la seconda debole. Mentre la prima ha oltre sessanta anni di
storia, la seconda avvia i suoi primi passi nel 1830, cioè solo quindici anni
prima (è come se noi parlassimo di una tendenza politica nata nel 2000).
In questo
articolo il grande ligure attacca quindi con vigore una linea di pensiero per
la quale, secondo lui, “non c’è
propriamente nessuna società”, in cui tutto lo sforzo è rivolto “a
organizzare un sistema di garanzie contro ogni possibile abuso” contro
l’individuo singolo. Si tratta di un “ognuno per se stesso” che egli trova
“immorale” ed “ignobile”. Al contrario “siamo tutti vincolati gli uni agli
altri”. Altrimenti, si chiede, cosa potrà trattenere dal volgere la libertà
individuale (pur sacra) da mezzo a fine,
e dirigerla al mero arricchimento (che per definizione non può essere di
tutti)? Distruggendo gli istinti eminentemente
sociali dell’uomo?
Nel terzo
articolo, quindi, prende di mira direttamente Jeremy Bentham, il grande
filosofo utilitarista, autore del Panopticon
(sul quale Michel Foucault spese straordinarie pagine). Nel 1846 l’utilità, il sommo principio di
Bentham, appare a Mazzini effetto della “incompleta conoscenza della natura
umana, l’omissione di tutte le più belle, nobili, pregevoli capacità della
nostra anima l’oblio della legge suprema del mondo collettivo – il continuo
progredire del pensiero”. Certo, egli appartiene al XVIII secolo, il secolo
della lotta al privilegio, e dunque ad essa si opponeva. Va a sua gloria
esservisi opposto. Tuttavia “ora la vecchia esistenza fondata sul privilegio e
la diseguaglianza è polvere e cenere”, dunque l’obiettivo non può essere così
limitato. Anzi, lo scopo che Mazzini vede davanti a sé è di “far rivivere il
senso del dovere nel cuore di uomini ridotti a macchine calcolatrici”, offrire a
tutti “un degno obiettivo”. (p.90)
Per questo l’utilità
è un obiettivo del tutto insufficiente a discriminare nei conflitti di
interesse individuali, ad esempio tra “l’utilità del proprietario terriero e
del fabbricante”, e quella del lavoratore, dato che interesse –e dunque
utilità- del fabbricante è “prolungare la giornata di lavoro e diminuire il più
possibile i salari”. Si tratta, in altre parole, di un conflitto distributivo
tra utilità opposte; con le parole di Mazzini, “di concessioni e perdite da una
parte e di guadagno dall’altra”. Come, conciliarle senza fare appello ad un
principio superiore di giustizia?
La cosa è di
grande importanza e l’abbiamo persa di vista: “se la felicità fosse quaggiù lo scopo [unico] della vita, il nostro
mondo non sarebbe altro che un triste fallimento” (Mazzini, p. 95).
Nessun commento:
Posta un commento