“La paura è probabilmente il demone più sinistro tra quelli
che si annidano nelle società aperte del nostro tempo. Ma è l’insicurezza del
presente e l’incertezza del futuro che covano e alimentano la più spaventosa e
meno sopportabile delle nostre paure”, così
scrive Zigmund Bauman nel suo ultimo libro Il
demone della paura.
Da dove nasce questa
paura? Perché abbiamo pensato di raggiungere l’equilibrio aprendo le nostre
società? Perché continuiamo a pensarlo? Quali tensioni trovano equilibrio in
questa ricerca? Quali poteri si nutrono di questa apertura? E quali si
indeboliscono?
Dagli anni settanta agli
anni dieci l’uomo faber è quasi scomparso, nei luoghi più avanzati solo l’8%
della forza lavoro (cioè, probabilmente il 3-4% della popolazione a ben vedere)
produce tutti i beni che la nazione usa; ciò implica che l’estrazione del valore, tramite il sempre maggiore impiego di
capitale rispetto al lavoro e la protezione garantita dalla cruciale
legislazione sulla proprietà intellettuale, è arrivato a livelli di
perfezionamento ed efficienza tali da concentrare su una ristrettissima élite
quasi la metà della ricchezza disponibile. Il converso è che il 90% della
popolazione si intrattiene, scambiandosi servizi reciproci, in regime di
crescente scarsità.
Questo grafico è tratto
da un Rapporto del MEF, in esso
vediamo in Italia la concentrazione del reddito in base alle dichiarazioni fiscali nel primo 5%
della popolazione. Un salto colossale.
Il primo 15% della popolazione dispone di oltre il 40% del reddito. Ed esercita un controllo sociale, sui media, sulle
associazioni, sulla politica, sulle agenzie, su tutti noi molto più forte,
molto più che proporzionale. Questa è la
magia della densità.
Ci sono molti modi di
guardare a questo fenomeno, come ci sono molte cause. Alcune sono culturali,
altre tecniche, altre economiche.
Una delle ipotesi che
più mi convince è che dagli anni settanta, grosso modo, sia in accelerazione una
transizione tecnologica dalle profonde conseguenze organizzative, culturali e persino
antropologiche. Siamo dentro un periodo di transizione come quello che ha
portato, prima in Inghilterra e poi in Europa, infine negli Stati Uniti la
vecchia società agraria diventare industriale. Oppure come quello che, in una
seconda ondata di industrializzazione spinta da nuove tecniche di comunicazione
e trasporto, ha visto negli anni trenta del secolo scorso centinaia di milioni
di persone perdere il proprio equilibrio economico ed esistenziale. Quando si
guarda a questi periodi da lontano si tende a vedere una crescita, magari
tramite un certo grado di “distruzione creatrice”, ma benigna, ed un
miglioramento. In fondo si produce di più, e meglio, con meno risorse, con meno
uomini, con meno spazio, in meno tempo. E le risorse liberate possono essere
impiegate.
Ma da vicino è un’altra storia. Nello scorrere del tempo si resta intrappolati in delle
sacche vuote, come un pesce rosso in un dito d’acqua.
Il processo premia
alcuni fortunati (e privilegiati), che si trovano nel momento e nel posto
giusto, anche per nascita, e colpisce tantissimi, divenuti improvvisamente
inadatti. In un certo senso il processo produce, almeno nella prima fase, una
maggiore concentrazione come farebbe una “pompa idrovora” di nuovo tipo e
grandissima potenza, capace di trasformare un’area umida (nella quale vivevano
in equilibrio ecologico stabile da tempo tante specie, incluse molte zanzare)
in un terreno piano ed asciutto (disponibile ad una efficiente monocoltura) e
una bella piscina.
Questo succede quando i
ritmi si disallineano e gli squilibri si sommano. Allora crisi ed instabilità
mobilita la paura. Schumpeter diceva che “i
fatti economici e sociali si svolgono per impulso proprio, e le situazioni che
ne derivano costringono individui e gruppi a comportarsi in un certo modo quali
che siano i loro desideri – non distruggendo, è vero, la loro libertà di
scelta, ma foggiando le mentalità che alla scelta presiedono e limitando la
rosa delle possibilità fra cui scegliere” (in “Il capitalismo può sopravvivere?”, 1942, p. 139). Abbiamo subito, e
spesso alimentato, questa limitazione man mano che ci siamo accorti che la
distruzione non si accompagnava alla creazione. Che ciò che si perdeva in un
luogo (ad esempio a Detroit) non si rigenerava nella stessa forma e luogo.
Nel corso degli ultimi
trenta anni, inesorabilmente, il sistema economico ha perso in questo modo la
capacità di esprimere il suo potenziale umano.
Ha determinato al suo posto sempre maggiore dinamismo, ricchezza nominale,
concentrazione di potere, verticalità (anche territoriale), ha eroso la parte
di ricchezza distribuita al centro ed in basso per spostarla in alto (uno
spostamento nell’ordine del 15-30% della ricchezza disponibile, secondo i
luoghi).
E’ difficile, nella
traccia lasciataci da Schumpeter, dire se sia stata la reazione della politica
(e qui il ricordo va alla Thatcher, a Reagan, ma anche a Clinton, Blair,
Schroeder, Mitterrand) a favorire la centralità della finanza, dell’interconnessione,
della velocità, sull’attrito dei luoghi e dei territori, o se sia stato l’”impulso
proprio” determinato dalla “seconda natura” della tecnica. Da quello spirito
della tecnica che consiste nell’apprestare le cose e gli uomini per il loro
utilizzo, nel reificare (usando parole di diversa provenienza ma simile periodo
storico) l’umano.
Cioè, si potrebbe
pensare, che semplicemente la società trova l’equilibrio più comodo, quello
determinato dalle forze essenziali, da quelle dominanti. Questa idea,
trasferita nel linguaggio astratto della matematica, o nel confortevole rifugio
della metafisica, ispira concetti come la <Legge di Say> in base alla quale non può esistere squilibrio,
carenza di domanda (o eccesso di offerta) e disoccupazione, in quanto la
produzione di beni, comunque sia conseguita, creerà automaticamente la sua
domanda. Ne abbiamo discusso in un post di gennaio, “Circa
la distruzione tecnologica e l’ineguaglianza”, di cui questo è in
qualche modo la prosecuzione. Ma in caso di discontinuità nella “seconda natura”
tecnologica, quindi di struttura sociale, questo non è più vero (se pure lo
fosse mai stato).
L’obiezione che viene “dalla
piscina” è che la finanza fa da ponte tra le forze che restano disoccupate e l’offerta
di prodotti e servizi generata senza il loro contributo (e dunque non connessi
con il loro reddito, come vorrebbe la “Legge”). In questa direzione soccorre (o
dovrebbe farlo nel mondo della matematica) <l’effetto Pigou>, in base al quale la pressione dell’esercito di
riserva dei disoccupati determinerebbe automaticamente la riduzione dei salari
e dei prezzi, ripristinando l’equilibrio. Questa è la teoria che sostiene razionalmente
le politiche di austerità.
Ogni sforzo per
eliminare gli elementi di rigidità al calo dei prezzi, alla mobilitazione della
forza lavoro, alla discesa dei salari (tra i quali, ovviamente, si annoverano i
sindacati) nasce da questa fredda teoria. Mentre si attende che il sistema si
riassetti (in un sistema interconnesso la cosa è molto più complessa, dato che
prezzi e salari possono scendere in Polonia, anziché in Spagna), si creano,
però, quelle che altrove avevo chiamato “sacche temporali e spaziali di diradamento,
cioè di crisi”. Sacche che tendono ad
essere ampie, persistenti e per alcuni permanenti. Sostanzialmente, quanto più
profonda è la riconfigurazione strutturale e la dislocazione spaziale ed
interconnessione (cioè la competizione), quanto più ampia è la ristrutturazione
organizzativa nella divisione del lavoro, quanto più ampia è la forbice
cognitiva tra attività “vincenti” e “perdenti”, quanto più, ovviamente, le
sacche saranno ampie e persistenti.
In tali sacche alla fine
interi territori, e milioni di persone, sono abbandonate per periodi di tempo
che possono, nelle condizioni della lunga transizione in corso, anche durare
decenni. O sempre.
Da qui nasce, in modo del tutto razionale, la paura.
Per fare un esempio
concreto, la percentuale di persone (fonte Eurostat, maggio 2014) che si trova
in condizioni di “severa deprivazione materiale” è cresciuta in Italia, durante
la crisi dal valore del 2007 del 6,8% all’incredibile 14,5%. Ma, cosa forse più
significativa, lo ha fatto in soli due anni (2011 e 2012, il 2013 non è ancora
disponibile), passando dal 6,9 del 2010 al 11,2% del 2011 ed al 14,5 % del
2012.
Le persone che stanno un
poco meglio, e sono “solo” a rischio di povertà, sono nel frattempo salite al
29,9%, di cinque punti in due anni.
Il 30% della popolazione
non ha praticamente più peso, ottiene il 6% della ricchezza totale, il primo 1%
ne ha molta di più. E, concentrandosi, dispone di un multiplo incommensurabile
del potere. Resta in grado di determinare le scelte e le politiche, di
esprimere la “democrazia dei mercati” cui faceva
riferimento Carli nelle sue memorie, di imporre la tutela della sua
ricchezza accumulata. Dunque di assicurarsi la permanenza delle politiche di austerità
e deflattive, sulle alternative politiche espansive (e dunque anche
moderatamente inflattive). Fino a che non capiremo che un poco d’acqua va
restituita la transizione non si completerà. Il deserto avanzerà.
Possiamo permettercelo? Per quanto tempo? E, soprattutto, perché
dovremmo farlo?
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