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giovedì 8 maggio 2014

Transizioni: dalle zone umide alle pianure irrigue. Logica dell’austerità e tecnologia.


“La paura è probabilmente il demone più sinistro tra quelli che si annidano nelle società aperte del nostro tempo. Ma è l’insicurezza del presente e l’incertezza del futuro che covano e alimentano la più spaventosa e meno sopportabile delle nostre paure”, così scrive Zigmund Bauman nel suo ultimo libro Il demone della paura.
Da dove nasce questa paura? Perché abbiamo pensato di raggiungere l’equilibrio aprendo le nostre società? Perché continuiamo a pensarlo? Quali tensioni trovano equilibrio in questa ricerca? Quali poteri si nutrono di questa apertura? E quali si indeboliscono?

Dagli anni settanta agli anni dieci l’uomo faber è quasi scomparso, nei luoghi più avanzati solo l’8% della forza lavoro (cioè, probabilmente il 3-4% della popolazione a ben vedere) produce tutti i beni che la nazione usa; ciò implica che l’estrazione del valore, tramite il sempre maggiore impiego di capitale rispetto al lavoro e la protezione garantita dalla cruciale legislazione sulla proprietà intellettuale, è arrivato a livelli di perfezionamento ed efficienza tali da concentrare su una ristrettissima élite quasi la metà della ricchezza disponibile. Il converso è che il 90% della popolazione si intrattiene, scambiandosi servizi reciproci, in regime di crescente scarsità.


Questo grafico è tratto da un Rapporto del MEF, in esso vediamo in Italia la concentrazione del reddito in  base alle dichiarazioni fiscali nel primo 5% della popolazione. Un salto colossale. Il primo 15% della popolazione dispone di oltre il 40% del reddito. Ed esercita un controllo sociale, sui media, sulle associazioni, sulla politica, sulle agenzie, su tutti noi molto più forte, molto più che proporzionale. Questa è la magia della densità.
Ci sono molti modi di guardare a questo fenomeno, come ci sono molte cause. Alcune sono culturali, altre tecniche, altre economiche.

Una delle ipotesi che più mi convince è che dagli anni settanta, grosso modo, sia in accelerazione una transizione tecnologica dalle profonde conseguenze organizzative, culturali e persino antropologiche. Siamo dentro un periodo di transizione come quello che ha portato, prima in Inghilterra e poi in Europa, infine negli Stati Uniti la vecchia società agraria diventare industriale. Oppure come quello che, in una seconda ondata di industrializzazione spinta da nuove tecniche di comunicazione e trasporto, ha visto negli anni trenta del secolo scorso centinaia di milioni di persone perdere il proprio equilibrio economico ed esistenziale. Quando si guarda a questi periodi da lontano si tende a vedere una crescita, magari tramite un certo grado di “distruzione creatrice”, ma benigna, ed un miglioramento. In fondo si produce di più, e meglio, con meno risorse, con meno uomini, con meno spazio, in meno tempo. E le risorse liberate possono essere impiegate.
Ma da vicino è un’altra storia. Nello scorrere del tempo si resta intrappolati in delle sacche vuote, come un pesce rosso in un dito d’acqua.
Il processo premia alcuni fortunati (e privilegiati), che si trovano nel momento e nel posto giusto, anche per nascita, e colpisce tantissimi, divenuti improvvisamente inadatti. In un certo senso il processo produce, almeno nella prima fase, una maggiore concentrazione come farebbe una “pompa idrovora” di nuovo tipo e grandissima potenza, capace di trasformare un’area umida (nella quale vivevano in equilibrio ecologico stabile da tempo tante specie, incluse molte zanzare) in un terreno piano ed asciutto (disponibile ad una efficiente monocoltura) e una bella piscina.

Questo succede quando i ritmi si disallineano e gli squilibri si sommano. Allora crisi ed instabilità mobilita la paura. Schumpeter diceva che “i fatti economici e sociali si svolgono per impulso proprio, e le situazioni che ne derivano costringono individui e gruppi a comportarsi in un certo modo quali che siano i loro desideri – non distruggendo, è vero, la loro libertà di scelta, ma foggiando le mentalità che alla scelta presiedono e limitando la rosa delle possibilità fra cui scegliere” (in “Il capitalismo può sopravvivere?”, 1942, p. 139). Abbiamo subito, e spesso alimentato, questa limitazione man mano che ci siamo accorti che la distruzione non si accompagnava alla creazione. Che ciò che si perdeva in un luogo (ad esempio a Detroit) non si rigenerava nella stessa forma e luogo.
Nel corso degli ultimi trenta anni, inesorabilmente, il sistema economico ha perso in questo modo la capacità di esprimere il suo potenziale umano. Ha determinato al suo posto sempre maggiore dinamismo, ricchezza nominale, concentrazione di potere, verticalità (anche territoriale), ha eroso la parte di ricchezza distribuita al centro ed in basso per spostarla in alto (uno spostamento nell’ordine del 15-30% della ricchezza disponibile, secondo i luoghi).
E’ difficile, nella traccia lasciataci da Schumpeter, dire se sia stata la reazione della politica (e qui il ricordo va alla Thatcher, a Reagan, ma anche a Clinton, Blair, Schroeder, Mitterrand) a favorire la centralità della finanza, dell’interconnessione, della velocità, sull’attrito dei luoghi e dei territori, o se sia stato l’”impulso proprio” determinato dalla “seconda natura” della tecnica. Da quello spirito della tecnica che consiste nell’apprestare le cose e gli uomini per il loro utilizzo, nel reificare (usando parole di diversa provenienza ma simile periodo storico) l’umano.
Cioè, si potrebbe pensare, che semplicemente la società trova l’equilibrio più comodo, quello determinato dalle forze essenziali, da quelle dominanti. Questa idea, trasferita nel linguaggio astratto della matematica, o nel confortevole rifugio della metafisica, ispira concetti come la <Legge di Say> in base alla quale non può esistere squilibrio, carenza di domanda (o eccesso di offerta) e disoccupazione, in quanto la produzione di beni, comunque sia conseguita, creerà automaticamente la sua domanda. Ne abbiamo discusso in un post di gennaio, “Circa la distruzione tecnologica e l’ineguaglianza”, di cui questo è in qualche modo la prosecuzione. Ma in caso di discontinuità nella “seconda natura” tecnologica, quindi di struttura sociale, questo non è più vero (se pure lo fosse mai stato).
L’obiezione che viene “dalla piscina” è che la finanza fa da ponte tra le forze che restano disoccupate e l’offerta di prodotti e servizi generata senza il loro contributo (e dunque non connessi con il loro reddito, come vorrebbe la “Legge”). In questa direzione soccorre (o dovrebbe farlo nel mondo della matematica) <l’effetto Pigou>, in base al quale la pressione dell’esercito di riserva dei disoccupati determinerebbe automaticamente la riduzione dei salari e dei prezzi, ripristinando l’equilibrio. Questa è la teoria che sostiene razionalmente le politiche di austerità.
Ogni sforzo per eliminare gli elementi di rigidità al calo dei prezzi, alla mobilitazione della forza lavoro, alla discesa dei salari (tra i quali, ovviamente, si annoverano i sindacati) nasce da questa fredda teoria. Mentre si attende che il sistema si riassetti (in un sistema interconnesso la cosa è molto più complessa, dato che prezzi e salari possono scendere in Polonia, anziché in Spagna), si creano, però, quelle che altrove avevo chiamato “sacche temporali e spaziali di diradamento, cioè di crisi”. Sacche che tendono ad essere ampie, persistenti e per alcuni permanenti. Sostanzialmente, quanto più profonda è la riconfigurazione strutturale e la dislocazione spaziale ed interconnessione (cioè la competizione), quanto più ampia è la ristrutturazione organizzativa nella divisione del lavoro, quanto più ampia è la forbice cognitiva tra attività “vincenti” e “perdenti”, quanto più, ovviamente, le sacche saranno ampie e persistenti.
In tali sacche alla fine interi territori, e milioni di persone, sono abbandonate per periodi di tempo che possono, nelle condizioni della lunga transizione in corso, anche durare decenni. O sempre.

Da qui nasce, in modo del tutto razionale, la paura.

Per fare un esempio concreto, la percentuale di persone (fonte Eurostat, maggio 2014) che si trova in condizioni di “severa deprivazione materiale” è cresciuta in Italia, durante la crisi dal valore del 2007 del 6,8% all’incredibile 14,5%. Ma, cosa forse più significativa, lo ha fatto in soli due anni (2011 e 2012, il 2013 non è ancora disponibile), passando dal 6,9 del 2010 al 11,2% del 2011 ed al 14,5 % del 2012.
Le persone che stanno un poco meglio, e sono “solo” a rischio di povertà, sono nel frattempo salite al 29,9%, di cinque punti in due anni.

Il 30% della popolazione non ha praticamente più peso, ottiene il 6% della ricchezza totale, il primo 1% ne ha molta di più. E, concentrandosi, dispone di un multiplo incommensurabile del potere. Resta in grado di determinare le scelte e le politiche, di esprimere la “democrazia dei mercati” cui faceva riferimento Carli nelle sue memorie, di imporre la tutela della sua ricchezza accumulata. Dunque di assicurarsi la permanenza delle politiche di austerità e deflattive, sulle alternative politiche espansive (e dunque anche moderatamente inflattive). Fino a che non capiremo che un poco d’acqua va restituita la transizione non si completerà. Il deserto avanzerà.

Possiamo permettercelo? Per quanto tempo? E, soprattutto, perché dovremmo farlo?

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