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martedì 6 maggio 2014

Europa e democrazia


Diciamo le cose come stanno: il vero problema dell’Europa è che non ha rispetto di noi. Sottilmente il Governo Europeo si è impossessato, giorno dopo giorno, della nostra libertà, tramutandola in uno stato di tutela.

Attraverso la paura, sfruttandola, alcuni oligarchi –come sempre nella storia, convinti di essere “i migliori” e i più illuminati-, hanno sin dall’immediato dopoguerra insediato al centro del Progetto Europeo, al centro del sogno di Ventotene di Spinelli, un sistematico depotenziamento della democrazia popolare. Un sospetto, interessato, verso l’espressione della volontà e dell’opinione dei cittadini. Verso i Parlamenti eletti. Verso le forme della democrazia liberale.
Un recente articolo di Daniel Hannan, su The Telegraph, sostiene questa percezione, raccontando alcune incredibili dichiarazioni di Josè Manuel Barroso Durrao, politico Popolare e Presidente della Commissione Europea, afferma con apprezzabile franchezza quel che tutti sappiamo da tempo: l’Unione Europea non è democratica e non vuole esserlo.
La sua funzione, nell’equilibrio del potere che si è istituito nel continente è di controbilanciare la democrazia. I governi eletti.
Secondo la sua visione e parole: “i governi non hanno sempre ragione. Se i governi avessero sempre ragione non avremmo la situazione che abbiamo oggi. Le decisioni adottate dalle istituzioni più democratiche del mondo molto spesso sbagliano”.
Qui si incontra una visione prettamente aristocratica del vero e del giusto. Secondo questa antica idea (in effetti la più antica, quella contro la quale si è affermata la democrazia) qualcuno “sa” quel che è giusto fare. Ed i cittadini no.
Questo qualcuno, dunque, deve avere il potere reale. Per il bene di tutti.
I nobili, dal medioevo in poi “sapevano” che la cosa giusta era che i contadini e gli artigiani stessero al loro posto (produrre i beni ed i servizi di cui loro si servivano) e si lasciassero guidare. Il clero, fino alla rivoluzione francese “sapeva” che la cosa giusta era che la società fosse indirizzata al bene da loro.
Robert Schuman e Jean Monnet, “sapevano” che il popolo è influenzabile, può andare dietro a demagoghi e populisti, e dunque doveva essere protetto. Da se stesso.
Guido Carli, “sapeva” che serviva il Trattato di Maastricht, per “ridurre drasticamente il potere dei governi nazionali”, ed era necessario trasferire la sovranità dai cittadini ai mercati (cioè ai cittadini in quanto acquirenti dei titoli di stato). Questo nodo ideologico e politico (o, per usare le parole di Carli, questa nuova “sintesi politica”) sposta radicalmente il potere dalla parola, dove è sempre stato dal tempo di Pericle, verso l’azione muta e solitaria del comprare (e vendere).
Ri-disloca il potere nelle mani dei cittadini tali per censo (dove era sino all’ottocento). Si può dire che questa idea (tecnicamente e radicalmente eversiva) rappresenti il completamento del progetto liberista di ricondurre il mondo entro i più confortevoli abiti ottocenteschi. Nei quali la gerarchia sociale non sia disturbata dalle organizzazioni dei lavoratori, o da vari corpi intermedi e gruppi di pressione. Nei quali si possano esprimere interessi più omogenei e contenere il conflitto escludendo dall’arena gli interessi estranei.
Un disegno visibile nelle opere (e ancor più negli esempi) della Scuola di Chicago, e di tantissimi autori di vario orientamento; tutti tesi a screditare l’interesse pubblico se non come composizione automatica (non tramite la parola e la politica) dell’interesse privato.
C’è all’opera in questa posizione anche un’astuzia: i politici di èlite hanno a disposizione “due cappelli” (come propone di considerare Sonia Alonso in un interessante articolo) uno da mettere quando sono a casa, ed uno a Bruxelles. Il primo è democratico, e tiene conto della dinamica politica nazionale, delle obiezioni espresse dai Parlamenti, dalla forza relativa dei diversi partiti, dalla presentabilità ed accettazione di certe opzioni e politiche (in questa sede, normalmente, l’austerità fine a se stessa è vista con sospetto, i servizi non vanno ridotti, le tasse non vanno aumentate, l’occupazione difesa, l’industria protetta e dir si voglia). Il secondo è tecnocratico, e invece tiene conto della dinamica determinata in sede europea dove l’Agenda è molto diversa, e gli interessi presenti al tavolo sono più semplici (l’alta finanza e la grande industria su tutti), si presenta la lotta all’inflazione, l’austerità il diritto sovrano dei creditori.
Il secondo “cappello”, ovviamente ha l’effetto di quella invenzione dell’Archimede di Topolino: trova l’idea giusta.

Peter Mair, richiama lo stesso nodo evidenziando il legame di questa situazione (contrappasso dell’astuzia) nello svuotamento di senso dei Partiti. I politici con il doppio cappello sono svuotati del loro ruolo, diventando quasi portavoce di un astratto Governo Europeo. Un governo delle èlite che ha imparato, proprio tramite questa astuzia, a fare a meno del popolo.
Il prezzo di fare a meno di qualcuno è che questi si risente. Dunque questo “sogno”, di disporre di un’area protetta nella quale si possa essere “al sicuro dalle richieste degli elettori e dei suoi rappresentanti” (come scrive Mair) è divenuto l’incubo dell’anti-politica, il contro-attacco dei marginalizzati, dei non ascoltati, di chi ha dovuto sentire, continuo, il ritornello “non ci sono alternative”.

Il premio invece è che si può stare dentro belle stanze, insonorizzate, a parlare con belle persone ben vestite, educate, accompagnate da superconsulenti che aprono a carriere alternative (come quella di Schoeder, divenuto lobbista del gas di Putin). Il premio è che ciò che conta, gli interessi che accedono, è già tutto a portata di mano. Si esprime in una ristretta (ma si tratta di centinaia di migliaia di persone) élite mondializzata ed interconnessa, cosmopolita, che ha frequentato una ventina di scuole, una decina di master o dottorati. Un milieu internazionale che governa flussi, linguaggi, decisioni e culture.
Che, però, abbastanza vigliaccamente, ha da tempo trovato più comodo ripararsi al coperto della necessità di giustificarsi con argomenti pubblici. Cioè con argomenti espressi in pubblico e capaci di ottenere il consenso (almeno potenziale) anche di altri. Di chi non gode degli stessi privilegi, di chi non ha gli stessi interessi.

Al coperto di questa necessità, di questa responsabilità, occorre in effetti una giustificazione diversa. Bisogna far passare (possibilmente sotto silenzio, di fatto) che è oggettivamente giusto che qualcuno diriga, dall’alto di una tecnica “senza alternative”.

Questa posizione non è liberale, è il suo esatto opposto.

Spiace che autori che si sentono liberali, come Zingales ad esempio, non se ne avvedano quando attribuiscono alla capacità dei capitali di esser liberi l’unico freno possibile all’arbitrio della democrazia (cioè dei Governi eletti). Se vogliamo è l’esatto contrario: è la democrazia popolare e rappresentativa che deve essere libera, e i capitali ad essere frenati (quando vanno in contrasto con l’interesse pubblico).


L’unico “interesse pubblico”, in uno stato non teocratico (incluso il dio denaro), è quello che decidiamo insieme. Con la parola.

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