Diciamo le cose come stanno: il vero problema dell’Europa è che non ha rispetto
di noi. Sottilmente il Governo Europeo si è impossessato, giorno dopo giorno,
della nostra libertà, tramutandola in uno stato di tutela.
Attraverso la paura, sfruttandola, alcuni oligarchi –come sempre nella
storia, convinti di essere “i migliori” e i più illuminati-, hanno sin
dall’immediato dopoguerra insediato al centro del Progetto Europeo, al centro del
sogno di Ventotene di Spinelli,
un sistematico depotenziamento della democrazia popolare. Un sospetto,
interessato, verso l’espressione della volontà e dell’opinione dei cittadini.
Verso i Parlamenti eletti. Verso le forme della democrazia liberale.
Un recente articolo
di Daniel Hannan, su The Telegraph, sostiene
questa percezione, raccontando alcune incredibili dichiarazioni di Josè Manuel Barroso Durrao, politico
Popolare e Presidente della Commissione Europea, afferma con apprezzabile
franchezza quel che tutti sappiamo da tempo: l’Unione Europea non è democratica e non vuole esserlo.
La sua funzione,
nell’equilibrio del potere che si è istituito nel continente è di
controbilanciare la democrazia. I governi eletti.
Secondo la sua
visione e parole: “i governi non hanno sempre
ragione. Se i governi avessero sempre ragione non avremmo la situazione che
abbiamo oggi. Le decisioni adottate dalle istituzioni più democratiche del
mondo molto spesso sbagliano”.
Qui si incontra
una visione prettamente aristocratica del vero e del giusto. Secondo questa
antica idea (in effetti la più antica, quella contro la quale si è affermata la
democrazia) qualcuno “sa” quel che è giusto fare. Ed i cittadini no.
Questo qualcuno,
dunque, deve avere il potere reale. Per
il bene di tutti.
I nobili, dal
medioevo in poi “sapevano” che la cosa giusta era che i contadini e gli
artigiani stessero al loro posto (produrre i beni ed i servizi di cui loro si
servivano) e si lasciassero guidare. Il clero, fino alla rivoluzione francese “sapeva”
che la cosa giusta era che la società fosse indirizzata al bene da loro.
Robert Schuman
e Jean Monnet, “sapevano” che il
popolo è influenzabile, può andare dietro a demagoghi e populisti, e dunque
doveva essere protetto. Da se stesso.
Guido
Carli, “sapeva” che serviva
il Trattato di Maastricht, per “ridurre
drasticamente il potere dei governi nazionali”, ed era necessario trasferire la
sovranità dai cittadini ai mercati (cioè ai cittadini in quanto acquirenti dei titoli di stato). Questo nodo ideologico e
politico (o, per usare le parole di Carli, questa nuova “sintesi politica”)
sposta radicalmente il potere dalla
parola, dove è sempre stato dal tempo di Pericle, verso l’azione muta e solitaria del comprare
(e vendere).
Ri-disloca il
potere nelle mani dei cittadini tali per censo (dove era sino all’ottocento).
Si può dire che questa idea (tecnicamente e radicalmente eversiva) rappresenti
il completamento del progetto liberista di ricondurre il mondo entro i più
confortevoli abiti ottocenteschi. Nei quali la gerarchia sociale non sia
disturbata dalle organizzazioni dei lavoratori, o da vari corpi intermedi e
gruppi di pressione. Nei quali si possano esprimere interessi più omogenei e
contenere il conflitto escludendo dall’arena gli interessi estranei.
Un disegno
visibile nelle opere (e ancor più negli esempi) della Scuola di Chicago, e di
tantissimi autori di vario orientamento; tutti tesi a screditare l’interesse
pubblico se non come composizione automatica (non tramite la parola e la
politica) dell’interesse privato.
C’è all’opera in
questa posizione anche un’astuzia: i politici di èlite hanno a disposizione “due
cappelli” (come propone di considerare Sonia Alonso in un interessante articolo)
uno da mettere quando sono a casa, ed uno a Bruxelles. Il primo è democratico, e tiene conto della dinamica politica
nazionale, delle obiezioni espresse dai Parlamenti, dalla forza relativa dei
diversi partiti, dalla presentabilità ed accettazione di certe opzioni e
politiche (in questa sede, normalmente, l’austerità fine a se stessa è vista
con sospetto, i servizi non vanno ridotti, le tasse non vanno aumentate, l’occupazione
difesa, l’industria protetta e dir si voglia). Il secondo è tecnocratico, e invece tiene conto della dinamica
determinata in sede europea dove l’Agenda è molto diversa, e gli interessi
presenti al tavolo sono più semplici (l’alta finanza e la grande industria su
tutti), si presenta la lotta all’inflazione, l’austerità il diritto sovrano dei
creditori.
Il secondo “cappello”,
ovviamente ha l’effetto di quella invenzione dell’Archimede di Topolino: trova l’idea giusta.
Peter
Mair, richiama lo stesso
nodo evidenziando il legame di questa situazione (contrappasso dell’astuzia)
nello svuotamento di senso dei Partiti. I politici con il doppio cappello sono
svuotati del loro ruolo, diventando quasi portavoce di un astratto Governo
Europeo. Un governo delle èlite che ha imparato, proprio tramite questa
astuzia, a fare a meno del popolo.
Il prezzo di fare a meno di qualcuno è che questi si
risente. Dunque questo “sogno”,
di disporre di un’area protetta nella quale si possa essere “al sicuro dalle
richieste degli elettori e dei suoi rappresentanti” (come scrive Mair) è
divenuto l’incubo dell’anti-politica, il contro-attacco dei marginalizzati, dei
non ascoltati, di chi ha dovuto sentire, continuo, il ritornello “non ci sono
alternative”.
Il premio invece
è che si può stare dentro belle stanze, insonorizzate, a parlare con belle
persone ben vestite, educate, accompagnate da superconsulenti che aprono a
carriere alternative (come quella di Schoeder, divenuto lobbista del gas di
Putin). Il premio è che ciò che conta, gli interessi che accedono, è già tutto
a portata di mano. Si esprime in una ristretta (ma si tratta di centinaia di
migliaia di persone) élite mondializzata ed interconnessa, cosmopolita, che ha
frequentato una ventina di scuole, una decina di master o dottorati. Un milieu
internazionale che governa flussi, linguaggi, decisioni e culture.
Che, però,
abbastanza vigliaccamente, ha da tempo trovato più comodo ripararsi al coperto
della necessità di giustificarsi con argomenti pubblici. Cioè con argomenti
espressi in pubblico e capaci di ottenere il consenso (almeno potenziale) anche
di altri. Di chi non gode degli stessi privilegi, di chi non ha gli stessi
interessi.
Al coperto di
questa necessità, di questa responsabilità, occorre in effetti una
giustificazione diversa. Bisogna far passare (possibilmente sotto silenzio, di
fatto) che è oggettivamente giusto che qualcuno diriga, dall’alto di una tecnica
“senza alternative”.
Questa posizione non è liberale, è il suo esatto
opposto.
Spiace che
autori che si sentono liberali, come Zingales
ad esempio, non se ne avvedano quando attribuiscono alla capacità dei capitali
di esser liberi l’unico freno possibile all’arbitrio della democrazia (cioè dei
Governi eletti). Se vogliamo è l’esatto contrario: è la democrazia popolare e
rappresentativa che deve essere libera, e i capitali ad essere frenati (quando
vanno in contrasto con l’interesse pubblico).
L’unico “interesse
pubblico”, in uno stato non teocratico (incluso il dio denaro), è quello che
decidiamo insieme. Con la parola.
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