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lunedì 5 maggio 2014

Luigi Zingales, “Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire”. Delle sbarre della mente.


Un libro appena uscito, dell’economista Luigi Zingales, una delle superstar del sistema mediatico italiano, costantemente intervistato, autore di libri di ispirazione liberista vagamente “di sinistra”, non lontano dai luoghi che contano, descrive un uomo combattuto.

In “Europa o no”, troviamo infatti la commovente battaglia interiore di un uomo che con i suoi strumenti intellettuali e morali non riesce a decidere. E che cerca di restare in entrambe le posizioni, malgrado ne veda l’impossibilità.
Muovendo dai suoi presupposti, che cercheremo di individuare nel seguito, Zingales da una parte:
     -  Non vuole perdere la finanziarizzazione (cioè la piena libertà di movimento dei capitali) ed il mercantilismo (cioè l’approccio rivolto a potenziare i commerci a danno di terzi);
      -    E non vuole erodere il vantaggio del capitale sul lavoro (cioè sulla produzione), determinato specificatamente dal privilegio incommensurabile di potersi muovere liberamente, restando difeso da specifiche istituzioni in posizione dominante (le Banche Centrali);
Dall’altra parte, ed insieme:
-          Vede che stiamo perdendo, come paese e come area geografica “del sud”, una guerra tra capitali e stiamo inesorabilmente diventando una colonia.

Ora procediamo nella lettura, ma a me pare di poter dire questo: il testo si sbatte in una gabbia, senza trovare realmente la via di uscita. Però le sbarre sono tutte nella mente dell’autore, accorgersene mostrerebbe subito la via.

La tesi centrale del libro è, infatti, semplice e chiara: “l’Europa, così com’è non solo non è sostenibile, ma danneggia particolarmente il sud del continente, cui l’Italia appartiene” (Z, p.10). Per evitarlo sarebbero necessarie riforme radicali e in tempi brevissimi. Riforme che altrove giudica improbabili, per assoluta indisponibilità della Germania (cui non convengono).

E’ specificatamente “la gabbia di un cambio fisso e di un’economia rigida [a non essere] sostenibile nel lungo periodo. E quando qualcosa non può continuare per sempre, prima o poi … [si rompe]” (Z., p.125). Vedremo poi che significa “economia rigida”, per il liberista Zingales, ma intanto vediamo per chi non è sostenibile.
Alla Germania, che sta invecchiando, ma ha la maggior parte dei risparmi della sua borghesia e imprenditoria investiti in prodotti finanziari, conviene la deflazione. Essa, infatti, difende i creditori nei confronti dei debitori, o detto in modo diverso: il capitale già accumulato verso quello in formazione. Ora, come correttamente scrive l’autore: “la teoria economica [non è che ci voglia tanto] ci insegna che il modo migliore per creare un vantaggio competitivo è quello di scegliere una strategia che i nostri rivali non possono replicare” (Z, p. 132). Lo avevamo scritto un paio di giorni fa, analizzando gli atti della ratifica di Maastricht: i tecnici tedeschi al tavolo negoziale impostarono un meccanismo rivolto a costringere i paesi del sud, di cui si aveva paura, a infilarsi negli abiti tedeschi; quando si costringe qualcun altro a giocare il proprio gioco, rinunciando al suo, si sta progettando la vittoria “facile”.
Con le parole di Zingales: “dopo essere stati forzati a una moneta comune [in cambio dell’unificazione], i tedeschi hanno deciso di adottare la strategia in cui loro hanno un vantaggio comparato: quella della deflazione. Nessun altro paese (tranne l’Austria) è riuscito a contenere la crescita dei salari come hanno fatto loro. Se i salari crescono meno della produttività, la pressione deflattiva è assicurata”. Così facendo si aumentano i profitti, dunque i risparmi, e gli investimenti. Naturalmente si tratta di “una manovra brillante, ma molto antieuropeista”.

Direi che oltre ad essere antieuropeista è anche di classe. Zingales non sarebbe d’accordo perché vede la società come un insieme nel quale gli interessi sono fondamentalmente assenti. Nel senso che non sono fondamentalmente in contraddizione reciproca. Anche se in una interessante paginetta dispiega sui diversi gruppi i vantaggi/svantaggi dell’inflazione/deflazione, per lui i paesi guadagnano o perdono come un tutto unico. Questo è uno dei pilastri ideologici (una delle “sbarre”) che impedisce lo sviluppo di un’analisi diversa. E’ del tutto evidente che la contrazione dei salari, reale scopo dell’intero progetto della costruzione europea, serve agli scopi del dominio del capitale finanziario ed a quelli (strettamente intrecciati) del grande capitale investito nelle industrie da esportazione. Ma è altrettanto evidente che questo nesso rappresenta la trappola competitiva che distrugge i deboli (in senso relativo) sistemi economici del sud e le piccole industrie rivolte ai mercati interni.

Ma andiamo avanti, l’unica via di uscita che Zingales vede, è “guadagnare competitività rispetto al Nord” (p.139). Cioè l’unica via di uscita sarebbe se non esistesse la gabbia.
Preso in questo labirinto resta solo una possibilità: la soluzione del nostro è farne una più forte. Diventare dei fabbri migliori dei tedeschi (pazienza che sono secoli che non ci riusciamo); purtroppo si accorge subito che il compito è improponibile (oltre a non essere desiderabile): “questo richiede riforme, tempo e investimenti. Se la crisi del Sud Europa ha aumentato la pressione per le riforme, ha anche ridotto drammaticamente il tempo a disposizione e gli incentivi a investire. Quanti anni di disoccupazione a due cifre sono disposti a sopportare i paesi del Sud Europa?”
Meglio: quanti anni di disoccupazione e salari sempre minori, sono disposti a sopportare i lavoratori del Sud? Dove in questo caso è a sud Milano? E, perché dovrebbero?

La conclusione a questo punto sarebbe semplice e necessaria, lo stesso Zingales lo dice subito dopo: “non rimane che riconoscere le differenze insanabili e spezzare l’area Euro.”

Ma come si fa, senza subire i danni dello smantellamento dell’intreccio dei capitali? Questo è, per quanto leggo, il vero problema. Che diventa insolubile se si vuole tenere ferma la sbarra di acciaio della libertà di movimento dei capitali e dell’indipendenza (dalla democrazia, come vedremo) delle istituzioni finanziarie. Dato che il problema è insolubile, l’autore farà marcia indietro.

Ma mentre lo fa la sua analisi è comunque impietosa: l’Euro è stato presentato come “il sommo tentativo di salvare il continente e preservare il mondo dal suicidio”, p.13 (lo abbiamo visto qui) ma era in effetti una ideologia di una ristretta élite che ha cercato di imporre con l’astuzia e la forza il suo punto di vista. Werner-Muller ne ha parlato in modo chiaro (qui e lo abbiamo riassunto qui), la paura del populismo innesta una deriva oligarchica strumentalizzata da poteri sui quali dovremo interrogarci. La storia che racconta Zingales non è fondamentalmente diversa (p.15-21): il libero scambio (cioè il mercantilismo) è l’ideologia utile alle industrie dominanti verso quelle deboli, costringendole ad aprirsi alla concorrenza occupa gli spazi ecologici di queste ultime e le costringe a diventare colonie. Si tratta di una dinamica sulla quale la letteratura e la discussione è aperta da secoli, come tutti i fenomeni complessi è aperta a molte interpretazioni e non mancano gli argomenti validi anche a sostegno, tuttavia nel nostro caso è chiaro che non è nell’interesse fondamentale del Sud essere “mezzoggiornificato”. Una delle cose più forti del libro è, infatti, la ricostruzione (molto sommaria come tutte, ma del resto l’autore non è uno storico) del processo di Unità d’Italia come paradigma ed esempio (sinistro) del processo di unificazione europeo. Con una sola citazione ad un paper di Alesina (nota 1.30) introduce un tema che riprenderà nel capitolo 7: l’unificazione italiana è stato un processo di colonizzazione rivolto a garantire gli interessi fondamentali del nord, condotto –malgrado una reazione che provocherà decine di migliaia di morti- con il sostegno dei baroni del sud. In altre parole, il nord determina una “colonia interna” da sfruttare demograficamente e come bacino “captiv” di sbocco delle sue merci, con l’assenso di una ristretta élite del sud che viene protetta nei confronti del suo stesso popolo. Questa brutale analisi (in sostanza il sud all’epoca dell’unità non era molto divergente, e per molti versi era più ricco, ma alcune caratteristiche lo rendevano meno adatto all’industrializzazione concentrata che prevalse nei cinquanta anni seguenti) regge in sostanza sull’argomento che il sud, perdendo l’indipendenza, non potè adattarsi e, costretto a competere in un gioco nel quale era in svantaggio, perse (da p.144).

Ora, secondo Zingales “siamo a rischio di trasformare l’intero Sud Europa in un nuovo grande mezzogiorno” (p.155).
Se “legarsi” (come fece Ulisse di fronte al rischio di passare davanti alle Sirene) è una strategia spesso utile, come dice l’autore, in questo caso rappresenta però un rischio enorme. Infatti restare legati all’albero, se la nave affonda, significa morire. Le nostre élite ci hanno sostanzialmente “legati” (Zingales non prolunga il parallelo storico sino ad accusarle di tradimento, come fa per quelle del Sud Italia), ed hanno riempito di cera le nostre orecchie (come ricorderemo Ulisse rende sordi i suoi rematori, perché continuino a mandare avanti la nave senza sentire le Sirene, lui invece vuole sentirle, ma si fa legare all’albero per non cambiare idea). Nel far questo hanno creato una rigidità che al momento dello shock asimmetrico (cioè che colpisce in modo diverso settori economici diversi ed aree diverse) si è rovesciato nel disastro che vediamo. L’analisi dell’economista emigrato in questo non è molto diversa da quelle che conosciamo, né molto originale, evidenzia che alla radice della differenza che ora ci rende impossibile competere è una perdita di competitività unitaria che rallenta più o meno quando viene introdotto l’Euro (p.85).
Su questo capitale punto, il nostro, per non dare ragione al prof. Bagnai, che cita, cerca una spiegazione che non coinvolga la moneta. La trova nella perdita del treno della ICT revolution. Citando un proprio studio (ancora un paper) interviene in questa colossale discussione (anche se cento pagine dopo ammette che la cosa non è così semplice) con una causa presunta discontinua. La struttura creditizia e industriale italiana (banche clientelari –come se le tedesche…- e piccola dimensione) avrebbe fatto sì che l’Italia non si sia adeguata altrettanto bene, o rapidamente, alla introduzione della informatizzazione, specializzazione flessibile, standardizzazione etc…
Come sia (e questa spiegazione a me pare estremamente debole), il punto è che in queste condizioni di svantaggio competitivo l’unica strada è la deflazione salariale. Malgrado i nostri salari siano già più bassi di quelli del nord devono ancora scendere.
Altrimenti bisognerebbe che la Germania accetti più inflazione (cioè alzi i salari ai suoi lavoratori, contenga i profitti, riduca in termini reali i risparmi, cioè i capitali accumulati). Il dilemma, che è al cuore del conflitto di potere che Zingales non vuole vedere, è descritto dal nostro passando per una parzialissima ricostruzione della vicenda della divisione tra Banca d’Italia e Tesoro (1981) che, avviando politiche deflattive e di contrazione salariale in Italia (per armonizzare allo SME la struttura economica italiana, ovviamente) ha provocato una drastica riduzione dell’inflazione (da 20% a 5% in pochi anni, grafico a pag.44) al prezzo (grafico a pag. 64) dell’esplosione del debito pubblico per spesa per interessi. In altre parole che non sono del nostro valoroso liberista: ha spostato quasi 10 punti di PIL dai salari e dall’economia reale (acquisto di beni e servizi), al prezzo dell’inflazione, ai capitali finanziari tramite gli interessi sul debito pagati (al sicuro dell’inflazione). Il debito è esploso dal 56% sul PIL del 1980 al 121% del 1994. Il disavanzo è arrivato al 10%.

Questi sono dilemmi che, nel contesto della piena “sovranità dei mercati” e piena dipendenza della “sovranità democratica” dei Parlamenti e dei Governi, non hanno soluzione.

Secondo l’autore la questione è invece “sottile”: “i vecchi anche di mezzi modesti, rischiano di vedere i loro risparmi espropriati dall’inflazione, mentre gli imprenditori, specialmente quelli fortemente indebitati, tendono a beneficiare dall’inflazione. I dipendenti pubblici, con salari nominali fissi, beneficiano della deflazione, mentre faticano a stare dietro all’inflazione. I lavoratori più anziani trovano più facile difendere i loro privilegi in un ambiente deflattivo, mentre arrancano in uno inflattivo. I giovani, senza diritti ma con un futuro davanti, beneficiano di un’inflazione più elevata”. Ora, buona parte di questo testo (che è l’unico in cui entra nel merito di centrali conflitti distributivi) è fuorviante: la parola “espropriare” è ingiustificata, i vecchi di mezzi modesti (si stupirà) non hanno molto da perdere, purtroppo, da un tasso di inflazione del 5-6% soprattutto perché i tassi bancari, salendo, li proteggerebbero. Altrettanto poco hanno da temere i lavoratori salariati (dato che la cessazione della “scala mobile” è parte integrante della manovra di separazione e sarebbe la prima cosa da reintrodurre, per non procedere –come fu fatto- ad un esproprio –questo sì- generalizzato). Viceversa, hanno da perdere i grandi capitali (per i quali la frazione di punto di mancato recupero inflattivo conta) e da guadagnare chi produce qualcosa di reale (perché ha un prodotto che vale e che in termini reali non si svaluta).
Altrettanto ingiustificata (ed insultante) è la parola “privilegi”, con riferimento ai diritti sindacali e dei lavoratori. Ciò che è ingiusto non è che questi ne godano, ma che i giovani ne siano privi.

La verità è che nel quadro della “gabbia” in cui si dibatte il nostro non c’è soluzione, bisogna sacrificare i produttori, i giovani e i vecchi (ma sì, anche le pensioni) all’altare della competitività con il sistema tedesco. Una guerra che non possiamo vincere.

Ma bisogna sacrificare anche la democrazia.
Infatti essa è incompatibile con la persistenza di questi vincoli che sacrificano la grande maggioranza dei cittadini. I movimenti di capitali non possono essere bloccati, anche se fuggono e ci lasciano senza risorse per aumentare la nostra efficienza (forse questa potrebbe essere una spiegazione più efficace alla perdita di competitività, purtroppo ha il grave difetto di accusare il nemico sbagliato). Per Zingales: “bloccati i movimenti di capitali, persa la speranza di investimenti esteri, si perde qualsiasi freno rispetto alle arbitrarietà e ai soprusi: nazionalizzazioni, espropriazioni, falsificazione dati, ecc”. Siamo ormai così abituati a questi discorsi che probabilmente non li ascoltiamo neppure più, ma fermiamoci un attimo perché questo è il chiavistello della gabbia:
     -   Il solo freno è la fuga dei capitali? Cioè il ricatto di andarsene se non è sufficiente la remunerazione, se il saggio di profitto è inferiore alla Polonia, se troppi diritti ai lavoratori sono difesi, se le tasse sono più alte dell’Inghilterra? E’ questo l’unico freno legittimo?
      -   In altre parole, quel che il capitale libero vede come “sopruso”, l’interesse pubblico che giustifica una nazionalizzazione, o un esproprio (che, come forse è noto, recita la dizione <per pubblica utilità>), è per questo sempre “arbitrario”?

Io sarò antiquato, ma ero rimasto al concetto che la sovranità è del popolo. E che i cittadini la esprimono attraverso leggi e procedure che liberamente si danno. Dunque che il freno alle arbitrarietà è dato dalla legge. Legge istituita da Parlamenti sovrani.

Questo è il contenuto minimo della democrazia liberale.
Dunque il freno all’arbitrarietà ed ai soprusi, di chiunque su chiunque (ed anche del capitale sul lavoro e la produzione), è da ricercare nella dinamica democratica, nell’accesso alla decisione, nella libertà che esprime il dialogo e la sfera pubblica, nella limitazione del potere del denaro o delle organizzazioni “indipendenti”, da parte della legge. Della regolazione.

Solo così la gabbia si dissolve ed i popoli tornano liberi.

Per concludere, se si può concordare con l’autore su molte cose, su altre la distanza –come si vede- è grande. La sua soluzione, alla fine, è di conservare l’Euro e l’economia di mercato completamente aperta (che significa senza alcuna protezione e libera circolazione dei capitali) ma al contempo avviare subito l’Unione Bancaria (entro dodici mesi, peccato che la Germania sia fieramente contraria); spostare quindi la parte inclusa nel 60% del Trattato di Maastricht del debito, entro una garanzia comune europea (proposta di Bruegel); introdurre un welfare europeo, almeno per quanto attiene i contributi di disoccupazione; modificare l’obiettivo del 2% di inflazione della BCE, rendendolo simmetrico.

Tutte cose utili; tutte irrealizzabili nel contesto della finanziarizzazione e del mercantilismo che il nord Europa impone a tutti noi.


Ogni assetto economico e sociale ha i suoi problemi caratteristici: questo ne ha di insolubili. Forse sarebbe il caso di prenderne atto.

5 commenti:

  1. Caro Alessandro,
    ho appena terminato il libro di Zingales e condivido la tua critica.
    A parte questo ho trovato intellettualmente scorretto che Zingales abbia identificato la critica all'euro con Grillo e il M5S i quali per dirla con un eufemismo non hanno per niente le idee chiare in proposito. Un giochetto che consente a Zingales di dare del populista a chi sostiene l'uscita dalla moneta unica, a parte lui.
    Hai scritto che cita Bagnai, "per non dargli ragione" ma io la citazione non l'ho vista e infatti mi chiedevo come si fa nel 2014 a scrivere un libro che esamina i pro e i contro della moneta unica senza citarlo.
    Per cortesia mi potresti dire dove l'ha citato? Deve essermi sfuggito.
    Grazie e complimenti per il post. Non conoscevo il tuo blog ma mi sembra molto interessante. Lo leggerò.

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  2. A pag. 85, quando dice che il rallentamento della competitività avviene in contemporanea con l'introduzione dell'euro e specifica "viene naturale attribuirne la colpa alla moneta comune" sta implicitamente citando Bagnai, che in Italia è quello che per primo e con più convinzione e determinazione ha sostenuto questa tesi. Il fatto che non lo nomini per me non è essenziale. Mi pare chiaro che stia cercando di confutare il suo argomento forse centrale. Purtroppo la sua confutazione è approssimativa, frettolosa, veramente scadente.

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  3. Di riferimenti agli argomenti di Bagnai ne ho trovato più di uno, ma il suo nome mai.
    Mi rifiuto di credere che Zingales non conosca Bagnai, ma conosca così bene i suoi argomenti.
    So che non sono di Bagnai, ma è lui il primo e uno tra i pochissimi economisti che li ha diffusi e documentati in modo organico con serietà e precisione e aggiungendoci spesso del suo.
    Quindi non l'ha citato deliberatamente e questo a ma non sembra né casuale, né onesto, né innocuo, né insignificante.

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  4. Giusto, non è accademicamente corretto, ma qui nessuno sta giocando e Zingales meno di tutti. Ciò che sta succedendo è uno scontro di potere essenziale. Uno scontro che ha le potenzialità di cambiare l'assetto del mondo. Naturalmente non parlo solo, né principalmente dell'Italia. Ma parlo di uno scontro per il cuore e la mente che a suo tempo vinsero dalle parti di Chicago.
    Ora il vento è contro di loro e lo sanno.

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  5. Non mi riferivo tanto alla scorrettezza accademica, ma a quella politica.
    Comunque spero che il vento stia davvero cambiando... al di là della retorica che tutti stanno facendo però a me non sembra.

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