Un libro appena uscito, dell’economista
Luigi Zingales, una delle superstar del sistema mediatico italiano,
costantemente intervistato, autore di libri di ispirazione liberista vagamente “di
sinistra”, non lontano dai luoghi che contano, descrive un uomo combattuto.
In “Europa
o no”, troviamo infatti la commovente battaglia interiore di un uomo
che con i suoi strumenti intellettuali e morali non riesce a decidere. E che
cerca di restare in entrambe le posizioni, malgrado ne veda l’impossibilità.
Muovendo dai suoi presupposti, che
cercheremo di individuare nel seguito, Zingales da una parte:
- Non vuole perdere la finanziarizzazione (cioè la piena
libertà di movimento dei capitali) ed il mercantilismo
(cioè l’approccio rivolto a potenziare i commerci a danno di terzi);
- E non vuole erodere il vantaggio del
capitale sul lavoro (cioè sulla produzione), determinato specificatamente dal
privilegio incommensurabile di potersi muovere liberamente, restando difeso da
specifiche istituzioni in posizione dominante (le Banche Centrali);
Dall’altra parte, ed insieme:
-
Vede che stiamo perdendo, come paese e
come area geografica “del sud”, una guerra tra capitali e stiamo
inesorabilmente diventando una colonia.
Ora procediamo nella lettura, ma a me
pare di poter dire questo: il testo si
sbatte in una gabbia, senza trovare realmente la via di uscita. Però le
sbarre sono tutte nella mente dell’autore, accorgersene mostrerebbe subito la
via.
La tesi centrale del libro è, infatti,
semplice e chiara: “l’Europa, così com’è
non solo non è sostenibile, ma danneggia particolarmente il sud del continente,
cui l’Italia appartiene” (Z, p.10). Per evitarlo sarebbero necessarie
riforme radicali e in tempi brevissimi. Riforme che altrove giudica improbabili,
per assoluta indisponibilità della Germania (cui non convengono).
E’ specificatamente “la gabbia di un
cambio fisso e di un’economia rigida [a non essere] sostenibile nel lungo
periodo. E quando qualcosa non può continuare per sempre, prima o poi … [si
rompe]” (Z., p.125). Vedremo poi che significa “economia rigida”, per il
liberista Zingales, ma intanto vediamo per
chi non è sostenibile.
Alla Germania, che sta invecchiando, ma
ha la maggior parte dei risparmi della sua borghesia e imprenditoria investiti
in prodotti finanziari, conviene la deflazione. Essa, infatti, difende i
creditori nei confronti dei debitori, o detto in modo diverso: il capitale già
accumulato verso quello in formazione. Ora, come correttamente scrive l’autore:
“la teoria economica [non è che ci voglia tanto] ci insegna che il modo
migliore per creare un vantaggio competitivo è quello di scegliere una
strategia che i nostri rivali non possono replicare” (Z, p. 132). Lo avevamo
scritto un paio di giorni fa, analizzando gli
atti della ratifica di Maastricht: i tecnici tedeschi al tavolo negoziale impostarono
un meccanismo rivolto a costringere i paesi del sud, di cui si aveva paura, a
infilarsi negli abiti tedeschi; quando si
costringe qualcun altro a giocare il proprio gioco, rinunciando al suo, si sta
progettando la vittoria “facile”.
Con le parole di Zingales: “dopo essere
stati forzati a una moneta comune [in cambio dell’unificazione], i tedeschi
hanno deciso di adottare la strategia in cui loro hanno un vantaggio comparato:
quella della deflazione. Nessun altro paese (tranne l’Austria) è riuscito a
contenere la crescita dei salari come hanno fatto loro. Se i salari crescono
meno della produttività, la pressione deflattiva è assicurata”. Così facendo si
aumentano i profitti, dunque i risparmi, e gli investimenti. Naturalmente si
tratta di “una manovra brillante, ma molto antieuropeista”.
Direi che oltre ad essere antieuropeista
è anche di classe. Zingales non
sarebbe d’accordo perché vede la società come un insieme nel quale gli
interessi sono fondamentalmente assenti. Nel senso che non sono
fondamentalmente in contraddizione reciproca. Anche se in una interessante
paginetta dispiega sui diversi gruppi i vantaggi/svantaggi dell’inflazione/deflazione,
per lui i paesi guadagnano o perdono come
un tutto unico. Questo è uno dei pilastri ideologici (una delle “sbarre”)
che impedisce lo sviluppo di un’analisi diversa. E’ del tutto evidente che la
contrazione dei salari, reale scopo dell’intero progetto della costruzione europea,
serve agli scopi del dominio del capitale finanziario ed a quelli (strettamente
intrecciati) del grande capitale investito nelle industrie da esportazione. Ma
è altrettanto evidente che questo nesso rappresenta la trappola competitiva che
distrugge i deboli (in senso relativo) sistemi economici del sud e le piccole
industrie rivolte ai mercati interni.
Ma andiamo avanti, l’unica via di uscita
che Zingales vede, è “guadagnare competitività rispetto al Nord” (p.139). Cioè l’unica via di uscita sarebbe se non
esistesse la gabbia.
Preso in questo labirinto resta solo una
possibilità: la soluzione del nostro è farne una più forte. Diventare dei
fabbri migliori dei tedeschi (pazienza che sono secoli che non ci riusciamo); purtroppo
si accorge subito che il compito è improponibile (oltre a non essere
desiderabile): “questo richiede riforme, tempo e investimenti. Se la crisi del
Sud Europa ha aumentato la pressione per le riforme, ha anche ridotto
drammaticamente il tempo a disposizione e gli incentivi a investire. Quanti
anni di disoccupazione a due cifre sono disposti a sopportare i paesi del Sud
Europa?”
Meglio: quanti anni di disoccupazione e
salari sempre minori, sono disposti a sopportare i lavoratori del Sud? Dove in
questo caso è a sud Milano? E, perché dovrebbero?
La conclusione a questo punto sarebbe
semplice e necessaria, lo stesso Zingales lo dice subito dopo: “non rimane che riconoscere le differenze
insanabili e spezzare l’area Euro.”
Ma come si fa, senza subire i danni
dello smantellamento dell’intreccio dei capitali? Questo è, per quanto leggo,
il vero problema. Che diventa insolubile se si vuole tenere ferma la sbarra di
acciaio della libertà di movimento dei capitali e dell’indipendenza (dalla
democrazia, come vedremo) delle istituzioni finanziarie. Dato che il problema è insolubile, l’autore farà marcia indietro.
Ma mentre lo fa la sua analisi è comunque
impietosa: l’Euro è stato presentato come “il sommo tentativo di salvare il
continente e preservare il mondo dal suicidio”, p.13 (lo abbiamo visto qui)
ma era in effetti una ideologia di una ristretta élite che ha cercato di
imporre con l’astuzia e la forza il suo punto di vista. Werner-Muller ne ha
parlato in modo chiaro (qui
e lo abbiamo riassunto qui),
la paura del populismo innesta una deriva oligarchica
strumentalizzata da poteri sui quali dovremo interrogarci. La storia che
racconta Zingales non è fondamentalmente diversa (p.15-21): il libero scambio
(cioè il mercantilismo) è l’ideologia
utile alle industrie dominanti verso quelle deboli, costringendole ad aprirsi
alla concorrenza occupa gli spazi ecologici di queste ultime e le costringe a diventare
colonie. Si tratta di una dinamica sulla quale la letteratura e la discussione
è aperta da secoli, come tutti i fenomeni complessi è aperta a molte
interpretazioni e non mancano gli argomenti validi anche a sostegno, tuttavia
nel nostro caso è chiaro che non è nell’interesse fondamentale del Sud essere “mezzoggiornificato”.
Una delle cose più forti del libro è, infatti, la ricostruzione (molto sommaria
come tutte, ma del resto l’autore non è uno storico) del processo di Unità d’Italia
come paradigma ed esempio (sinistro) del processo di unificazione europeo. Con
una sola citazione ad un paper di Alesina
(nota 1.30) introduce un tema che riprenderà nel capitolo 7: l’unificazione
italiana è stato un processo di colonizzazione rivolto a garantire gli
interessi fondamentali del nord, condotto –malgrado una reazione che provocherà
decine di migliaia di morti- con il sostegno dei baroni del sud. In altre
parole, il nord determina una “colonia interna” da sfruttare demograficamente e
come bacino “captiv” di sbocco delle sue merci, con l’assenso di una ristretta
élite del sud che viene protetta nei confronti del suo stesso popolo. Questa
brutale analisi (in sostanza il sud all’epoca dell’unità non era molto divergente,
e per molti versi era più ricco, ma alcune caratteristiche lo rendevano meno
adatto all’industrializzazione concentrata che prevalse nei cinquanta anni
seguenti) regge in sostanza sull’argomento che il sud, perdendo l’indipendenza,
non potè adattarsi e, costretto a competere in un gioco nel quale era in
svantaggio, perse (da p.144).
Ora, secondo Zingales “siamo a rischio
di trasformare l’intero Sud Europa in un nuovo grande mezzogiorno” (p.155).
Se “legarsi” (come fece Ulisse di fronte
al rischio di passare davanti alle Sirene) è una strategia spesso utile, come
dice l’autore, in questo caso rappresenta però un rischio enorme. Infatti
restare legati all’albero, se la nave
affonda, significa morire. Le nostre élite ci hanno sostanzialmente “legati”
(Zingales non prolunga il parallelo storico sino ad accusarle di tradimento,
come fa per quelle del Sud Italia), ed
hanno riempito di cera le nostre orecchie (come ricorderemo Ulisse rende
sordi i suoi rematori, perché continuino a mandare avanti la nave senza sentire
le Sirene, lui invece vuole sentirle, ma si fa legare all’albero per non
cambiare idea). Nel far questo hanno creato una rigidità che al momento dello
shock asimmetrico (cioè che colpisce in modo diverso settori economici diversi
ed aree diverse) si è rovesciato nel disastro che vediamo. L’analisi dell’economista
emigrato in questo non è molto diversa da quelle che conosciamo,
né molto originale, evidenzia che alla radice della differenza che ora ci rende
impossibile competere è una perdita di competitività unitaria che rallenta più o meno quando viene
introdotto l’Euro (p.85).
Su questo capitale punto, il nostro, per
non dare ragione al prof. Bagnai, che cita, cerca una spiegazione che non
coinvolga la moneta. La trova nella perdita del treno della ICT revolution.
Citando un proprio studio (ancora un paper)
interviene in questa colossale discussione (anche se cento pagine dopo ammette
che la cosa non è così semplice) con una causa presunta discontinua. La
struttura creditizia e industriale italiana (banche clientelari –come se le
tedesche…- e piccola dimensione) avrebbe fatto sì che l’Italia non si sia
adeguata altrettanto bene, o rapidamente, alla introduzione della
informatizzazione, specializzazione flessibile, standardizzazione etc…
Come sia (e questa spiegazione a me pare
estremamente debole), il punto è che in queste condizioni di svantaggio
competitivo l’unica strada è la deflazione salariale. Malgrado i nostri salari
siano già più bassi di quelli del nord devono ancora scendere.
Altrimenti bisognerebbe che la Germania
accetti più inflazione (cioè alzi i salari ai suoi lavoratori, contenga i
profitti, riduca in termini reali i risparmi, cioè i capitali accumulati). Il
dilemma, che è al cuore del conflitto di
potere che Zingales non vuole vedere, è descritto dal nostro passando per una
parzialissima ricostruzione della vicenda della divisione tra Banca d’Italia e Tesoro (1981) che, avviando politiche deflattive e di contrazione
salariale in Italia (per armonizzare allo SME la struttura economica italiana, ovviamente)
ha provocato una drastica riduzione dell’inflazione (da 20% a 5% in pochi anni,
grafico a pag.44) al prezzo (grafico a pag. 64) dell’esplosione del debito
pubblico per spesa per interessi. In altre parole che non sono del nostro
valoroso liberista: ha spostato quasi 10 punti di PIL dai salari e dall’economia
reale (acquisto di beni e servizi), al prezzo dell’inflazione, ai capitali
finanziari tramite gli interessi sul debito pagati (al sicuro dell’inflazione).
Il debito è esploso dal 56% sul PIL del 1980 al 121% del 1994. Il disavanzo è
arrivato al 10%.
Questi sono dilemmi che, nel contesto
della piena “sovranità dei mercati” e piena dipendenza della “sovranità
democratica” dei Parlamenti e dei Governi, non hanno soluzione.
Secondo l’autore la questione è invece “sottile”:
“i vecchi anche di mezzi modesti,
rischiano di vedere i loro risparmi espropriati dall’inflazione, mentre gli
imprenditori, specialmente quelli fortemente indebitati, tendono a beneficiare dall’inflazione.
I dipendenti pubblici, con salari nominali fissi, beneficiano della deflazione,
mentre faticano a stare dietro all’inflazione. I lavoratori più anziani trovano
più facile difendere i loro privilegi in un ambiente deflattivo, mentre
arrancano in uno inflattivo. I giovani, senza diritti ma con un futuro davanti,
beneficiano di un’inflazione più elevata”. Ora, buona parte di questo testo
(che è l’unico in cui entra nel merito di centrali conflitti distributivi) è
fuorviante: la parola “espropriare” è
ingiustificata, i vecchi di mezzi modesti (si stupirà) non hanno molto da
perdere, purtroppo, da un tasso di inflazione del 5-6% soprattutto perché i
tassi bancari, salendo, li proteggerebbero. Altrettanto poco hanno da temere i
lavoratori salariati (dato che la cessazione della “scala mobile” è parte
integrante della manovra di separazione e sarebbe la prima cosa da
reintrodurre, per non procedere –come fu fatto- ad un esproprio –questo sì-
generalizzato). Viceversa, hanno da perdere i grandi capitali (per i quali la
frazione di punto di mancato recupero inflattivo conta) e da guadagnare chi
produce qualcosa di reale (perché ha un prodotto che vale e che in termini
reali non si svaluta).
Altrettanto ingiustificata (ed
insultante) è la parola “privilegi”,
con riferimento ai diritti sindacali e dei lavoratori. Ciò che è ingiusto non è
che questi ne godano, ma che i giovani ne siano privi.
La verità è che nel quadro della “gabbia”
in cui si dibatte il nostro non c’è soluzione, bisogna sacrificare i produttori,
i giovani e i vecchi (ma sì, anche le pensioni) all’altare della competitività
con il sistema tedesco. Una guerra che non possiamo vincere.
Ma
bisogna sacrificare anche la democrazia.
Infatti essa è incompatibile con la
persistenza di questi vincoli che sacrificano la grande maggioranza dei
cittadini. I movimenti di capitali non possono essere bloccati, anche se
fuggono e ci lasciano senza risorse per aumentare la nostra efficienza (forse
questa potrebbe essere una spiegazione più efficace alla perdita di
competitività, purtroppo ha il grave difetto di accusare il nemico sbagliato). Per
Zingales: “bloccati i movimenti di capitali, persa la speranza di investimenti
esteri, si perde qualsiasi freno
rispetto alle arbitrarietà e ai
soprusi: nazionalizzazioni, espropriazioni, falsificazione dati, ecc”. Siamo
ormai così abituati a questi discorsi che probabilmente non li ascoltiamo
neppure più, ma fermiamoci un attimo perché questo
è il chiavistello della gabbia:
- Il solo
freno è la fuga dei capitali? Cioè il ricatto di andarsene se non è sufficiente
la remunerazione, se il saggio di profitto è inferiore alla Polonia, se troppi
diritti ai lavoratori sono difesi, se le tasse sono più alte dell’Inghilterra? E’
questo l’unico freno legittimo?
- In altre parole, quel che il capitale
libero vede come “sopruso”, l’interesse pubblico che giustifica una
nazionalizzazione, o un esproprio (che, come forse è noto, recita la dizione
<per pubblica utilità>), è per questo sempre “arbitrario”?
Io sarò antiquato, ma ero rimasto al
concetto che la sovranità è del popolo.
E che i cittadini la esprimono attraverso leggi e procedure che liberamente si danno.
Dunque che il freno alle arbitrarietà è dato dalla legge. Legge istituita da
Parlamenti sovrani.
Questo
è il contenuto minimo della democrazia liberale.
Dunque il freno all’arbitrarietà ed ai
soprusi, di chiunque su chiunque (ed
anche del capitale sul lavoro e la produzione), è da ricercare nella dinamica
democratica, nell’accesso alla decisione, nella libertà che esprime il dialogo
e la sfera pubblica, nella limitazione del potere del denaro o delle
organizzazioni “indipendenti”, da parte della legge. Della regolazione.
Solo così la gabbia si dissolve ed i
popoli tornano liberi.
Per concludere, se si può concordare con
l’autore su molte cose, su altre la distanza –come si vede- è grande. La sua
soluzione, alla fine, è di conservare l’Euro e l’economia di mercato
completamente aperta (che significa senza alcuna protezione e libera circolazione
dei capitali) ma al contempo avviare subito l’Unione Bancaria (entro dodici
mesi, peccato che la Germania sia fieramente contraria);
spostare quindi la parte inclusa nel 60% del Trattato di Maastricht del debito,
entro una garanzia comune europea (proposta di Bruegel); introdurre un welfare
europeo, almeno per quanto attiene i contributi di disoccupazione; modificare l’obiettivo
del 2% di inflazione della BCE, rendendolo simmetrico.
Tutte cose utili; tutte irrealizzabili nel contesto della finanziarizzazione e del
mercantilismo che il nord Europa impone a tutti noi.
Ogni assetto economico e sociale ha i
suoi problemi caratteristici: questo ne ha di insolubili. Forse sarebbe il caso di prenderne atto.
Caro Alessandro,
RispondiEliminaho appena terminato il libro di Zingales e condivido la tua critica.
A parte questo ho trovato intellettualmente scorretto che Zingales abbia identificato la critica all'euro con Grillo e il M5S i quali per dirla con un eufemismo non hanno per niente le idee chiare in proposito. Un giochetto che consente a Zingales di dare del populista a chi sostiene l'uscita dalla moneta unica, a parte lui.
Hai scritto che cita Bagnai, "per non dargli ragione" ma io la citazione non l'ho vista e infatti mi chiedevo come si fa nel 2014 a scrivere un libro che esamina i pro e i contro della moneta unica senza citarlo.
Per cortesia mi potresti dire dove l'ha citato? Deve essermi sfuggito.
Grazie e complimenti per il post. Non conoscevo il tuo blog ma mi sembra molto interessante. Lo leggerò.
A pag. 85, quando dice che il rallentamento della competitività avviene in contemporanea con l'introduzione dell'euro e specifica "viene naturale attribuirne la colpa alla moneta comune" sta implicitamente citando Bagnai, che in Italia è quello che per primo e con più convinzione e determinazione ha sostenuto questa tesi. Il fatto che non lo nomini per me non è essenziale. Mi pare chiaro che stia cercando di confutare il suo argomento forse centrale. Purtroppo la sua confutazione è approssimativa, frettolosa, veramente scadente.
RispondiEliminaDi riferimenti agli argomenti di Bagnai ne ho trovato più di uno, ma il suo nome mai.
RispondiEliminaMi rifiuto di credere che Zingales non conosca Bagnai, ma conosca così bene i suoi argomenti.
So che non sono di Bagnai, ma è lui il primo e uno tra i pochissimi economisti che li ha diffusi e documentati in modo organico con serietà e precisione e aggiungendoci spesso del suo.
Quindi non l'ha citato deliberatamente e questo a ma non sembra né casuale, né onesto, né innocuo, né insignificante.
Giusto, non è accademicamente corretto, ma qui nessuno sta giocando e Zingales meno di tutti. Ciò che sta succedendo è uno scontro di potere essenziale. Uno scontro che ha le potenzialità di cambiare l'assetto del mondo. Naturalmente non parlo solo, né principalmente dell'Italia. Ma parlo di uno scontro per il cuore e la mente che a suo tempo vinsero dalle parti di Chicago.
RispondiEliminaOra il vento è contro di loro e lo sanno.
Non mi riferivo tanto alla scorrettezza accademica, ma a quella politica.
RispondiEliminaComunque spero che il vento stia davvero cambiando... al di là della retorica che tutti stanno facendo però a me non sembra.