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sabato 31 maggio 2014

Il sogno europeo e i suoi molti padroni: la semi-egemonia mondiale.


Leggendo i molti dibattiti, e le discussioni pubbliche che dai primi anni novanta si impegnano a definire il “progetto europeo” si scivola sempre intorno ad un punto che, costantemente, viene evocato come ancora di fondo: l’Unione Europea può ambire a diventare protagonista in prima persona nel “grande gioco” della politica mondiale.
Dopo quasi un secolo di marginalizzazione, e almeno sessanta anni di autentica umiliazione, il continente sconfitto nel ciclo delle guerre del novecento, l'Europa ha in altre parole l’opportunità, unendo le sue forze, di raggiungere la massa necessaria per non farsi dettare da altri l’agenda e dominare il suo destino.

Il Sacro Romano Impero

Questa opportunità si è presentata, sembra di capire, improvvisa negli anni convulsi del disfacimento dell’impero sovietico, e della sua alleanza, ed è stata colta dall’unificazione tedesca. L’unificazione ha cambiato tutto: la Germania è uscita dalla tutela e dalla condizione di sospetto in cui il dopoguerra l’aveva messa, per i suoi grandi errori del novecento; lo sfondamento verso Est, immediatamente ai confini europei, del capitalismo occidentale ha aperto una competizione (tra imprese, capitali e modelli organizzativi) tra l’Europa e gli USA, per i cuori e le menti di centinaia di milioni di cittadini europei dell’Est, e naturalmente per i loro mercati. Una competizione che per la prima volta vedeva l’Europa in vantaggio a causa delle forze della geografia e della storia.
Sotto la traccia è presente lo scenario-incubo del mondo imperiale anglosassone: il saldarsi dell'eurasia in un blocco capace, per le sue potenzialità demografiche e risorse, di costringere il mondo ad organizzarsi intorno ad esso. L'eccezionalità (in primis geografica) americana, un piccolo continente relativamente omogeneo protetto da due oceani, si rivolterebbe contro di essi.

Questo grande scenario ha indotto l’accelerazione degli anni 1991-99 che, a davvero tappe forzate, ha portato alla creazione dell’Unione Europea, con il Trattato di Maastricht, poi all’introduzione dell’Euro, quindi negli anni successivi dal 2003 al 2007 al fallimento della Costituzione (e la riproposizione sotto mentite e minori spoglie del Trattato di Lisbona).

Secondo una antica programmazione, che risale sin al Trattato di Roma, questo processo di convergenza è stato condotto con i soli mezzi dell’economia, cioè sotto il segno del dominio dell’economia sulla società e sulla politica. La società e la politica (anche e soprattutto se democratica) sono state, cioè, viste con sospetto, allungando un altro strato di vincolo costituzionale per proteggersi. Nello scontro, costante in ogni politica pubblica complessa, tra diverse volontà e obiettivi compresenti ha prevalso la forza degli spiriti animali, liberati dal subitaneo allargamento ad Est che aveva segnato gli anni novanta. Ha prevalso la capacità di colonizzazione del grande capitale finanziario, di grandi banche (che in quegli anni si allargano rapidamente verso Est, per occupare lo spazio improvvisamente libero ed intermediare i colossali flussi di capitali internazionali resi necessari per la ricostruzione e la trasformazione). Noi possiamo seguire questo fenomeno guardando ad Unicredito, ma sono tutte le grandi banche europee che in quegli anni si internazionalizzano. E tutte le grandi imprese che, contemporaneamente, lo fanno. Si tratta di una nuova, impetuosa e violenta, "corsa dell'oro".

Propongo di guardare a questo fenomeno come una mutazione essenziale dei rapporti di forza entro il capitalismo europeo, in favore dei capitali mobili e delle organizzazioni internazionali. Come l’affermarsi di uno “spirito di conquista”, avventuroso; di un entusiasmo contagioso; un’euforia. Improvvisamente tutto tornava possibile.

Naturalmente spiriti diversi desiderano cose diverse, e usano linguaggi diversi. Capita che un corso di azione sia promosso da attori diversi per ragioni opposte, ma che curiosamente ognuno veda solo le proprie. Dai verbali dei summit europei, e dalla lettura dei giornali di quel periodo si potrebbero ritrovare tracce abbondanti.


Nel 1991 ad esempio, Jurgen Habermas, che è certamente un avversario dell’imperialismo implicito del grande capitale finanziario ed industriale, scriveva in “La seconda chance per l’Europa” (in Dopo l’Utopia, Marsilio 1991): “Ancora oggi osservo non senza simpatia come la storia del mondo conceda una seconda chance all’Europa Unita. Da secoli vediamo i grandi imperi sorgere e ricomparire – l’impero romano e quello germanico, i portoghesi e gli spagnoli, gli inglesi e i francesi, i russi e –sembrerebbe quasi- gli americani. Nessuno di questi imperi è comparso alla ribalta una seconda volta.
Tuttavia oggi quelle forze che Max Weber ha attribuito al razionalismo occidentale potrebbero raccogliersi ancora una volta –questa volta, spero, senza aspirazioni imperiali e senza fissazioni narcisistiche su se stessi-. Un’Europa che avesse davvero imparato dalla sua storia, potrebbe aiutare altri paesi ad uscire dal loro XIX secolo”. (p.77)

I temi sono tutti ben presenti in questo breve testo, ed è presente con chiarezza aspirazione e rischio:
-     le forze che possono “riunirsi” nell’Europa, prevalendo sulle altre aree concorrenti e dando un’altra occasione di dominare il mondo, sono le stesse che si manifestano nell’annessione dell’Est (ivi, p.43) e che hanno lasciato indietro in quella occasione la “dinamica democratica”;
-    lo spazio nel quale si apre questa opportunità di egemonia (o di dominio, secondo la dinamica che storicamente prevarrà) è quello del “declino americano”, che resta molto tematizzato in quegli anni, come in questi, con mutevoli e diverse opinioni (Paul Kennedy 1987, 2002, 2006; Zakaria 2004, 2008; Kagan "Paradiso e potere2003, Todd, "Dopo l'impero" 2002) spesso cambiate radicalmente negli stessi autori sulla base delle diverse fasi;
-     ma quale è il dominio che torna? Dal testo, e da altre tracce incluse nel testo (in particolare a pag. 27) sembra che la “seconda occasione” cui si allude è la ripresa del Sacro Romano Impero, cioè del dominio della mitteleuropa (Germania e Francia), Habermas lo evoca e lo teme al tempo;
-    in particolare teme, come dice, che la “raccolta delle forze” sia il preludio a “aspirazioni imperiali” e “fissazioni narcisistiche”;
-   al contrario, spera che l’Europa, trattenuta dalla tentazione imperiale e dall’egoismo narcisistico dal ricordo delle tragedie del novecento (e qui il ricordo va certamente alla Germania), aiuti il mondo a “liberarsi” dal colonialismo (dal XIX secolo).

Ma ancora in mezzo al guado, l’Unione Europea viene “colpita” dalla crisi del 2008 mentre l’integrazione economica, con la colossale mobilitazione di capitale finanziario ed il dominio delle forze interessate al mercantilismo (cioè ad una economia tutta volta all’occupazione “imperiale” dei mercati esteri), non ha ancora “recuperato” le istanze democratiche pur presenti. La generosa ipotesi di Habermas che si possa –nel quadro della mobilitazione delle energie aperte dalla Unificazione e dall’allargamento ad Est- far prevalere sugli istinti coloniali l’auto-organizzazione delle forme di vita dei diversi popoli europei capaci di integrarsi e reciprocamente aprirsi, tramite il faticoso lavoro di una solidarietà dal basso politicamente costruita (e supportata dalla reciproca apertura e dall’intrecciarsi delle diverse sfere pubbliche nazionali) viene a fallire. Le forze del capitale e dell’economia (che lasciate a se stesse generano spontaneamente un’unificazione per via di dominazione) prevalgono.

Il coordinamento dei piani di vita dei cittadini europei viene così ad essere determinato, nelle condizioni date dalla crisi, più dai vincoli sistemici indotti dalla dinamica credito/debito (ovvero dai flussi finanziari bisognosi di stabilità e di remunerazione) che non dalle strutture del diritto (a partire dal “vulnus” dell’usurpazione condotta dalla Commissione e dalla Troika, dei meccanismi di decisione europei) e dell’amministrazione.
Nelle condizioni di urgenza date dalla crisi la “seconda chance” che Habermas, non da solo, vedeva per l’Europa nel 1991 è diventata quindi dominio di èlite autoreferenti, impegnate a giocare il gioco di un imperialismo non esente da robuste dosi di narcisismo. La profezia si è rovesciata contro se stessa.

Si tratta, però, di uno strano imperialismo: l’Unione Europea è in corsa per perfezionare l’unificazione di 500 milioni di cittadini intorno ad un nucleo di grandi banche e grandi imprese internazionalizzate ed alcune istituzioni "fiduciarie", che sono al centro di un progetto di potenza del quale si fanno interpreti entusiaste quanto limitate élite politiche, saldamente al comando dei principali Stati Nazionali. Ci viene raccontato, in modo apparentemente convincente quanto vago, che solo un’Europa unita, guidata in effetti dalla Germania (ma come “primus inter paris”), possa competere con successo sul nuovo ed aggressivo scenario mondiale che vede la potenza americana sfidata da paesi emergenti colossali come la Cina, l’India e la stessa Russia. E che la competizione imponga una maggiore efficienza del sistema economico, cioè delle imprese competitive che vanno aiutate (in guisa di campioni ad un torneo medioevale) a raggiungere con le loro merci e servizi i mercati esteri, per dominarli. Inoltre che entro lo spazio europeo sia necessario abbattere qualsiasi barriera e protezione per garantire che la lotta forgi sempre il più forte ed il più efficiente. Il cittadino (tedesco, francese, forse persino italiano) dovrebbe quindi essere fiero di partecipare a questo grande processo e di essere parte del continente che guiderà (magari, nelle versioni più modeste, in partership paritaria con l’alleato americano) il mondo nel nuovo millennio. La "fissazione narcisistica" pienamente sviluppata.


Il sogno di questa semi-egemonia (purtroppo per lei priva delle armi) è per molti al fondo quel che rende necessario avere una Moneta Unica (anche se è un vestito stretto per alcuni). Cioè: un unico ed enorme mercato aperto, un’unica area finanziaria senza alcuna limitazione nei movimenti di capitale (né all’interno né all’esterno), una competizione totale tra i sistemi paese. Ma è anche quel che rende necessario per i lavoratori di essere disciplinati e modesti, di accontentarsi e di competere con quelli cinesi ed indiani, di accettare meno tutele, e consentire a ridurre il tenore di vita.

D’altra parte, ed in opposizione, si dice che il sogno di questa semi-egemonia può diventare la condizione che apre alla possibilità di riprendere il progetto dell’illuminismo (come vorrebbero Habermas e Beck), e, pur senza la copertura di una filosofia della storia o della natura umana che lo renda necessario; di passare "sul piano offensivo" ad una scala maggiore, trovando la forza e l'autorità per ricondurre a razionalità politica e sociale proprio quelle forze che sono state scatenate dal crollo delle barriere. In qualche modo domesticarle. In questa accezione, diametralmente opposta, il superamento delle barriere nazionali è solo il passo necessario per creare arene sovranazionali nelle quali portare il confronto attraverso la dinamica democratica che solo l'Europa ha l'autorità morale di imporre.


L’Europa è lacerata da questa doppia (?) visione. 

2 commenti:

  1. Un gioco troppo spregiudicato, la competizione viene ancora invocata, nonostante siano anni che ormai si dimostra creatrice indefessa di macerie. Forse siamo già oltre il tempo massimo e la seconda, velleitaria ed utopistica ipotesi pare impraticabile, siamo nel 2014. Un passo indietro potrebbe rappresentare un compromesso accettabile, in grado almeno di conservare quanto di buono fatto finora e ripartire mettendo davanti a tutto la libertà, la democrazia, l'uomo.

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  2. Che sarebbe poi l'ipotesi di Streeck. Avanzata in forte dialettica con Habermas, ancora nell'ultimo libro che tra poco faccio oggetto di un post il filosofo gli dedica un capitolo. Non è facile prendere posizione, Habermas ha una fiducia (non ingenua, al più disperata) nella capacità di razionalizzazione ed emancipazione incorporata nelle strutture giuridiche e nello stesso linguaggio che Streeck non ha. Rischia con ciò di scivolare nel luogo che più attentamente sorveglia, una filosofia della natura umana di ispirazione metafisica. Io credo che la eviti, e che dunque tutto possa andare male anche facendo salva la valutazione del potenziale di razionalizzazione incluso nel linguaggio, nelle strutture giuridiche e nelle organizzazioni, soprattutto nel breve periodo.
    Ma certo tutto può andare male anche rifugiandosi dietro le paratie dello Stato Nazionale (oltre alla estrema difficoltà di governare la fase di smontaggio e le tensioni di riaggiustamento dei sistemi economici e sociali interconnessi). Inoltre può andare male la dinamica politica (soprattutto se non si governa quella economica).

    Siamo, insomma, in una situazione tragica: nella quale non ci sono strade "buone" e senza rischi.

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