In questi giorni
è in corso uno scontro cruciale tra i
rappresentanti dei Governi europei e il Presidio dell’Europarlamento, che ha
tempestivamente ricordato come il risultato del voto vada considerato in modo
vincolante. I capi di governo usufruiscono, infatti, di una legittimazione
democratica indiretta che non li autorizza a superare un’indicazione appena
espressa dalle urne, direttamente, per capilista candidati alla guida della Commissione.
Come ricordiamo, infatti, in quest’anno è entrata in vigore la parte del Trattato di Lisbona che prevede, per la
prima volta, il voto di fiducia del Parlamento
Europeo al Presidente della
Commissione Europea (che è quel che è più vicino ad un Governo che c’è in
Europa). Inoltre il Trattato dice che
i capi di governo devono “tenere conto” delle elezioni nella loro scelta; a
questo fine, non senza una forte opposizione della stessa Merkel che
giustamente temeva limitazioni al proprio potere di fatto (guadagnato nella
crisi, “approfittandone” come ricorda Habermas), era passata la linea che le
coalizioni potevano indicare agli elettori un “capolista” candidato al ruolo. E
i principali partiti europei, in un soprassalto di dignità sia verso gli esecutivi
sia e soprattutto verso la democrazia, si erano impegnati a riconoscere al
candidato più votato il diritto ad essere il primo a ricevere l’incarico di
formare il Governo.
Questa
addirittura scontata procedura è messa duramente in questione da leader come
Cameron e Orban che, per ragioni diametralmente opposte, non desiderano il
rafforzamento della coesione europea ed il cammino verso la Federazione (qualunque
forma essa possa avere). Cameron in recentissime dichiarazioni ha fatto
presente che, nel quadro del montante euroscetticismo del suo paese,
l’indicazione di Juncker e la sua elezione da parte del Parlamento Europeo
porterebbe alla sicura sconfitta degli europeisti nel futuro Referendum e
dunque all’uscita dell’Inghilterra dalla UE. Ha quindi minacciato di porre il
veto alla scelta.
Di fronte a
tanta determinazione la Merkel ,
e gli altri leader (tra cui il Presidente Renzi, che lo definisce “uno dei
nomi”) sono sembrati esitare e barcollare davanti all’opinione pubblica. In
seguito la Cancelliera Tedesca ,
anche nella sua veste di principale leader del PPE che esprime, in effetti, il
candidato, sembra aver garantito l’appoggio, ma il danno è fatto.
La lettura
che dà Habermas di questa complessa vicenda è tranchant: i leader sono
impegnati dalla solita “routine del poker del potere quotidiano” e quindi
restano incapaci di porsi con occhi nuovi davanti ad una situazione “che esige
nuove risposte”. Si tratta della reazione di un “potere autoconferito” che si
difende alzando delle barriere (Habermas usa l’immagine delle “paratie stagne”
chiuse in una nave in difficoltà) per chiudere fuori gli effetti di una rabbia
popolare che è giudicata irrazionale.
Invece la
“volontà popolare polarizzata” (cioè l’espressione di una volontà popolare
diretta che si indirizza su uno o più scelte proposte) è effetto di una
positiva “escalation di democrazia”. E ciò anche, e soprattutto, per la
presenza di una reale opposizione di
sistema nel Parlamento, espressione di un’opposizione d’idee e di volontà
(anche se non ancora sociale), che dinamizza
la democrazia. La realizza, per la prima volta, entro un’arena, un “foro”
nel quale possono esprimersi differenze politiche reali. E una reale, effettiva
divergenza di politiche e di uomini.
Habermas trova sia
“un bene che gli avversari dell’Europa
abbiano trovato un Foro dove possono dire in faccia alle Elites politiche che è
necessario alla fine decidersi a coinvolgere i popoli nel processo di
unificazione. Il populismo di destra impone un cambiamento di parametri:
dall’elitarismo in uso finora ad un sistema di partecipazione dei cittadini”.
Queste parole, dal più famoso teorico della democrazia deliberativa, sono
pienamente sottoscrivibili.
Ciò che è in campo in questo passaggio
cruciale (che si prolungherà fino a luglio almeno) è l’anima del progetto
europeo. Se verrà proseguita la strada fino ad ora percorsa della ricerca
di faticosi compromessi di potere tra rappresentanti delle élites nazionali,
nell’interesse quasi esclusivo delle forze organizzate che riescono ad accedere
ed a rappresentarsi ai tavoli (anche come consulenti), il “Progetto Europeo”
finirà per naufragare nel disincanto, o a coltivare profondi processi di
distacco e rancore. Invito a fare mente locale alla situazione del più grande
paese federale del mondo, gli Stati Uniti, dove ad oltre due secoli dall’avvio
del processo (cementato da almeno quattro grandi guerre, di cui due interne e
civili) esistono non irrilevanti forze che serbano ostilità verso uno Stato
dell’Unione, percepito come distante e imperiale (alcune piccole enclave
sociali arrivando sino al terrorismo).
L’alternativa è
di superare le autodifese e le insicurezze per aprirsi ad un rischioso processo
di apprendimento reciproco, nel segno della democrazia e della discussione
pubblica. Certo bisogna accettare il cambiamento politico e rinunciare a comode
posizioni di rendita politica che hanno fatto la fortuna elettorale di alcuni
(in particolare penso alla Cancelliera Merkel, che provenendo dall’Est ha
sfruttato con notevole istinto politico e cinismo, i sentimenti profondi del
germanismo umiliato ed offeso e l’angoscia dei marginalizzati dalla economia
trionfante dell’esportazione, costruendo un racconto vincente che parla di
virtù e forza, messa a repentaglio dalle “cicale” del sud che intendono
accedere alla ricchezza tedesca). Inoltre bisogna proporre i propri argomenti
nella sfera pubblica, davanti a tutti,
e non più nel chiuso delle stanze di trattativa. Dunque occorre articolare un
discorso che possa essere percepito come valido da tutti gli ascoltatori, non
solo da chi vota per la CDU
in Germania.
Queste sono, secondo
me, le ragioni per cui “Angela Merkel, la
patrona dei paesi donatori, vuole richiudere al più presto la finestra di
un possibile cambiamento che si è aperta con l’aria fresca delle elezioni
europee”.
Dietro
l’apparenza di una questione di procedura da poco, è dunque la traccia di uno scontro decisivo. La Germania può continuare
nella sua “posizione semiegemonica” (come dice correttamente Habermas) solo al
prezzo di ottenere il sempre maggiore distacco delle opinioni pubbliche e dei
paesi “perdenti”.
Alla fine, se
questa tragedia si compisse, dovremmo concludere che essa ha compiuto per tre
volte lo stesso errore.
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