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venerdì 30 maggio 2014

Messaggi in bottiglia: Jurgen Habermas, interventi del 2006 e 2007 sull’Europa

  
Nel 2006, a Vienna, Jurgen Habermas pronuncia un accorato discorso d’occasione (in Italia pubblicato da Laterza nel 2011) per l’assegnazione del Premio Bruno Kreisky, un socialdemocratico austriaco, “Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa. In questa occasione, abbastanza presto prende, però, l’occasione per parlare dell’Europa, che lo “preoccupa più di ogni altra cosa”. Candidandosi senz’altro al Premio Profeta 2006, Habermas dice che “se di qui alle prossime elezioni europee del 2009 non si riesce ad indire un referendum che coinvolga tutta l’Europa sulla questione polarizzante della finalitè, del perché volere l’integrazione dell’Europa, il futuro dell’Unione Europea nel senso dell’ortodossia neoliberale è spacciato”. Infatti, restando a guardare mentre ogni potere di regolazione politica viene “distorto a favore di una sempre più esteta zona di libero mercato”, ci si troverà di fronte al pericolo di “ricadere in una fase d’integrazione anteriore”.


Nel mezzo della paralisi che fece seguito al fallimento dei referendum in Francia (2005) e nei Paesi Bassi (2005) sulla Costituzione Europea proposta nel 2003 ed abbandonata nel 2007 (nel 2007, al vertice di Bruxelles si decise di soprassedere e di promuovere un più ristretto Trattato, poi chiamato Trattato di Lisbona, approvato il 13 dicembre 2007), il filosofo tedesco riafferma tre questioni centrali:
1-      a suo modo di vedere il problema centrale della perdita dell’”arma fiscale” (anche qui il termine che sarà usato nel 98 da Thirlwall) da parte degli Stati nazionali nelle condizioni della globalizzazione, e quindi l’impossibilità sopravvenuta di soddisfare nella misura necessaria le rivendicazioni politico-sociali e la domanda di beni collettivi e pubblici servizi, è superabile solo tramite una “offensiva”, cioè: riacquistandola sul piano sovranazionale. Si parla di convergenti aliquote fiscali (in modo da neutralizzare almeno in Europa il dumping fiscale, per cui basta spostare un’impresa in Irlanda per essere in un’area di libero scambio senza essere tassati), di armonizzazione di medio termine delle politiche economiche (in modo da avere lo stesso sussidio di disoccupazione e sistema di incentivi). L’alternativa è di “abbandonare in mani estranee il destino del modello di società Europeo”.
2-      il secondo problema è di formare un’alternativa al dominio di Washington nelle istituzioni mondiali, acquistando una capacità d’azione indipendente ed un ruolo politico che sia affiancato (e non subordinato) a quello degli Stati Uniti, della Cina, dell’India e del Giappone.
3-      infine bisogna arrivare a disporre di proprie forze armate, “per scioglierci dalla dipendenza dal partner più forte”.

Questi tre problemi richiedono modifiche di grande profondità: un Presidente eletto in via diretta e una base finanziaria (tasse europee), oltre che un Ministro degli Esteri.

La proposta è dunque di lasciar decidere ai cittadini, tramite un referendum, ed agli Stati tramite un voto, se questa direzione ambiziosa è desiderabile. L’idea di Habermas è che si debba prendere anche congedo dal modello del “convoglio navale” (nel quale tutti vanno insieme alla velocità del più lento), per procedere solo dove c’è il doppio consenso (ovvero solo con chi lo ha).



L’anno successivo (in un discorso dal nome La politica Europea in un vicolo cieco”), a novembre 2007, mentre si discute dell’approvazione del Trattato di Lisbona, Habermas sottolinea, al Willy Brand Haus di Berlino, l’approccio “funzionalista” che prevale nel testo che dimentica di coinvolgere i cittadini (e questo aggiramento dei risultati dei referendum ancora si paga, ad esempio in Francia), restando alla fine sul terreno nel quale il progetto europeo è rimasti sin dall’inizio: “sui semplici binari dell’incremento produttivo di un’area economica comune”. Il problema è che le energie liberate da questo processo hanno fornito la spinta solo per un processo interamente guidato “dall’alto”; una semplice “intesa tra le élite politiche degli Stati membri”.
In conseguenza, “l’intesa politica si è attuata sopra le teste delle popolazioni come un progetto elitario, e a tutt’oggi funziona con quei deficit di democrazia che si spiegano attraverso il carattere essenzialmente intergovernativo e burocratico della legislazione”.
Il Trattato di Lisbona, sotto questo profilo, è per Habermas già nel modo in cui è stato condotto, un arretramento decisivo. Si è trattato di un colpo di mano, condotto nel chiuso delle stanze, in modo “mai così apertamente elitario”. Anche l’allargamento dei poteri del Parlamento Europeo (che si manifesta a partire da questo anno, ad esempio con la fiducia al Presidente della Commissione, sino ad ora nominato solo dai Governi) è del tutto insufficiente se manca della infrastruttura essenziale data dalla creazione di una sfera pubblica europea, data dall’aprirsi reciproco di quelle nazionali. Ma tale evento può darsi solo se ai cittadini viene francamente data la parola e se si discute dei temi.
Senza il pungolo di una cosciente opinione pubblica, insieme nazionale ed europea, il conflitto sotterraneo tra Paesi “integrazionisti” e “euroscettici” non troverà soluzione. I profondi contrasti di interesse che sottendono a questi scontri non riusciranno a definirsi in una sintesi.
Anche la falsa distinzione tra questioni <tecniche> (come la libera concorrenza e la stabilità monetaria), da lasciare agli esperti, e questioni <politiche> (da sottoporre a legittimazione stringente e quindi, di fatto, rinviate) è fortemente attaccata –e con buona ragione- da Habermas. Tutte le decisioni, a partire dalla ripartizione tra questioni europee e nazionali, sono politiche.

Anche il trilemma aperto (e assolutamente non risolto) dall’espansione della UE verso sud e verso Est, con il suo scambio tra stabilità ed apertura di nuovi mercati, tra la necessità di aumentare le risorse da mettere a disposizione di una redistribuzione, in assenza della quale le divergenze economiche possono solo crescere, oppure di abbassare il livello di integrazione (lasciando che le economie locali conservino aree di protezione), o, infine, di procedere a più velocità, può solo trovare una direzione in un ampliamento del consenso.


Tuttavia, alla fine, la ragione che prevale su tutte nel modo di ragionare di Habermas mi sembra la necessità storica di accogliere la sfida rappresentata dalla gigantesca scala nella quale la questione tecnologica, quella climatica, quella della deregulation con l’immenso potere finanziario, quella fiscale (con il dumping praticato da tutte le più grandi e dinamiche società private del mondo, alcune delle quali hanno il bilancio di stati), ma anche la questione energetica e di sicurezza, l’ineguaglianza, pongono al nostro tempo. Non esiste infatti un quadro istituzionale adatto a trattare questi problemi in modo cooperativo, lungo la strada di accordi internazionali tra Stati nazionali.
Habermas si dichiara per questa ragione convinto che solo il decisivo peso politico (ovvero il “soft power”) dell’Unione Europea può dispiegare il “potere di trattativa” e, insieme, il “potenziale di minaccia” indispensabile per innovare il quadro mondiale. Per avviare cioè il processo (necessariamente lungo ed accidentato) di creazione di una “società internazionale politicamente strutturata”. Si tratta, beninteso, di raggiungere lo stato di una strutturazione “politica” (cioè in grado di elaborare temi e definire decisioni su linee di compromesso utile) non un “governo mondiale” (né possibile, né desiderabile).

L’idea è di sfuggire sia all’anarchia ed alla mancanza di ordine (foriera di scontri e distruzione di risorse), sia alla soluzione <neoconservatore> del “gendarme mondiale” affidato agli USA, in favore di una dinamica politica sostenuta dalla forza di “un numero limitato di global players” con un’autonoma politica estera. L’Occidente si presenterebbe quindi a questo appuntamento in assetto <bipolare>, con gli USA e la UE affiancate, ma reciprocamente indipendenti.

Non si può dire che il programma non sia ambizioso: una carrozza che parte per un lungo e coraggioso viaggio, diretta secondo alcuni ad una terra nella quale i principali problemi della miseria e dello sfruttamento degli uomini sugli uomini non si producano, nella quale le parole prevalgano sulle armi, nella quale la natura sia amica e l’uomo custode responsabile.
Questa bella carrozza porta molti passeggeri, ed altri salgono per via. Non tutti pagano lo stesso biglietto e c’è chi si adonta di questo. Alcuni passeggeri, però, hanno un’idea diversa su quale debba essere la meta (vogliono probabilmente solo raggiungere per primi le mitiche miniere d’oro e diventarne proprietari, mettendo gli altri passeggeri a lavorarci); altri si accontenterebbero di molto meno (magari di un pezzetto di terra lungo la strada); qualcuno potrebbe anche parteggiare per gli indiani (che pensano, magari a ragione, di essere i veri proprietari di terra e miniera).
Spesso essa si ferma per discutere del percorso, si fanno con l’occasione piccoli baratti e ci si ingegna a migliorare il proprio status. L’obbligo di stare tutti insieme, pressati nel viaggio, genera tensioni e gelosie.
La situazione, a ben vedere, non è più sostenibile; varrebbe la pena di capire se il mezzo è quello giusto, se la meta è quella di tutti (anche dei “gambler” saliti lungo la strada, e di quelli presenti dall’inizio), se la strada è quella più sicura.


Direi che ha ragione Habermas: abbiamo bisogno del coraggio di discuterne, e di votare con un referendum europeo sulla finalitè. Di cosa abbiamo paura?

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