Nel 2006, a Vienna, Jurgen
Habermas pronuncia un accorato discorso d’occasione (in Italia pubblicato da
Laterza nel 2011) per l’assegnazione del Premio Bruno Kreisky, un socialdemocratico
austriaco, “Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa”. In questa
occasione, abbastanza presto prende, però, l’occasione per parlare dell’Europa,
che lo “preoccupa più di ogni altra cosa”. Candidandosi senz’altro al Premio Profeta 2006, Habermas dice che
“se di qui alle prossime elezioni europee del 2009 non si riesce ad indire un
referendum che coinvolga tutta l’Europa sulla questione polarizzante della finalitè, del perché volere
l’integrazione dell’Europa, il futuro dell’Unione Europea nel senso
dell’ortodossia neoliberale è spacciato”. Infatti, restando a guardare mentre
ogni potere di regolazione politica viene “distorto a favore di una sempre più
esteta zona di libero mercato”, ci si troverà di fronte al pericolo di
“ricadere in una fase d’integrazione anteriore”.
Nel mezzo della
paralisi che fece seguito al fallimento dei referendum in Francia (2005) e nei
Paesi Bassi (2005) sulla Costituzione Europea proposta nel 2003 ed abbandonata
nel 2007 (nel 2007, al vertice di Bruxelles si decise di soprassedere e di
promuovere un più ristretto Trattato, poi chiamato Trattato di
Lisbona, approvato il 13 dicembre 2007), il filosofo tedesco riafferma
tre questioni centrali:
1-
a suo modo di vedere il problema centrale della perdita
dell’”arma fiscale” (anche qui il
termine che sarà usato nel 98 da Thirlwall)
da parte degli Stati nazionali nelle condizioni della globalizzazione, e quindi
l’impossibilità sopravvenuta di soddisfare nella
misura necessaria le rivendicazioni politico-sociali e la domanda di beni
collettivi e pubblici servizi, è superabile solo tramite una “offensiva”, cioè:
riacquistandola sul piano sovranazionale.
Si parla di convergenti aliquote fiscali (in modo da neutralizzare almeno in
Europa il dumping fiscale, per cui basta spostare un’impresa in Irlanda per
essere in un’area di libero scambio senza essere tassati), di armonizzazione di
medio termine delle politiche economiche (in modo da avere lo stesso sussidio
di disoccupazione e sistema di incentivi). L’alternativa è di “abbandonare in
mani estranee il destino del modello di società Europeo”.
2-
il secondo problema è di formare un’alternativa al dominio di Washington nelle istituzioni
mondiali, acquistando una capacità d’azione indipendente ed un ruolo politico
che sia affiancato (e non subordinato) a quello degli Stati Uniti, della Cina,
dell’India e del Giappone.
3-
infine bisogna arrivare
a disporre di proprie forze armate, “per scioglierci dalla dipendenza dal
partner più forte”.
Questi tre
problemi richiedono modifiche di grande profondità: un Presidente eletto in via diretta e una base finanziaria (tasse
europee), oltre che un Ministro degli Esteri.
La proposta è dunque
di lasciar decidere ai cittadini, tramite un referendum, ed agli Stati tramite
un voto, se questa direzione ambiziosa è desiderabile. L’idea di Habermas è che
si debba prendere anche congedo dal modello del “convoglio navale” (nel quale
tutti vanno insieme alla velocità del più lento), per procedere solo dove c’è
il doppio consenso (ovvero solo con chi lo ha).
L’anno
successivo (in un discorso dal nome “La politica Europea in un vicolo cieco”),
a novembre 2007, mentre si discute dell’approvazione del Trattato di Lisbona, Habermas sottolinea, al Willy Brand Haus di
Berlino, l’approccio “funzionalista” che prevale nel testo che dimentica di
coinvolgere i cittadini (e questo aggiramento dei risultati dei referendum
ancora si paga, ad esempio in
Francia), restando alla fine sul terreno nel quale il progetto europeo è
rimasti sin dall’inizio: “sui semplici binari dell’incremento produttivo di
un’area economica comune”. Il problema è che le energie liberate da questo
processo hanno fornito la spinta solo per un processo interamente guidato
“dall’alto”; una semplice “intesa tra le élite politiche degli Stati membri”.
In conseguenza,
“l’intesa politica si è attuata sopra le teste delle popolazioni come un
progetto elitario, e a tutt’oggi funziona con quei deficit di democrazia che si
spiegano attraverso il carattere essenzialmente intergovernativo e burocratico
della legislazione”.
Il Trattato di Lisbona, sotto questo
profilo, è per Habermas già nel modo in cui è stato condotto, un arretramento
decisivo. Si è trattato di un colpo di mano, condotto nel chiuso delle stanze,
in modo “mai così apertamente elitario”. Anche l’allargamento dei poteri del
Parlamento Europeo (che si manifesta a partire da questo anno, ad esempio con
la fiducia al Presidente della Commissione, sino ad ora nominato solo dai
Governi) è del tutto insufficiente se manca della infrastruttura essenziale
data dalla creazione di una sfera pubblica europea, data dall’aprirsi reciproco
di quelle nazionali. Ma tale evento può darsi solo se ai cittadini viene
francamente data la parola e se si discute dei temi.
Senza il pungolo
di una cosciente opinione pubblica, insieme nazionale ed europea, il conflitto
sotterraneo tra Paesi “integrazionisti” e “euroscettici” non troverà soluzione.
I profondi contrasti di interesse che sottendono a questi scontri non
riusciranno a definirsi in una sintesi.
Anche la falsa
distinzione tra questioni <tecniche> (come la libera concorrenza e la
stabilità monetaria), da lasciare agli esperti, e questioni <politiche>
(da sottoporre a legittimazione stringente e quindi, di fatto, rinviate) è
fortemente attaccata –e con buona ragione- da Habermas. Tutte le decisioni, a
partire dalla ripartizione tra questioni europee e nazionali, sono politiche.
Anche il trilemma aperto (e assolutamente non
risolto) dall’espansione della UE verso sud e verso Est, con il suo scambio tra
stabilità ed apertura di nuovi mercati, tra la necessità di aumentare le
risorse da mettere a disposizione di una redistribuzione, in assenza della
quale le divergenze economiche possono solo crescere, oppure di abbassare il
livello di integrazione (lasciando che le economie locali conservino aree di
protezione), o, infine, di procedere a più velocità, può solo trovare una
direzione in un ampliamento del consenso.
Tuttavia, alla
fine, la ragione che prevale su tutte nel modo di ragionare di Habermas mi
sembra la necessità storica di accogliere la sfida rappresentata dalla
gigantesca scala nella quale la questione tecnologica, quella climatica, quella
della deregulation con l’immenso potere finanziario, quella fiscale (con il
dumping praticato da tutte le più grandi e dinamiche società private del mondo,
alcune delle quali hanno il bilancio di stati), ma anche la questione
energetica e di sicurezza, l’ineguaglianza, pongono
al nostro tempo. Non esiste infatti un quadro istituzionale adatto a trattare
questi problemi in modo cooperativo, lungo la strada di accordi internazionali
tra Stati nazionali.
Habermas si
dichiara per questa ragione convinto che solo il decisivo peso politico (ovvero
il “soft power”) dell’Unione Europea può dispiegare il “potere di trattativa”
e, insieme, il “potenziale di minaccia” indispensabile per innovare il quadro
mondiale. Per avviare cioè il processo (necessariamente lungo ed accidentato)
di creazione di una “società internazionale politicamente strutturata”. Si
tratta, beninteso, di raggiungere lo stato di una strutturazione “politica”
(cioè in grado di elaborare temi e definire decisioni su linee di compromesso
utile) non un “governo mondiale” (né possibile, né desiderabile).
L’idea è di
sfuggire sia all’anarchia ed alla mancanza di ordine (foriera di scontri e
distruzione di risorse), sia alla soluzione <neoconservatore> del
“gendarme mondiale” affidato agli USA, in favore di una dinamica politica
sostenuta dalla forza di “un numero limitato di global players” con un’autonoma
politica estera. L’Occidente si presenterebbe quindi a questo appuntamento in
assetto <bipolare>, con gli USA e la UE affiancate, ma reciprocamente indipendenti.
Non si può dire
che il programma non sia ambizioso: una carrozza che parte per un lungo e
coraggioso viaggio, diretta secondo alcuni ad una terra nella quale i
principali problemi della miseria e dello sfruttamento degli uomini sugli
uomini non si producano, nella quale le parole prevalgano sulle armi, nella
quale la natura sia amica e l’uomo custode responsabile.
Questa bella
carrozza porta molti passeggeri, ed altri salgono per via. Non tutti pagano lo
stesso biglietto e c’è chi si adonta di questo. Alcuni passeggeri, però, hanno
un’idea diversa su quale debba essere la meta (vogliono probabilmente solo
raggiungere per primi le mitiche miniere d’oro e diventarne proprietari,
mettendo gli altri passeggeri a lavorarci); altri si accontenterebbero di molto
meno (magari di un pezzetto di terra lungo la strada); qualcuno potrebbe anche
parteggiare per gli indiani (che pensano, magari a ragione, di essere i veri
proprietari di terra e miniera).
Spesso essa si
ferma per discutere del percorso, si fanno con l’occasione piccoli baratti e ci
si ingegna a migliorare il proprio status. L’obbligo di stare tutti insieme,
pressati nel viaggio, genera tensioni e gelosie.
La situazione, a
ben vedere, non è più sostenibile; varrebbe la pena di capire se il mezzo è
quello giusto, se la meta è quella di tutti (anche dei “gambler” saliti lungo
la strada, e di quelli presenti dall’inizio), se la strada è quella più sicura.
Direi che ha
ragione Habermas: abbiamo bisogno del coraggio di discuterne, e di votare con
un referendum europeo sulla finalitè.
Di cosa abbiamo paura?
Nessun commento:
Posta un commento