Sull’ultimo
numero di Micromega, è stato
pubblicato un breve intervento di Jurgen Habermas sul problema del processo
democratico nel contesto della creazione di organismi sopra statali dei quali
l’Unione Europea è oggettivamente un esempio mondiale praticamente unico. A
questa scala infatti un processo di formazione di un organismo politico
(Habermas usa giustamente il termine più prudente “formazione soprannazionale”)
sovrapposto a forme statuali consolidate non si è mai dato. Persino l’esempio
che viene immediatamente in mente, gli Stati Uniti d’America, è un caso meno
critico (per l’omogeneità linguistica e la relativa giovinezza) che, pure, ha
richiesto secoli ed una sanguinosissima guerra civile per affermarsi.
Allo stato
l’Unione Europea, dice Habermas, è una comunità federale, non uno Stato
federale. Una comunità che non ha correttamente né il monopolio della violenza
legittima (polizia ed esercito) né l’ultima istanza, ma dispone dell’applicazione
prioritaria del diritto federale (cioè la prevalenza del diritto europeo su
quello nazionale nelle materie di competenza, tramite l’istituto del
recepimento, quando dovuto). Tuttavia, anche in questo complesso processo di
formazione della norma, l’applicazione resta al livello nazionale.
In questo
assetto intermedio la domanda che Habermas fa, in questo 2014, assomiglia
maledettamente a quella che Dahl
faceva nel 1993: “è in grado un’unione di
questo genere di soddisfare quei criteri di legittimità democratica ch’erano
propri degli Stati nazionali?”
Si tratta della
domanda cruciale per lo sviluppo di un mondo in cui sempre più gli Stati, a
causa dell’interdipendenza dominata che si è venuta a creare, “vedono oggi
compromessa la loro sostanza democratica”. La dinamica conflittuale che
Habermas vede nel nostro tempo si genera, infatti, tra una <società
mondiale> crescentemente integrata sistemicamente (dalla logica del denaro e
da correlati input di potere implicitamente densi di capacità strutturante) e
quello che chiama in modo evocativo <un mondo di stati> frammentato. Mi
pare che in questo modo di porre la cosa riverberi il vecchio schema teorico
del <mondo della vita> socialmente integrato, e dei sistemi (denaro-potere)
potenzialmente conflittuali. Tra i due, come noto, a partire da Fatti
e norme trova posto sistematico il medium del diritto.
Come sia per il
vecchio filosofo francofortese gli Stati nazionali sono ancora gli unici
collettivi in grado sia di agire in modo democratico (cioè formando la volontà
in tale modo) sia di modificare le condizioni di esistenza, senza subirle
passivamente. Essi sono, infatti, integrati proprio dalla volontà e dalla
condivisione di coscienza dei cittadini. Tuttavia questa unità (che certo è in
questa descrizione un costrutto teorico da non prendere alla lettera) è
“profondamente irretita” dalle connessioni sistemiche in grado ai attraversare
ogni confine nazionale. Di trapassarlo, si potrebbe dire.
Ma cosa crea
questa interdipendenza indifferente ai confini (ed alla formazione di diritto
alla scala nazionale)? Per Habermas, è ovvio, si tratta dei mercati globali che,
grazie alla densità e velocità della “comunicazione digitale” (intendendo,
immagino, con questa abbreviata formula la standardizzazione delle
informazioni, la loro intercambiabilità e razionalizzazione, l’assoluta
velocità e l’automatismo che le contraddistingue, i codici indifferenti alle
caratteristiche locali), “imbrigliano” gli attori collettivi nazionali. Credo
che questa diagnosi sia la cerniera centrale del ragionamento, ovvero della
scelta, che il sociologo e filosofo tedesco compie: se l’interdipendenza capace
di trapassare i confini statuali rendendoli impotenti è l’effetto di una
tecnologia (ovvero della “seconda natura” umana), allora è un destino
irreversibile. Al quale vale solo adattarsi nel miglior modo possibile e non
opporsi.
Ora il punto è
proprio questo, nel quadro di un processo di adattamento: i danni collaterali
di questa integrazione sistemica indifferente alla volontà e coscienza dei
cittadini fanno nascere un nuovo “fabbisogno-di-governo” che vede però gli
Stati nazionali spiazzati ed inadeguati. Tanto più per quanto sono piccoli. Habermas,
sulla base di questa diagnosi, determina alla fine una sola soluzione possibile
(del resto ampiamente condivisa): il
raggio d’azione nazionale può essere recuperato solo sul piano soprannazionale.
Tuttavia nella pratica corrente le forme più operative di tale piano sono forme
pattizie sottratte al controllo democratico; dunque la soluzione contiene una
nuova versione del problema.
Mentre Dahl, di
fronte all’identico dilemma, nel passaggio cruciale dei primi anni novanta (poi
vedremo come reagiva lo stesso Habermas allo stesso passaggio, guardandolo
dalla Germania anziché dagli USA, e da una diversa posizione politica), non
vedeva soluzioni (se non nella divisione delle competenze), Habermas punta più
ambiziosamente alla creazione di comunità soprannazionali in grado di essere
democratiche senza essere uno Stato
gigante. Una comunità di regolazione
in grado, tra le altre cose, di domesticare finalmente il settore finanziario e
bancario, e di fare ciò senza rinunciare
alle conquiste democratiche ed all’integrazione garantita storicamente dallo
Stato nazionale.
Il dilemma
teorico che Dahl non riusciva a sciogliere per Habermas si affronta lasciando
che i popoli europei restino giuridicamente equiparati tra di loro in quanto popoli (cioè con i loro Stati)
ma accedano ad un processo costituzionale costituente insieme ai cittadini europei. Si avrebbero, in altre parole, due
soggetti costituenti radicati in due prospettive d’azione degli stessi
individui. Io sono e resto cittadino italiano, radicato nelle mie tradizioni e
culture anche giuridiche e politiche, mentre sono contemporaneamente cittadino
europeo che partecipa alla formazione della volontà politica europea. Come
spesso capita con la lettura di Habermas, conviene prendere un poco di tempo
per cogliere meglio il punto.
Quel che è
successo invece, nell’Unione Europea è che gli esecutivi si sono
“auto-autorizzati” trattando i cittadini come “bambini sotto tutela” (anzi,
facendoli trattare come tali dai governi nazionali). E’ preclusa, in questo
modo, l’unica strada praticabile, che è quella di decidere insieme le linee federali di una comune politica fiscale, economica
e sociale che riduca gli squilibri strutturali in via di accelerazione. Ma i
“paesi donatori” (cioè quelli che raccontano ai loro cittadini che il saldo
complessivo delle risorse sarà negativo) non hanno il coraggio politico di
promuovere un “agire solidale” (in
questo termine, come vedremo, è un altro nodo teorico analizzato dal filosofo
tedesco).
In questo modo
si scaricano problemi irrisolvibili su Stati che ormai non sono più
<sovrani> e nei quali, di fatto, gli esecutivi (nella doppia mossa di
decidere a Bruxelles ed eseguire in patria) sono diventati molto più forti, nei
confronti dei loro Parlamenti e dei cittadini. Quel che succede è quindi una doppia perdita per la democrazia
nazionale: i governi –nell’Eurogruppo- si sono auto-autorizzati a gestire la
crisi sotto la regia della Germania, e nel farlo hanno ampliato enormemente la
loro sfera di azione in una alleanza e cogestione con il Consiglio Europeo, la Commissione Europea
e la BCE. Chi ne
fa le spese sono i rispettivi Parlamenti, il Parlamento Europeo e la dinamica
politica locale. Altrove lo stesso Habermas sottolinea che in questo modo l’autoprogrammazione
degli esecutivi, depotenziando gli obblighi di giustificazione e
razionalizzazione depositati nelle sfere pubbliche politiche nazionali
(imbrigliate dal <non ci sono alternative>), li rende facili bersagli di
forze esterne. L’autoprogrammazione diventa facilmente etero programmazione da
parte delle forze di mercato (esse davvero autonome).
A questa
situazione, come prevedibile, il grande filosofo francofortese reagisce
rifiutando l’abbassamento degli standard democratici (o la loro ritirata nel
livello territoriale locale, come sembra dire a tratti Dahl) per “ribadire un
sostanzioso e tradizionale concetto di democrazia”. Propone cioè di ripartire
dal concetto di autodeterminazione come unica possibilità di fondare una
legittimazione delle decisioni che autorizzino l’esercizio del potere. I
destinatari delle leggi devono sempre poter presumere che queste siano state
generate con procedura democratica, cioè da se medesimi tramite
l’autorizzazione ad esercitare potere legittimo. Questa legittimità ha due versi: include tutti i cittadini
nella dinamica di formazione politica della volontà, e si esprime con modalità
che Habermas chiama “pubblico-deliberativa”; scaturente dalla formazione
dell’opinione civica e dalle forme di consultazione parlamentare.
Il caso
americano è diverso ma ha elementi di somiglianza strutturale: dal 1789 si
costituisce come federazione di Stati che gradualmente nell’ottocento sviluppò
un processo di formazione di uno Stato Federale (lo Stato dell’Unione).
Il problema è
come conservare il carattere democratico di un’alleanza di stati a loro volta
già costituiti democraticamente (cioè autodeterminati dai loro cittadini). Ciò
che deve succedere è che gli stessi cittadini, partendo dalle loro sovranità
nazionali devono in qualche modo “legarle” tra di loro, determinando una
dialettica tra due uguaglianze: l’uguaglianza-degli-Stati e
l’Uguaglianza-dei-cittadini.
La proposta di
Habermas è in fondo molto semplice: farlo attraverso un sistema bicamerale. Nella
prima camera sarebbero rappresentati i cittadini direttamente europei (la
seconda sovranità) e nella seconda, invece, gli Stati federati (la prima
sovranità individuale che si esercita, quindi, per via indiretta) che hanno
peso eguale (cioè uno stato un voto).
Ma i cittadini europei non vogliono questo.
Mentre i cittadini americani del secolo XVIII e XIX erano debolmente
socializzati nei loro Stati di recente immigrazione e formazione e hanno finito
per accettare il processo (anche se al prezzo di piegare le resistenze del sud),
i cittadini tedeschi, italiani, francesi o spagnoli (e via dicendo) sono
fortemente integrati nei loro stati. E difettano di fiducia reciproca.
Ma qui Habermas
“piazza” la sua seconda distinzione chiave: la solidarietà che necessita non è
quella ascrittiva delle comunità di nascita e prepolitiche (una solidarietà,
potremmo dire, di natura comunitaria), ma ha natura “giuridicamente
costituita”. La stessa cosa è successa a ben vedere negli Stati risorgimentali
europei nei quali a partire da preesistenti legami dinastici, confessionali,
forme di lealtà a corto raggio, ma storicamente sedimentate, si sono sviluppate
(o sono state intenzionalmente create) coscienze nazionali tramite scuola
comune, servizio di leva, ricostruzioni storiografiche, media. La mobilitazione
politica ha, insomma, questo carattere “artificiale” e giuridico. Similmente,
ma certo con maggiore difficoltà per la profondità delle fratture, per Habermas
quel che necessita al momento storico che viviamo è una sfera pubblica europea
che si affianchi a quelle nazionali. Anzi, che derivi da queste che si
<aprono> le une alle altre.
In fondo è quel
che molti nuovi media (ma anche quelli tradizionali) continuamente fanno, nel
raccontare e tradurre i problemi delle singole nazioni, ascoltando i dibattiti
interni e trasponendoli nelle sfere politiche nazionali. Ciò che fa un sito
come Voci
dall’Estero, ad esempio.
La differenza
tra una soluzione di ritirata nello stato nazione, immaginato come luogo
omogeneo etno-nazionale (come vorrebbe una propaganda tipica della destra
politica e sociale), e questa proposta
di integrazione a due livelli di tipo “astratto” (cioè giuridicamente mediato e
costruttivamente prodotto) è che il livello di rappresentanza degli Stati (la
camera dei popoli) non deve essere né sovra-ordinata, né sotto-ordinata, alla
rappresentanza dei cittadini (alla camera eletta in via diretta). Questa è
quella che Habermas chiama una “sovranità
rialzata-di-un-piano” che fonda una nuova comunità soprannazionale capace
di incorporare (tramite i popoli-di-stato) le conquiste costituzionali delle
rivoluzioni passate, consentendogli di
sopravvivere integralmente.
Per attuare
questo programma il Parlamento Europeo deve avere il potere d’iniziativa
legislativa (ora lo ha solo la
Commissione ), il Consiglio d’Europa deve essere depotenziato
e riportato entro il Consiglio dei Ministri, la Commissione deve
essere responsabile verso il Parlamento e verso il Consiglio.
Generosamente e
in modo ottimista l’anziano intellettuale legge insomma nella tensione dolorosa
del momento il possibile parto di questa creatura capace di salvare le
tradizioni di libertà e solidarietà incluse nelle nostre costituzioni che
vengono dalle lotte del novecento, senza perdere l’integrazione e l’efficienza
determinata dalla nuova economia rapida ed interconnessa. Una “creatura” nella
quale l’autochiarificazione degli obiettivi e delle posizioni negoziali, e di
principio, dei due soggetti
costituzionali che si contrappongono (i cittadini dei singoli Stati, e quelli
dell’Unione), potrebbe definire un accomodamento sulla strada, già molto
avanzata, della Federazione.
A questa ampia
posizione, con la sua proposta di “solidarietà politica” e la doppia auto-programmazione
e dunque sovranità, mi pare di poter osservare quanto segue:
-
la ricerca di una via di uscita dal depotenziamento
democratico, che un teorico liberale come Dahl dieci anni fa vedeva
fondamentalmente inevitabile al salire della scala oltre il livello nazionale
(per un effetto di distanza ed astrazione), tenendo fermo il principio di
autodeterminazione democratico, ma accettando come un fatto la permeabilità dei
confini nazionali da parte dei “mercati”, nasce
da questa accettazione;
-
la soluzione del rintanarsi entro i confini del vicino
e dell’omogeneo è giustamente letto da Habermas sotto il rischio del
ripiegamento egoista, ma non è l’unico
approccio possibile, sono possibili numerose strade intermedie e
soprattutto conta chi e quanti le
percorrono;
-
la globalizzazione potrebbe, in altre parole, essere
andata troppo avanti e lungi dall’essere “destino” potrebbe rivelarsi, per la
seconda volta nella storia, “episodio”;
-
anche in questo diverso caso, sia chiaro credo che una
ben calibrata Unione, depurata di ogni sogno
di dominio interno ed esterno sarebbe
utile alla pace ed alla prosperità, ma anche allo sviluppo umano e sociale
ed alla scoperta reciproca, dell’Europa;
-
gioverebbe, però, allo scopo di restare vigili e
sensibili ai rischi dei processi di unificazione (anche dei più generosi) una
maggiore attenzione alla guerra civile americana, nella quale la grande cultura
e costruzione sociale della aristocrazia del sud (che aveva dato all’America
illuminista del settecento la sua classe dirigente) si scontrò con il nord
industrialista. Uno scontro prefigurato nella crisi del 1820, risolta ma
foriera al sensibile orecchio dell’anziano Thomas Jefferson di sinistri <allarmi
di incendi nella notte>, favorito e costruito dalla diversa reazione all’embargo
del 1807 ed alla guerra con l’Inghilterra del 1812-15. Mentre il nord s’industrializza
per far fronte alla cessazione dei flussi dall’Inghilterra, e successivamente
protegge con dazi pesanti la giovane industria, il sud con tutto il capitale
immobilizzato in terre e schiavi, non lo segue. Nel quadro di una unione
monetaria e politica, lo scontro tra due economie a diversa produttività,
terminò (dopo il rigetto del compromesso proposto nel 1850 da Calhoun di
trasformare l’Unione in una associazione di due distinte Unioni legate da un
compromesso che lasciasse salvi <diritti> ed autonomie) nella guerra. Fu
questa a cementare un’unica nazione.
Gioverebbe più
attenzione al potere (ma una delle cose che si amano di più del pensatore
francofortese è il suo disperato e generoso ottimismo).
bello, grazie, le mie faticose traduzioni trovano attenti e intelligenti lettori. rifletterò sui suoi commenti.
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