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mercoledì 28 maggio 2014

Jurgen Habermas “Per una democrazia transnazionale”


Sull’ultimo numero di Micromega, è stato pubblicato un breve intervento di Jurgen Habermas sul problema del processo democratico nel contesto della creazione di organismi sopra statali dei quali l’Unione Europea è oggettivamente un esempio mondiale praticamente unico. A questa scala infatti un processo di formazione di un organismo politico (Habermas usa giustamente il termine più prudente “formazione soprannazionale”) sovrapposto a forme statuali consolidate non si è mai dato. Persino l’esempio che viene immediatamente in mente, gli Stati Uniti d’America, è un caso meno critico (per l’omogeneità linguistica e la relativa giovinezza) che, pure, ha richiesto secoli ed una sanguinosissima guerra civile per affermarsi.
Allo stato l’Unione Europea, dice Habermas, è una comunità federale, non uno Stato federale. Una comunità che non ha correttamente né il monopolio della violenza legittima (polizia ed esercito) né l’ultima istanza, ma dispone dell’applicazione prioritaria del diritto federale (cioè la prevalenza del diritto europeo su quello nazionale nelle materie di competenza, tramite l’istituto del recepimento, quando dovuto). Tuttavia, anche in questo complesso processo di formazione della norma, l’applicazione resta al livello nazionale.



In questo assetto intermedio la domanda che Habermas fa, in questo 2014, assomiglia maledettamente a quella che Dahl faceva nel 1993: “è in grado un’unione di questo genere di soddisfare quei criteri di legittimità democratica ch’erano propri degli Stati nazionali?”

Si tratta della domanda cruciale per lo sviluppo di un mondo in cui sempre più gli Stati, a causa dell’interdipendenza dominata che si è venuta a creare, “vedono oggi compromessa la loro sostanza democratica”. La dinamica conflittuale che Habermas vede nel nostro tempo si genera, infatti, tra una <società mondiale> crescentemente integrata sistemicamente (dalla logica del denaro e da correlati input di potere implicitamente densi di capacità strutturante) e quello che chiama in modo evocativo <un mondo di stati> frammentato. Mi pare che in questo modo di porre la cosa riverberi il vecchio schema teorico del <mondo della vita> socialmente integrato, e dei sistemi (denaro-potere) potenzialmente conflittuali. Tra i due, come noto, a partire da Fatti e norme trova posto sistematico il medium del diritto.
Come sia per il vecchio filosofo francofortese gli Stati nazionali sono ancora gli unici collettivi in grado sia di agire in modo democratico (cioè formando la volontà in tale modo) sia di modificare le condizioni di esistenza, senza subirle passivamente. Essi sono, infatti, integrati proprio dalla volontà e dalla condivisione di coscienza dei cittadini. Tuttavia questa unità (che certo è in questa descrizione un costrutto teorico da non prendere alla lettera) è “profondamente irretita” dalle connessioni sistemiche in grado ai attraversare ogni confine nazionale. Di trapassarlo, si potrebbe dire.
Ma cosa crea questa interdipendenza indifferente ai confini (ed alla formazione di diritto alla scala nazionale)? Per Habermas, è ovvio, si tratta dei mercati globali che, grazie alla densità e velocità della “comunicazione digitale” (intendendo, immagino, con questa abbreviata formula la standardizzazione delle informazioni, la loro intercambiabilità e razionalizzazione, l’assoluta velocità e l’automatismo che le contraddistingue, i codici indifferenti alle caratteristiche locali), “imbrigliano” gli attori collettivi nazionali. Credo che questa diagnosi sia la cerniera centrale del ragionamento, ovvero della scelta, che il sociologo e filosofo tedesco compie: se l’interdipendenza capace di trapassare i confini statuali rendendoli impotenti è l’effetto di una tecnologia (ovvero della “seconda natura” umana), allora è un destino irreversibile. Al quale vale solo adattarsi nel miglior modo possibile e non opporsi.

Ora il punto è proprio questo, nel quadro di un processo di adattamento: i danni collaterali di questa integrazione sistemica indifferente alla volontà e coscienza dei cittadini fanno nascere un nuovo “fabbisogno-di-governo” che vede però gli Stati nazionali spiazzati ed inadeguati. Tanto più per quanto sono piccoli. Habermas, sulla base di questa diagnosi, determina alla fine una sola soluzione possibile (del resto ampiamente condivisa): il raggio d’azione nazionale può essere recuperato solo sul piano soprannazionale. Tuttavia nella pratica corrente le forme più operative di tale piano sono forme pattizie sottratte al controllo democratico; dunque la soluzione contiene una nuova versione del problema.
Mentre Dahl, di fronte all’identico dilemma, nel passaggio cruciale dei primi anni novanta (poi vedremo come reagiva lo stesso Habermas allo stesso passaggio, guardandolo dalla Germania anziché dagli USA, e da una diversa posizione politica), non vedeva soluzioni (se non nella divisione delle competenze), Habermas punta più ambiziosamente alla creazione di comunità soprannazionali in grado di essere democratiche senza essere uno Stato gigante. Una comunità di regolazione in grado, tra le altre cose, di domesticare finalmente il settore finanziario e bancario, e di fare ciò senza rinunciare alle conquiste democratiche ed all’integrazione garantita storicamente dallo Stato nazionale.

Il dilemma teorico che Dahl non riusciva a sciogliere per Habermas si affronta lasciando che i popoli europei restino giuridicamente equiparati tra di loro in quanto popoli (cioè con i loro Stati) ma accedano ad un processo costituzionale costituente insieme ai cittadini europei. Si avrebbero, in altre parole, due soggetti costituenti radicati in due prospettive d’azione degli stessi individui. Io sono e resto cittadino italiano, radicato nelle mie tradizioni e culture anche giuridiche e politiche, mentre sono contemporaneamente cittadino europeo che partecipa alla formazione della volontà politica europea. Come spesso capita con la lettura di Habermas, conviene prendere un poco di tempo per cogliere meglio il punto.

Quel che è successo invece, nell’Unione Europea è che gli esecutivi si sono “auto-autorizzati” trattando i cittadini come “bambini sotto tutela” (anzi, facendoli trattare come tali dai governi nazionali). E’ preclusa, in questo modo, l’unica strada praticabile, che è quella di decidere insieme le linee federali di una comune politica fiscale, economica e sociale che riduca gli squilibri strutturali in via di accelerazione. Ma i “paesi donatori” (cioè quelli che raccontano ai loro cittadini che il saldo complessivo delle risorse sarà negativo) non hanno il coraggio politico di promuovere un “agire solidale” (in questo termine, come vedremo, è un altro nodo teorico analizzato dal filosofo tedesco).
In questo modo si scaricano problemi irrisolvibili su Stati che ormai non sono più <sovrani> e nei quali, di fatto, gli esecutivi (nella doppia mossa di decidere a Bruxelles ed eseguire in patria) sono diventati molto più forti, nei confronti dei loro Parlamenti e dei cittadini. Quel che succede è quindi una doppia perdita per la democrazia nazionale: i governi –nell’Eurogruppo- si sono auto-autorizzati a gestire la crisi sotto la regia della Germania, e nel farlo hanno ampliato enormemente la loro sfera di azione in una alleanza e cogestione con il Consiglio Europeo, la Commissione Europea e la BCE. Chi ne fa le spese sono i rispettivi Parlamenti, il Parlamento Europeo e la dinamica politica locale. Altrove lo stesso Habermas sottolinea che in questo modo l’autoprogrammazione degli esecutivi, depotenziando gli obblighi di giustificazione e razionalizzazione depositati nelle sfere pubbliche politiche nazionali (imbrigliate dal <non ci sono alternative>), li rende facili bersagli di forze esterne. L’autoprogrammazione diventa facilmente etero programmazione da parte delle forze di mercato (esse davvero autonome).

A questa situazione, come prevedibile, il grande filosofo francofortese reagisce rifiutando l’abbassamento degli standard democratici (o la loro ritirata nel livello territoriale locale, come sembra dire a tratti Dahl) per “ribadire un sostanzioso e tradizionale concetto di democrazia”. Propone cioè di ripartire dal concetto di autodeterminazione come unica possibilità di fondare una legittimazione delle decisioni che autorizzino l’esercizio del potere. I destinatari delle leggi devono sempre poter presumere che queste siano state generate con procedura democratica, cioè da se medesimi tramite l’autorizzazione ad esercitare potere legittimo. Questa legittimità ha due versi: include tutti i cittadini nella dinamica di formazione politica della volontà, e si esprime con modalità che Habermas chiama “pubblico-deliberativa”; scaturente dalla formazione dell’opinione civica e dalle forme di consultazione parlamentare.
Il caso americano è diverso ma ha elementi di somiglianza strutturale: dal 1789 si costituisce come federazione di Stati che gradualmente nell’ottocento sviluppò un processo di formazione di uno Stato Federale (lo Stato dell’Unione).
Il problema è come conservare il carattere democratico di un’alleanza di stati a loro volta già costituiti democraticamente (cioè autodeterminati dai loro cittadini). Ciò che deve succedere è che gli stessi cittadini, partendo dalle loro sovranità nazionali devono in qualche modo “legarle” tra di loro, determinando una dialettica tra due uguaglianze: l’uguaglianza-degli-Stati e l’Uguaglianza-dei-cittadini.
La proposta di Habermas è in fondo molto semplice: farlo attraverso un sistema bicamerale. Nella prima camera sarebbero rappresentati i cittadini direttamente europei (la seconda sovranità) e nella seconda, invece, gli Stati federati (la prima sovranità individuale che si esercita, quindi, per via indiretta) che hanno peso eguale (cioè uno stato un voto).

Ma i cittadini europei non vogliono questo. Mentre i cittadini americani del secolo XVIII e XIX erano debolmente socializzati nei loro Stati di recente immigrazione e formazione e hanno finito per accettare il processo (anche se al prezzo di piegare le resistenze del sud), i cittadini tedeschi, italiani, francesi o spagnoli (e via dicendo) sono fortemente integrati nei loro stati. E difettano di fiducia reciproca.
Ma qui Habermas “piazza” la sua seconda distinzione chiave: la solidarietà che necessita non è quella ascrittiva delle comunità di nascita e prepolitiche (una solidarietà, potremmo dire, di natura comunitaria), ma ha natura “giuridicamente costituita”. La stessa cosa è successa a ben vedere negli Stati risorgimentali europei nei quali a partire da preesistenti legami dinastici, confessionali, forme di lealtà a corto raggio, ma storicamente sedimentate, si sono sviluppate (o sono state intenzionalmente create) coscienze nazionali tramite scuola comune, servizio di leva, ricostruzioni storiografiche, media. La mobilitazione politica ha, insomma, questo carattere “artificiale” e giuridico. Similmente, ma certo con maggiore difficoltà per la profondità delle fratture, per Habermas quel che necessita al momento storico che viviamo è una sfera pubblica europea che si affianchi a quelle nazionali. Anzi, che derivi da queste che si <aprono> le une alle altre.
In fondo è quel che molti nuovi media (ma anche quelli tradizionali) continuamente fanno, nel raccontare e tradurre i problemi delle singole nazioni, ascoltando i dibattiti interni e trasponendoli nelle sfere politiche nazionali. Ciò che fa un sito come Voci dall’Estero, ad esempio.

La differenza tra una soluzione di ritirata nello stato nazione, immaginato come luogo omogeneo etno-nazionale (come vorrebbe una propaganda tipica della destra politica e sociale), e questa  proposta di integrazione a due livelli di tipo “astratto” (cioè giuridicamente mediato e costruttivamente prodotto) è che il livello di rappresentanza degli Stati (la camera dei popoli) non deve essere né sovra-ordinata, né sotto-ordinata, alla rappresentanza dei cittadini (alla camera eletta in via diretta). Questa è quella che Habermas chiama una “sovranità rialzata-di-un-piano” che fonda una nuova comunità soprannazionale capace di incorporare (tramite i popoli-di-stato) le conquiste costituzionali delle rivoluzioni passate, consentendogli di sopravvivere integralmente.
Per attuare questo programma il Parlamento Europeo deve avere il potere d’iniziativa legislativa (ora lo ha solo la Commissione), il Consiglio d’Europa deve essere depotenziato e riportato entro il Consiglio dei Ministri, la Commissione deve essere responsabile verso il Parlamento e verso il Consiglio.

Generosamente e in modo ottimista l’anziano intellettuale legge insomma nella tensione dolorosa del momento il possibile parto di questa creatura capace di salvare le tradizioni di libertà e solidarietà incluse nelle nostre costituzioni che vengono dalle lotte del novecento, senza perdere l’integrazione e l’efficienza determinata dalla nuova economia rapida ed interconnessa. Una “creatura” nella quale l’autochiarificazione degli obiettivi e delle posizioni negoziali, e di principio, dei due soggetti costituzionali che si contrappongono (i cittadini dei singoli Stati, e quelli dell’Unione), potrebbe definire un accomodamento sulla strada, già molto avanzata, della Federazione.

A questa ampia posizione, con la sua proposta di “solidarietà politica” e la doppia auto-programmazione e dunque sovranità, mi pare di poter osservare quanto segue:
-          la ricerca di una via di uscita dal depotenziamento democratico, che un teorico liberale come Dahl dieci anni fa vedeva fondamentalmente inevitabile al salire della scala oltre il livello nazionale (per un effetto di distanza ed astrazione), tenendo fermo il principio di autodeterminazione democratico, ma accettando come un fatto la permeabilità dei confini nazionali da parte dei “mercati”, nasce da questa accettazione;
-          la soluzione del rintanarsi entro i confini del vicino e dell’omogeneo è giustamente letto da Habermas sotto il rischio del ripiegamento egoista, ma non è l’unico approccio possibile, sono possibili numerose strade intermedie e soprattutto conta chi e quanti le percorrono;
-          la globalizzazione potrebbe, in altre parole, essere andata troppo avanti e lungi dall’essere “destino” potrebbe rivelarsi, per la seconda volta nella storia, “episodio”;
-          anche in questo diverso caso, sia chiaro credo che una ben calibrata Unione, depurata di ogni sogno di dominio interno ed esterno sarebbe utile alla pace ed alla prosperità, ma anche allo sviluppo umano e sociale ed alla scoperta reciproca, dell’Europa;
-          gioverebbe, però, allo scopo di restare vigili e sensibili ai rischi dei processi di unificazione (anche dei più generosi) una maggiore attenzione alla guerra civile americana, nella quale la grande cultura e costruzione sociale della aristocrazia del sud (che aveva dato all’America illuminista del settecento la sua classe dirigente) si scontrò con il nord industrialista. Uno scontro prefigurato nella crisi del 1820, risolta ma foriera al sensibile orecchio dell’anziano Thomas Jefferson di sinistri <allarmi di incendi nella notte>, favorito e costruito dalla diversa reazione all’embargo del 1807 ed alla guerra con l’Inghilterra del 1812-15. Mentre il nord s’industrializza per far fronte alla cessazione dei flussi dall’Inghilterra, e successivamente protegge con dazi pesanti la giovane industria, il sud con tutto il capitale immobilizzato in terre e schiavi, non lo segue. Nel quadro di una unione monetaria e politica, lo scontro tra due economie a diversa produttività, terminò (dopo il rigetto del compromesso proposto nel 1850 da Calhoun di trasformare l’Unione in una associazione di due distinte Unioni legate da un compromesso che lasciasse salvi <diritti> ed autonomie) nella guerra. Fu questa a cementare un’unica nazione.


Gioverebbe più attenzione al potere (ma una delle cose che si amano di più del pensatore francofortese è il suo disperato e generoso ottimismo).

1 commento:

  1. bello, grazie, le mie faticose traduzioni trovano attenti e intelligenti lettori. rifletterò sui suoi commenti.

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