Ancora su Micromega, un altro articolo reca la firma di Luciano Gallino, che
ricostruisce in modo molto aggressivo la storia degli ultimi trenta anni,
caratterizzati dalla fase liberale del “progetto europeo”, come esito di un’offensiva
articolata volta ad eliminare lo Stato Sociale o a ridurlo fortemente, tramite
le cosiddette <riforme strutturali>.
Lo Stato Sociale è quell’ampio insieme
di politiche ed istituzioni, incardinate in rapporti di forza e relazioni
sociali storicamente sviluppati nella prima parte del secolo scorso (e
culminati nell’assetto che presero negli anni settanta inoltrati), rivolte nel
loro insieme a garantire la protezione dell’individuo dagli accidenti della
vita (malattia, incidenti, disoccupazione involontaria), dalle condizioni di
svantaggio insuperabili (vecchiaia) o fortemente inabilitanti (ignoranza e
povertà), sostenendole collettivamente.
Secondo l’utile elenco di Gallino a
questa forma di assicurazione sociale collettiva vengono opposte svariate
obiezioni:
-
Le risorse impiegate per la protezione
sono sottratte, tramite le tasse, alle imprese private ed ai cittadini
produttivi e dunque rallentano lo sviluppo economico;
-
Comunque l’erogazione di prestazioni
assistenziali ed assicurative meglio sarebbe servita dal settore privato che da
quello pubblico;
-
I sistemi pubblici di protezione esplicano
un logica paternalista, autoritaria e inibente la spinta a migliorarsi ed a
reagire alle difficoltà naturali della vita;
-
I costi complessivi sono comunque ormai
insostenibili, a causa dell’invecchiamento della popolazione, all’aumento delle
spese mediche per la stessa ragione e per l’evoluzione tecnologica del settore,
-
Molte delle protezioni, direttamente o
indirettamente connesse, si sono mutate nel tempo i privilegi di cui godono
alcuni “insider” a danno di molti “outsider”.
Ognuna di queste obiezioni ha una sua
legittimità, e può essere sostenuta ad un certo grado o livello. Ma nell’insieme,
se vengono usate per ottenere una condizione umana e sociale di isolamento e
debolezza dell’individuo nei confronti delle forze della natura e della
società, esplicano una intenzionalità politica di chiara e tradizionale
provenienza. Si tratta della costante lotta delle élite economiche e politiche
per tenere sotto controllo le istanze di emancipazione, riduzione delle
ineguaglianze e promozione sociale (ed individuale) portate avanti dalla parte
svantaggiata della popolazione.
Per Gallino nessuna (anzi “quasi nessuna”)
delle obiezioni regge ad una verifica empirica. In effetti si tratta per lo più
di estrapolazioni e generalizzazioni di casi limite (poi molto pubblicizzati)
ai quali possono essere opposti facilmente controesempi. Sulla sanità, ad
esempio, non è difficile valorizzare il caso americano in cui una sanità
privata costa molto più ed eroga prestazioni inferiori alla generalità degli
utenti (ma altissime ai pochi che pagano direttamente); anche sulle pensioni un’attenta
lettura dei dati non supporta le frettolose ricostruzioni giornalistiche; si
potrebbe aggiungere che la spesa di chiunque (anche dello Stato) è comunque il
reddito di qualcun altro, e dunque gli effetti della ridislocazione della spesa
sono meno pronunciati di quanto sembri a prima vista (naturalmente un eccesso
di dislocazione in settori a bassa produttività produce degli effetti); circa
la logica paternalista, pur avendo in alcuni casi un qualche fondamento, l’obiezione
trascura che è comunque meglio avere un
padre che essere orfano
(soprattutto se povero).
A parere di Gallino, alla fine, bisogna
riconoscere che “l’Unione Europea e i suoi trattati sono stati elaborati
precisamente allo scopo di demolire lo Stato Sociale in Europa”. Cioè la svolta
che portò allo scioglimento della Comunità
Economica Europea, nata dal Trattato
di Roma, e la sua trasformazione, tramite il Trattato di Maastricht del 1993, nell’Unione Europea, è stata ispirata da questo progetto “neoliberale”: far scomparire da tutti gli stati membri il
sistema sociale esistente, superando quindi il “modello Europa” nato dal
dopoguerra. A dire il vero Gallino riconosce tale tendenza (alla totale
liberalizzazione) sin dagli anni cinquanta, tramite l’enfasi prevalentemente
attribuita ai movimenti di merci, uomini, capitali ed all’interdipendenza
economica.
Indubbiamente, come ricorda Gallino, l’impegno
a promuovere la circolazione delle merci, persone, servizi e capitali è
presente in molti articoli del Trattato
di Roma (1957), e la cosa si lega all’assetto generale del progetto europeo
di cui abbiamo anche parlato qui.
L’interdipendenza economica era sin dall’inizio vista dai promotori del
progetto (USA in primis, ma anche Gran Bretagna e Francia) come strumento per
superare la tentazione semi-egemone degli imperi centrali, che dal 1870 sfidava
l’equilibrio delle forze mondiale (o l’egemonia anglosassone).
Ma, questa è la mia opinione, questa
dimensione resta all’inizio comunque bilanciata dalla necessità degli Stati Nazionali
di garantire la pace sociale e l’equilibrio interno, e ciò sino agli anni
settanta (gli anni sessanta e settanta sono anni di grandi lotte sociali e di
grande espansione dello Stato Sociale); questo equilibrio viene però rotto dall’accelerazione
che prende l’interdipendenza monetaria ed economica (con corredo di vincoli
alla libertà di azione nazionale) a partire dalla vicenda dello SME (1978, cui
le sinistre si
oppongono non a caso) e dall’Atto Unico
Europeo del 1986 che completa la liberalizzazione.
Poi viene il Trattato di Maastricht (1992-3) e il Trattato di Lisbona (2007). In questi atti (perfezionati, e
significativamente esasperati, nel Trattato
sull’Unione Europea e il Trattato sul
Funzionamento del 2008) sono “vietate tutte le restrizioni ai movimenti di
capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi” (art. 63),
mentre lo Stato Sociale non è mai citato e la <piena occupazione> solo
una volta, come esito di una economia competitiva (quindi è un auspicio, non un
obiettivo).
E’ interessante, e lo condivido, la
diagnosi che di questo assetto dà Gallino: “nella sostanza il Trattato UE si
configura primariamente come lo statuto di una grande potenza economica e
commerciale”. Questa “grande potenza” si autorappresenta infatti come autonoma
e competitiva soprattutto a partire dagli anni novanta, nei quali mi pare si
possa intravedere un mutamento di orizzonte determinato dall’improvviso crollo
dell’impero sovietico e dall’enorme vuoto che si apre al confine europeo. Nella
continuità di una confederazione di Stati Nazionali nata dall’ipotesi che i
legami dell’economia salvino la pace e contribuiscano a controllare i rivali,
limitandoli e cooptandoli (dove l’ambiguità, componente essenziale di ogni
politica pubblica e di ogni coalizione di forze, è su chi siano i rivali,
dandosi sia all’esterno sia all’interno degli Stati), ad un certo punto, nel
1989-92 avviene una torsione essenziale.
La polarità passa dalla Francia e dall’Inghilterra alla Germania unificata, e l’obiettivo
diventa competere con il mondo, cioè
a ben vedere con gli USA.
A questo irrealistico obiettivo (in
assenza di reale autonomia politica e militare, di “hard power”) sono
sottomesse tutte le forze e gli equilibri sociali.
Per la verità si tratta di un’accelerazione
e riclassificazione di un movimento molto più lungo che Gallino riconduce ad
una volontà europea che affonda nei primi anni ottanta; un movimento nei quali
il contributo alla creazione della cosiddetta “globalizzazione finanziaria”
delle élite e dei governi europei è decisiva. La svolta dei socialisti francesi
(di Mitterrand e Delors) è del 1983-4, la legge della Thatcher che liberalizza
le banche d’affari è del 1986. Gradualmente diventa chiaro a tutti (ad alcuni
lo era da subito) che se il capitale può “votare con i piedi” va corteggiato e
prende il coltello dal manico.
Il salto successivo si fa nel contesto
dell’Unione Europea, con Tony
Blair (premier Inglese dal 1997 al 2007) e Gerard Schroder
(Cancelliere tedesco dal 1998 al 2005) che accelerano la convergenza verso una
società più competitiva e meno solidale. Si parla di “trasformare la rete di sicurezza
fondata sui diritti in un trampolino verso la responsabilità personale”. L’idea
dell’uguaglianza di dotazioni (di base), che aveva ispirato le lotte
ottocentesche e primo novecentesche, muta nella ricerca della “uguaglianza di
opportunità”, che in quelle lotte era peraltro lo slogan della controparte.
Dalla ricerca delle opportunità, in
chiave individualista, all’abbandono di ognuno alle “sue” responsabilità, il
passo infatti è breve, ed è quello che hanno compiuto (in nome della “competitività”
ed in vista della potenza, cioè del
dominio) i successivi governi popolari e di destra, quelli che hanno
dominato in Europa la seconda metà degli anni zero e prima metà dei dieci. Accelera,
dunque in questi anni lo smantellamento di quel meccanismo di redistribuzione
secondario del reddito che è lo Stato Sociale (in realtà indispensabile anche
per garantire effettiva eguaglianza di opportunità) e anche quelli di distribuzione
primaria (cioè la distribuzione tra reddito da capitale e da lavoro nella
società, spostatasi a vantaggio del primo di ca. il 10%).
Alla fine il vero obiettivo, secondo Gallino,
è di favorire questa enorme accumulazione del capitale in poche mani (nel primo
10% della popolazione, ma ancora più nel 1% e 0,1%) e riconquistare il terreno
politico, ideologico, culturale perso negli anni sessanta e settanta.
L’obiettivo contrario dovrebbe essere
quello di promuovere nuovamente una reale “democrazia economica” e l’equo
trasferimento dei vantaggi di efficienza e produttività lungo l’intera catena
di produzione del valore (e non solo al vertice, come di fatto avviene da
qualche decennio). Ma nessuna “democrazia economica” potrà darsi senza la
ripresa di forme di contatto democratico tra i governi e gli interessi dei
cittadini; cioè senza l’affermazione della “democrazia politica” reale.
L’alternativa? Lo stiamo vedendo.
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