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giovedì 29 maggio 2014

Luciano Gallino, “Più democrazia vuol dire più welfare”

  
Ancora su Micromega, un altro articolo reca la firma di Luciano Gallino, che ricostruisce in modo molto aggressivo la storia degli ultimi trenta anni, caratterizzati dalla fase liberale del “progetto europeo”, come esito di un’offensiva articolata volta ad eliminare lo Stato Sociale o a ridurlo fortemente, tramite le cosiddette <riforme strutturali>.

Lo Stato Sociale è quell’ampio insieme di politiche ed istituzioni, incardinate in rapporti di forza e relazioni sociali storicamente sviluppati nella prima parte del secolo scorso (e culminati nell’assetto che presero negli anni settanta inoltrati), rivolte nel loro insieme a garantire la protezione dell’individuo dagli accidenti della vita (malattia, incidenti, disoccupazione involontaria), dalle condizioni di svantaggio insuperabili (vecchiaia) o fortemente inabilitanti (ignoranza e povertà), sostenendole collettivamente.

Secondo l’utile elenco di Gallino a questa forma di assicurazione sociale collettiva vengono opposte svariate obiezioni:
      -          Le risorse impiegate per la protezione sono sottratte, tramite le tasse, alle imprese private ed ai cittadini produttivi e dunque rallentano lo sviluppo economico;
    -          Comunque l’erogazione di prestazioni assistenziali ed assicurative meglio sarebbe servita dal settore privato che da quello pubblico;
     -          I sistemi pubblici di protezione esplicano un logica paternalista, autoritaria e inibente la spinta a migliorarsi ed a reagire alle difficoltà naturali della vita;
     -          I costi complessivi sono comunque ormai insostenibili, a causa dell’invecchiamento della popolazione, all’aumento delle spese mediche per la stessa ragione e per l’evoluzione tecnologica del settore,
      -          Molte delle protezioni, direttamente o indirettamente connesse, si sono mutate nel tempo i privilegi di cui godono alcuni “insider” a danno di molti “outsider”.

Ognuna di queste obiezioni ha una sua legittimità, e può essere sostenuta ad un certo grado o livello. Ma nell’insieme, se vengono usate per ottenere una condizione umana e sociale di isolamento e debolezza dell’individuo nei confronti delle forze della natura e della società, esplicano una intenzionalità politica di chiara e tradizionale provenienza. Si tratta della costante lotta delle élite economiche e politiche per tenere sotto controllo le istanze di emancipazione, riduzione delle ineguaglianze e promozione sociale (ed individuale) portate avanti dalla parte svantaggiata della popolazione.
Per Gallino nessuna (anzi “quasi nessuna”) delle obiezioni regge ad una verifica empirica. In effetti si tratta per lo più di estrapolazioni e generalizzazioni di casi limite (poi molto pubblicizzati) ai quali possono essere opposti facilmente controesempi. Sulla sanità, ad esempio, non è difficile valorizzare il caso americano in cui una sanità privata costa molto più ed eroga prestazioni inferiori alla generalità degli utenti (ma altissime ai pochi che pagano direttamente); anche sulle pensioni un’attenta lettura dei dati non supporta le frettolose ricostruzioni giornalistiche; si potrebbe aggiungere che la spesa di chiunque (anche dello Stato) è comunque il reddito di qualcun altro, e dunque gli effetti della ridislocazione della spesa sono meno pronunciati di quanto sembri a prima vista (naturalmente un eccesso di dislocazione in settori a bassa produttività produce degli effetti); circa la logica paternalista, pur avendo in alcuni casi un qualche fondamento, l’obiezione trascura che è comunque meglio avere un padre che essere orfano (soprattutto se povero).

A parere di Gallino, alla fine, bisogna riconoscere che “l’Unione Europea e i suoi trattati sono stati elaborati precisamente allo scopo di demolire lo Stato Sociale in Europa”. Cioè la svolta che portò allo scioglimento della Comunità Economica Europea, nata dal Trattato di Roma, e la sua trasformazione, tramite il Trattato di Maastricht del 1993, nell’Unione Europea, è stata ispirata da questo progetto “neoliberale”: far scomparire da tutti gli stati membri il sistema sociale esistente, superando quindi il “modello Europa” nato dal dopoguerra. A dire il vero Gallino riconosce tale tendenza (alla totale liberalizzazione) sin dagli anni cinquanta, tramite l’enfasi prevalentemente attribuita ai movimenti di merci, uomini, capitali ed all’interdipendenza economica.

Indubbiamente, come ricorda Gallino, l’impegno a promuovere la circolazione delle merci, persone, servizi e capitali è presente in molti articoli del Trattato di Roma (1957), e la cosa si lega all’assetto generale del progetto europeo di cui abbiamo anche parlato qui. L’interdipendenza economica era sin dall’inizio vista dai promotori del progetto (USA in primis, ma anche Gran Bretagna e Francia) come strumento per superare la tentazione semi-egemone degli imperi centrali, che dal 1870 sfidava l’equilibrio delle forze mondiale (o l’egemonia anglosassone).
Ma, questa è la mia opinione, questa dimensione resta all’inizio comunque bilanciata dalla necessità degli Stati Nazionali di garantire la pace sociale e l’equilibrio interno, e ciò sino agli anni settanta (gli anni sessanta e settanta sono anni di grandi lotte sociali e di grande espansione dello Stato Sociale); questo equilibrio viene però rotto dall’accelerazione che prende l’interdipendenza monetaria ed economica (con corredo di vincoli alla libertà di azione nazionale) a partire dalla vicenda dello SME (1978, cui le sinistre si oppongono non a caso) e dall’Atto Unico Europeo del 1986 che completa la liberalizzazione.
Poi viene il Trattato di Maastricht (1992-3) e il Trattato di Lisbona (2007). In questi atti (perfezionati, e significativamente esasperati, nel Trattato sull’Unione Europea e il Trattato sul Funzionamento del 2008) sono “vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi” (art. 63), mentre lo Stato Sociale non è mai citato e la <piena occupazione> solo una volta, come esito di una economia competitiva (quindi è un auspicio, non un obiettivo).
E’ interessante, e lo condivido, la diagnosi che di questo assetto dà Gallino: “nella sostanza il Trattato UE si configura primariamente come lo statuto di una grande potenza economica e commerciale”. Questa “grande potenza” si autorappresenta infatti come autonoma e competitiva soprattutto a partire dagli anni novanta, nei quali mi pare si possa intravedere un mutamento di orizzonte determinato dall’improvviso crollo dell’impero sovietico e dall’enorme vuoto che si apre al confine europeo. Nella continuità di una confederazione di Stati Nazionali nata dall’ipotesi che i legami dell’economia salvino la pace e contribuiscano a controllare i rivali, limitandoli e cooptandoli (dove l’ambiguità, componente essenziale di ogni politica pubblica e di ogni coalizione di forze, è su chi siano i rivali, dandosi sia all’esterno sia all’interno degli Stati), ad un certo punto, nel 1989-92 avviene una torsione essenziale. La polarità passa dalla Francia e dall’Inghilterra alla Germania unificata, e l’obiettivo diventa competere con il mondo, cioè a ben vedere con gli USA.

A questo irrealistico obiettivo (in assenza di reale autonomia politica e militare, di “hard power”) sono sottomesse tutte le forze e gli equilibri sociali.

Per la verità si tratta di un’accelerazione e riclassificazione di un movimento molto più lungo che Gallino riconduce ad una volontà europea che affonda nei primi anni ottanta; un movimento nei quali il contributo alla creazione della cosiddetta “globalizzazione finanziaria” delle élite e dei governi europei è decisiva. La svolta dei socialisti francesi (di Mitterrand e Delors) è del 1983-4, la legge della Thatcher che liberalizza le banche d’affari è del 1986. Gradualmente diventa chiaro a tutti (ad alcuni lo era da subito) che se il capitale può “votare con i piedi” va corteggiato e prende il coltello dal manico.
Il salto successivo si fa nel contesto dell’Unione Europea, con Tony Blair (premier Inglese dal 1997 al 2007) e Gerard Schroder (Cancelliere tedesco dal 1998 al 2005) che accelerano la convergenza verso una società più competitiva e meno solidale. Si parla di “trasformare la rete di sicurezza fondata sui diritti in un trampolino verso la responsabilità personale”. L’idea dell’uguaglianza di dotazioni (di base), che aveva ispirato le lotte ottocentesche e primo novecentesche, muta nella ricerca della “uguaglianza di opportunità”, che in quelle lotte era peraltro lo slogan della controparte.
Dalla ricerca delle opportunità, in chiave individualista, all’abbandono di ognuno alle “sue” responsabilità, il passo infatti è breve, ed è quello che hanno compiuto (in nome della “competitività” ed in vista della potenza, cioè del dominio) i successivi governi popolari e di destra, quelli che hanno dominato in Europa la seconda metà degli anni zero e prima metà dei dieci. Accelera, dunque in questi anni lo smantellamento di quel meccanismo di redistribuzione secondario del reddito che è lo Stato Sociale (in realtà indispensabile anche per garantire effettiva eguaglianza di opportunità) e anche quelli di distribuzione primaria (cioè la distribuzione tra reddito da capitale e da lavoro nella società, spostatasi a vantaggio del primo di ca. il 10%).
Alla fine il vero obiettivo, secondo Gallino, è di favorire questa enorme accumulazione del capitale in poche mani (nel primo 10% della popolazione, ma ancora più nel 1% e 0,1%) e riconquistare il terreno politico, ideologico, culturale perso negli anni sessanta e settanta.

L’obiettivo contrario dovrebbe essere quello di promuovere nuovamente una reale “democrazia economica” e l’equo trasferimento dei vantaggi di efficienza e produttività lungo l’intera catena di produzione del valore (e non solo al vertice, come di fatto avviene da qualche decennio). Ma nessuna “democrazia economica” potrà darsi senza la ripresa di forme di contatto democratico tra i governi e gli interessi dei cittadini; cioè senza l’affermazione della “democrazia politica” reale.

L’alternativa? Lo stiamo vedendo.



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