Sergio De Nardis è il
capo economista di Nomisma ed è una
persona seria, autore di interessanti articoli sulla impostazione
mercantilista tedesca e gli squilibri che ne derivano. Ora scrive un articolo complesso e dal tono
tragico sul sito di Nomisma.
Come probabilmente tutti
sanno la società è uno dei principali attori del mondo dell’alta consulenza
professionale e finanziaria in molteplici settori, fondata trenta anni fa è stata
storicamente coordinata dal prof. Romano Prodi. Ha sede a Bologna in un
bellissimo palazzetto del 1600.
De Nardis in questo
intervento ammette che l’Euro ha provocato divergenza, e crisi eccessive nei
paesi periferici, ma sostiene che l’abbandono provocherebbe danni peggiori.
Dunque la politica deve intervenire per correggere la strada.
Si tratta di un’ipotesi
generosa ed ottimista alla quale mi piacerebbe molto aderire. Tuttavia
preferirei farlo su basi più solide, oneste e realiste.
Ci sono, infatti, a mio
modesto parere, alcune smagliature decisive nel tessuto di questo ragionamento;
detto in sintesi: l’analisi non va abbastanza in fondo, l’austerità è
sottovalutata nella sua natura di dispositivo tecnico-sociale e politico,
l’impersonalità del ragionamento condotto e i macrosoggetti immaginati oscura e
nasconde i reali conflitti di interesse. In altre parole, non c’è alcuna
percezione della questione del potere
che è posta dall’Euro.
Nomisma, settori di attività |
Il motivo essenziale che
lo ispira, ed il suo primario funzionamento è di potenziare le connessioni ed
amplificare le interdipendenze. Si tratta di un ambiguo vantaggio, ma
sicuramente non di una protezione. E’
esattamente l’opposto, se vogliamo.
Presentare un meccanismo
che riduce le barriere agli scambi ed agli spostamenti finanziari e di merci
come una difesa è invece estremamente espressivo del
punto dal quale si parla. Infatti la totale liberalizzazione degli scambi
finanziari, che è l’obiettivo centrale espresso dalla politica europea negli
ultimi venti anni, in tutta evidenza protegge i margini delle transazioni
finanziarie stesse, le massimizza, e -come effetto indiretto dell’accresciuta
concorrenza- protegge ed aumenta i margini del capitale. Cioè contribuisce in
modo decisivo a ridurre le protezioni che determinavano una ripartizione tra
capitale e lavoro a maggiore vantaggio del secondo. Su questo scrive cose
chiare Wolfgang
Streeck (che non è un radicale isolato, anche l’ultimissimo libro di
Habermas, che tra poco leggeremo, lo cita abbondantemente).
In questa primissima
frase, in altre parole, De Nardis determina il suo posizionamento essenziale
(che confermerà in una frase altrettanto illuminante più avanti). Comunque per
lui l’Euro si è trasformato in “catalizzatore” di tensioni “per i paesi ad alto
debito”. Cioè in quell’elemento che accelera una reazione chimica senza venirne
consumato.
Ma l’Euro non è solo
questo, perché determina fenomeni che in sua assenza non si determinerebbero affatto
(dato che impedisce al cambio di trasmettere i corretti segnali di prezzo ai
mercati) e li determina per tutti i
paesi. L’Euro, in sostanza altera le
distribuzioni. E’ sostanzialmente un potente meccanismo di ridistribuzione
della ricchezza reale dalle parti deboli del sistema verso quelle forti.
Invece per De Nardis,
ciò che è successo è solo che i paesi ad alto debito (tra i quali non era la Spagna , per dire un caso),
“si sono trovati esposti alla perdita di fiducia degli investitori” (cioè si
sono trovati a dipendere dalla fiducia di questi, e dalla necessità di
coltivarla e blandirla) che hanno correttamente “visto una debolezza intrinseca
nel fatto che tali economie emettevano titoli in una valuta non propria (non
svalutabile a seguito delle fughe di capitali)”, come qualsiasi paese in via di
sviluppo, ed “erano prive della protezione assicurata al debito sovrano da un
prestatore di ultima istanza”. La riduzione, in altre parole, dei paesi
dell’area Euro al rango di regioni interne in uno stato federale, senza averlo,
li ha messi nelle condizioni di non poter controllare il proprio destino.
Quel che succede nel
seguito De Nardis lo stilizza comunque in modo efficace: “problemi di liquidità
[determinati dalla bilancia commerciale,
a sua volta determinata dalla perdita di competitività, effetto della
neutralizzazione del cambio ed altri fattori] sono evoluti in rischi di
solvibilità e lo stop ai flussi di finanziamenti dall’estero si è riflesso in
crisi delle bilance dei pagamenti”.
Da questo punto in poi
la carente analisi esplica il suo effetto: senza considerare distribuzioni e
potere non c’è spiegazione possibile per una serie di irrazionalità manifeste.
Infatti, per De Nardis, “la risposta europea è stata quella di non predisporre
reti di sicurezza, di lasciare anzi che i timori dei mercati finanziari
guidassero le scelte di politica economica con l’adozione di austerità in dosi
massicce e immediate”. Aiuterebbe, ad esempio, a interpretare le forze in
campo, e individuare gli interessi se sui mitici “mercati finanziari” si
alzasse il velo, individuando i capitali nordici (ed in parte francesi)
estratti dai surplus commerciali e dai relativi lavoratori, grazie al dumping
salariale, intermediati dal sistema creditizio tedesco e francese per il
tramite del sistema Target2 gestito dalla BCE. Invece è solo ricordato il
timore tedesco per “l’azzardo morale” (cioè “che i periferici non pagassero per
i loro errori, posponendo sine die l’aggiustamento”), che ha l’effetto di
ritardare l’azione della BCE (con l’OMT). In altre parole è solo ricordato
l’effetto di auto-imbrigliamento politico indotto dalla politica populista del
CDU, e della Merkel in particolare, nel nascondere dietro un fumoso apologo
morale concreti interessi.
L’imposizione
“dell’ordine di priorità del paese dominante” (come giustamente ricorda De
Nardis) è quindi una delle cause del permanere della crisi. Ma questo non è un
“errore di valutazione”, bensì una scelta politica ed economica perfettamente
consapevole. Le conseguenze delle scelte (magari non in tutti i particolari)
erano chiarissime a tutte le élite coinvolte in esse; principalmente alla
direzione tedesca, ma anche –credo- alle élite dei paesi del sud. Sinceramente
non si può essere così distratti. E del resto ci sono tracce abbondanti di
consapevolezza, sin trenta anni fa (Spaventa
e Napolitano)
come venti anni fa (Scalfari)
o dieci (Alesina)
per restare al dibattito italiano.
Dunque io contesto, mi
spiace, che “non si sia previsto”,
con le parole dell’autore:
-
che in condizioni cicliche deboli, con impotenza della
politica monetaria e senza possibilità di svalutare, “il consolidamento fiscale
ha effetti depressivi molto più forti del normale”. Giusto qualche modello matematico può non prevederlo. Ma
anche chi finge di crederci, come i rettori della Bocconi, sa, per aver letto
qualche libro di storia economica, che è sempre successo esattamente questo.
-
che con moltiplicatori fiscali elevati finché dura la
recessione determina effetti opposti a quelli attesi (il debito aumenta invece di diminuire). Anche qui, un
simile analfabetismo storico, prima che economico è talmente enorme da
richiedere un’altra spiegazione.
-
che fosse necessario coordinare le politiche economiche, con
misure espansive al nord Europa per accompagnare e bilanciare quelle repressive al sud. Questo era noto sin dagli accorati appelli del FMI negli
anni novanta (esattamente rivolti alla Germania).
-
che l’indebolimento dei mercati del lavoro, con la crescita
dei disoccupati, produce effetti di contenimento dei salari e dei prezzi, ma
molto gradualmente. Anche questa può
essere una sorpresa solo per un bambino delle elementari.
-
che l’inflazione media molto bassa significa avere
deflazione al sud, cosa che rende molto più severo il debito. Ci sono modellizzazioni in questa direzione sin dagli anni
trenta.
-
che due recessioni in sequenza (2008-9; 2011-13) inducono
danni permanenti in termini di perdita di potenziale produttivo e
disoccupazione strutturale. Qui
basta la matematica.
Poi vediamo cosa si può
concludere se non si parte dall’ipotesi che tutti gli attori economici e
politici stavano in vacanza, ed erano completamente ignari di nozioni
economiche e storiche di base. Ma continuiamo a leggere perché è interessante.
A questo punto De Nardis
si chiede se uscire dall’Euro sia utile, e la svalutazione che deriverebbe
dallo sganciamento dal’area dell’ex marco possa dare “più solide prospettive di
crescita alle economie periferiche”. Per rispondere rilegge la vicenda dello sganciamento dal Gold Standard.
Una volta che le
tensioni tra le economie reali divennero insostenibili così divenne anche lo schema in auge fino
agli anni trenta, che legava le monete alla convertibilità in oro (e dunque
impediva di fare espansione monetaria se non si disponeva di oro, inducendo un
vincolo forte); dunque uno alla volta i diversi paesi lo abbandonarono, entrando in
una fase espansiva. Infatti al prezzo della limitazione della mobilità dei
capitali, la riacquistata sovranità monetaria indusse al controllo dei tassi di
interesse e alla fine delle pressioni deflazionistiche con l’obbligo auto
rafforzante di tagliare i salari reali. Chi lo abbandonò per primo vinse, chi
lo fece per ultimo molto meno. Naturalmente si guarda bene dal riprendere
l’incisiva analisi di Rodik
(che cita più avanti) sul significato di questo modello economico e sociale, i
suoi legami strutturali con l’imperialismo, ed il liberismo e la sua
ambivalenza: “il liberismo può rappresentare una forza regressiva o di
progresso secondo il posto che un paese occupa nell’economia
mondiale e secondo il modo in cui le politiche commerciali vengono
adeguate alle proprie divisioni a livello sociale e politico.” (R., p.31)
Ma rileggiamo un attimo le
parole di De Nardis: che significa che gli Stati “controllano i tassi di
interesse” (grazie alla facoltà della Banca Centrale di acquistare i titoli con
moneta fiduciaria illimitata)? Che non li controllano altri, evidentemente. E
chi? I “mercati”, ovviamente. E chi
sono i “mercati”? Il primo 5% della stratificazione sociale e le banche che ne
intermediano la ricchezza. Dunque la cosa si potrebbe anche scrivere così:
<al prezzo del rafforzamento del controllo pubblico sui capitali
transfrontalieri, la riacquistata sovranità monetaria in capo al Governo
determinò il ripristino del controllo dei Parlamenti eletti e dei Governi
democratici sull’uso delle risorse derivanti dalle tasse a vantaggio dei
prestatori di capitale>. Come si capisce si tratta di una questione di
controllo del proprio destino e quindi di
potere. Precisamente di ripartizione del potere reale tra i diversi gruppi
sociali.
Più o meno nella stessa
direzione la lettura storica di Rodrik: il vecchio Gold Standard è espressione della stessa “procedura imperialista”
da cui dipende il libero commercio nell’ottocento e all’inizio del novecento.
Si trattava infatti di un sistema semplice, nel quale ogni moneta era
agganciata ad un certo valore in oro (la sterlina 113 grani, il dollaro 23,22,
etc.) con la Banca Centrale che,
a semplice richiesta, doveva cambiare in oro la moneta. Dunque i tassi di
cambio tra le monete erano fissi. La stabilità era, conseguentemente, l’unico
obiettivo delle Banche Centrali (senza distrazioni come “il pieno impiego o la
crescita dell’economia”). Chiaramente nel contesto del Gold Standard, con
il suo cambio fisso, “il problema più preoccupante era il modo in cui garantire
che gli enti sovrani, e tra questi i mutuatari, rimborsassero i propri debiti”
(non so se suona familiare). In particolare l’assenza di un tribunale
internazionale, davanti al quale far valere il credito, rendeva unica sanzione
il discredito, con conseguente mancato accesso ai mercati per qualche tempo, ma
si tratta di una sanzione debole. La soluzione, con paesi come l’India o la Turchia ottomana
erano ancora le cannoniere. Nel 1875 furono usate con il sultano che fu
costretto ad accettare l’istituzione di una Agenzia extraterritoriale che
gestiva i tributi e rimborsava i debiti. Nel 1882 si arrivò all’intervento
militare diretto in Egitto (c’è anche un bel film). Nel 1905 lo fecero gli
Stati Uniti a Santo Domingo per lo stesso motivo.
In definitiva, per
Rodrik, “il Gold Standard e la globalizzazione finanziaria poterono
funzionare unicamente nel quadro della politica del libero scambio, e grazie ad
una combinazione singolare di politiche interne, sistemi di pensiero ed
esecuzione forzata imposta da terzi” (anche qui: ricorda qualcosa?).
Ed alla fine il sistema
è crollato (su questo l’analisi di Keynes) perché senza cambio restava solo la
deflazione salariale, e questa si rivelò incompatibile con la democrazia man
mano che si estendeva il suffragio. Lo “Standard” era incompatibile con la
democrazia.
Tutto questo, malgrado
citi le conclusioni di Rodrik, svuotandole del contenuto politico, non compare nella
lettura mainstream di De Narsis; nella quale, sospetto, non esistono i gruppi
sociali. E non esiste potere e interessi contrastanti. Allora descrive
l’effetto della svalutazione relativa delle monete (attenzione, la svalutazione
l’una rispetto alle altre, cioè quella derivante dalla fluttuazione dei cambi
ripristinata) come una riduzione del potere di acquisto dei lavoratori
–acquisita tramite il cambio- “che altrimenti si sarebbe dovuta ottenere con un
aumento massiccio della disoccupazione”.
De Nardis è un
economista esperto e una persona seria, un uomo d’onore, ma io ho dovuto
rileggere più volte questa frase, perché non capivo. Proviamo a cambiare una
parola: <l’effetto del cambio relativo
[della svalutazione] delle monete determina una riduzione relativa del potere
di acquisto dei lavoratori che altrimenti si sarebbe dovuta ottenere con un
aumento massiccio della disoccupazione>. Così è più chiaro, il fenomeno non
ha nulla a che vedere con il fatto che con il salario compro meno pane, o pago
di più l’affitto, o i vestiti, o i libri; ma solo con il fatto che i prodotti
stranieri mi costano di più (mentre i miei costano meno agli stranieri). Dunque
che avviene una ricomposizione del paniere di acquisto e d’altra parte
aumentano le esportazioni, dunque i posti di lavoro nelle relative aziende (per
questo chi esce per primo ha più vantaggi, occupa i mercati). Voi capite che
usare la parola “svalutazione” o quella “cambio” dà un’idea diversa, e può far
sembrare, a chi legge in fretta, che qui ci si impoverisce. Invece è (o può essere) il contrario.
Anche dal grafico, (tra
ci esce prima e chi dopo) si vede che comunque guadagnano tutti. Il Gold
Standard era diventato una specie di freno a mano per l’economia (ma non
per tutti).
Ciò che non dice De
Nardis è che dopo l’uscita dal Gold Standard (31-32 e 35-36) ci furono enormi
disastri (in effetti nel ‘39 ce ne fu uno), dimenticando che senza di esso ci
sono stati anche i trenta anni di crescita più forte ed equilibrata del secolo
scorso.
Con questo esempio
illustra le “tre criticità” dell’uscita dall’Euro:
1-
politica, potrebbe mettersi in
moto una reazione a catena che distruggerebbe la integrazione economica e
quella politica, fino allo scontro. E’ un buon argomento, ma stilizzato in
questo modo è altamente problematico: le tensioni degli anni trenta non
derivano dalla rottura del gold standard, è
molto più vero il contrario. Anche in questo caso se l’Euro si rompesse
sarebbe per il mancato disciplinamento della volontà di potenza e di
affermazione di alcuni che usano il legame monetario a senso unico.
2-
economica, se
l’Italia uscisse per prima avrebbe i vantaggi di cui a suo tempo fruì
l’Inghilterra. Ma ad un prezzo, dice De Nardis, della diminuzione dei salari
reali (anche qui omette di sottolineare “rispetto
ai competitori esteri”); della chiusura dei mercati finanziari e il
controllo sui movimenti di capitale (su cui vale quanto prima detto); del ripristino
del controllo del Tesoro, cioè del Governo Italiano, sulla Banca d’Italia e sul
sistema del credito. Queste condizioni sono per il nostro “un salto indietro di
quaranta anni” (il che è cronologicamente corretto, ma esprime una valutazione
discutibile, perché “salto indietro”?) e sono incompatibili con i Trattati che
determinano il mercato unico. Ora questo è vero, a Trattati fermi, o non
reinterpretati, bisognerebbe uscire dall’Unione Europea. Ma va avanti, dicendo
che “la crisi finanziaria, allontanata dal debito pubblico, si ripercuoterebbe
sul resto dell’economia. I risparmi delle famiglie sarebbero erosi
dall’inflazione e si avrebbero effetti negativi sui bilanci degli operatori
privati (banche e imprese) che hanno posizioni debitore in valuta estera”. Sì, in
effetti è probabile che una moderata inflazione potrebbe essere avviata
(l’iperinflazione degli anni settanta era importata soprattutto dalle materie
prime), ma molto difficilmente colpirebbe i capitali delle famiglie medie, che
sono sostanzialmente case. Invece colpirebbe molto i percettori di rendite
finanziarie e chi ha debiti all’estero. In cambio la ripresa della domanda
interna e la competitività riconquistata verso gli amici del nord causerebbe
una fortissima ripresa dei redditi da lavoro, dell’occupazione, degli
investimenti industriali, della redditività del capitale in esso investito.
Alla fine anche il sistema bancario, dopo una fase di turbolenza passeggero, se
ne avvantaggerà. Non sarà facile, ma è l’alternativa che va valutata.
3-
tecnica, non
sarà assolutamente facile riconvertire, se avviene traumaticamente e su questo
De Nardis ha ragione.
Secondo lui questi tre
fattori di criticità implicano “impossibilità”. Tuttavia “non in ogni
circostanza”. Infatti se restare diventa troppo oneroso, “per persistenza della
disoccupazione di massa ed un’estensione dei fenomeni di impoverimento, allora
potrebbero formarsi maggioranze di cittadini, i cui interessi risultino più
colpiti, indotti a ritenere sopportabili i costi politici, economici, tecnici
di un’uscita”. Dunque “non si può fare troppo a lungo affidamento sull’altezza
delle barriere all’uscita dall’Euro come pretesti per mantenere invariato il
frame work politico ed economico”.
Fermiamoci, perché qui
il valoroso scrittore mostra
implicitamente da che lato parla: c’è qualcuno che si impoverisce ed è
disoccupato che potrebbe formare una nuova maggioranza di interesse
(evidentemente contro l’attuale), e dunque loro
potrebbero considerare sopportabile l’uscita. Allora noi non dobbiamo fare troppo affidamento sui vincoli introdotti
(cioè sui legami creati per impedire l’uscita) e restare in questo comodo frame
work politico ed economico. Qui emerge una divisione in gruppi sociali.
Improvvisamente si vede in trasparenza che c’è, in effetti, qualcuno che ha un
assetto politico ed economico che lo avvantaggia e qualcuno che da questo
stesso assetto perde. Sarà per questo che è stato imposto?
Il "Trilemma" di Dani Rodrik |
A questo punto serve una
direzione di azione possibile. E De Nardis ricorre a Dani
Rodrik, citando il suo splendido libro del 2011. Propone quindi di
allargare la “camicia di forza” (presenza di globalizzazione -cioè moneta
unica- con sovranità nazionale, senza democrazia) attuale per evitare che non
potendo arrivare all’optimum (Globalizzazione e democrazia senza Stato
Nazionale, cioè Stati Uniti d’Europa), per evidente attuale indisponibilità, si
arrivi al terzo corno del “trilemma” (cioè ripristino della sovranità nazionale
e della democrazia a spese della globalizzazione, cioè dell’Euro).
In questo programma il
Capo Economista di Nomisma, dice che
bisogna:
-
agire sul Fiscal Compact
(escludendo le spese di investimento);
-
rendere simmetrici gli aggiustamenti (cioè espandere in Germania mentre si contrare la spesa in
Italia) in modo che le nostre imprese possano andare a “catturare” domanda resa
disponibile all’estero;
-
alzare l’inflazione programmata oltre il 2% per un periodo limitato.
Chiude dicendo che “si
tratta di modifiche su cui è facile prevedere opposizioni. L’alleanza e lo
sforzo congiunto di convincimento da parte di Italia, Francia e Spagna –vale a
dire dei tre grandi paesi più sensibili alle esigenze della crescita- sono
condizioni essenziali per la loro realizzazione”.
Così si chiude
l’articolo di De Nardis, con la parola chiave <convincimento>. Ritornando quindi sull’asse portante del suo
ragionamento: la questione è cognitiva. Si tratta di un equivoco, di un errore,
d’incomprensioni. Gli Stati Europei, presi come blocchi unici monolitici,
stanno conducendo un generoso processo politico i cui strumenti economici non
sono purtroppo del tutto funzionali e dunque “catalizzano” conflitti.
Le cose sono altamente diverse: la questione al centro della scena è il potere che il dispositivo della globalizzazione (di cui l’Euro
è strumento perfettamente coerente) distribuisce dal basso verso l’alto entro i corpi sociali nazionali e tra i
paesi europei.
Dimenticare che
l’austerità, e tutte le scelte che questo esattamente previsto dispositivo
provocano, è da leggere in questo quadro (cioè che è un mezzo per sottomettere
dentro e fuori) significa prestarsi ad un nascondimento. Cioè a nascondere il
vero problema dell’Euro. E dunque anche la sua eventuale soluzione che non può
passare attraverso accordi tra le èlite che esprimono i diversi governi
nazionali, ma solo attraverso la ripresa della democrazia.
Una pressione da basso.
In sintesi a me pare che
il vero problema dell’Euro sia più nascosto che mostrato da questa analisi. Il
problema è chi considera e prevede,
chi decide e per quali interessi, per quale potere; ed anche a chi viene messa la cera nelle orecchie.
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