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sabato 17 maggio 2014

Sergio De Nardis, 8 maggio 2014- A hard rain’s gonna fall


Sergio De Nardis è il capo economista di Nomisma ed è una persona seria, autore di interessanti articoli sulla impostazione mercantilista tedesca e gli squilibri che ne derivano. Ora scrive un articolo complesso e dal tono tragico sul sito di Nomisma.
Come probabilmente tutti sanno la società è uno dei principali attori del mondo dell’alta consulenza professionale e finanziaria in molteplici settori, fondata trenta anni fa è stata storicamente coordinata dal prof. Romano Prodi. Ha sede a Bologna in un bellissimo palazzetto del 1600.

De Nardis in questo intervento ammette che l’Euro ha provocato divergenza, e crisi eccessive nei paesi periferici, ma sostiene che l’abbandono provocherebbe danni peggiori. Dunque la politica deve intervenire per correggere la strada.
Si tratta di un’ipotesi generosa ed ottimista alla quale mi piacerebbe molto aderire. Tuttavia preferirei farlo su basi più solide, oneste e realiste.
Ci sono, infatti, a mio modesto parere, alcune smagliature decisive nel tessuto di questo ragionamento; detto in sintesi: l’analisi non va abbastanza in fondo, l’austerità è sottovalutata nella sua natura di dispositivo tecnico-sociale e politico, l’impersonalità del ragionamento condotto e i macrosoggetti immaginati oscura e nasconde i reali conflitti di interesse. In altre parole, non c’è alcuna percezione della questione del potere che è posta dall’Euro.

Nomisma, settori di attività
L’articolo riprende l’immagine della canzone di Bob Dylan per dire che la pioggia “cade dura” sull’Europa nella gabbia dell’Euro, che, come un edificio senza tetto (metafora di Paul De Grauwe) “si è trasformato da schermo protettivo in catalizzatore di tensioni per i paesi ad alto debito”. La mia divergenza da De Nardis parte da questa primissima frase: il meccanismo che di seguito il nostro illustra è realmente attivo, ma è fuorviante presentarlo come uno “schermo protettivo”, si tratta più di un amplificatore. Ed eventualmente protegge alcuni, esponendo altri.
Il motivo essenziale che lo ispira, ed il suo primario funzionamento è di potenziare le connessioni ed amplificare le interdipendenze. Si tratta di un ambiguo vantaggio, ma sicuramente non di una protezione. E’ esattamente l’opposto, se vogliamo.

Presentare un meccanismo che riduce le barriere agli scambi ed agli spostamenti finanziari e di merci come una difesa è invece estremamente espressivo del punto dal quale si parla. Infatti la totale liberalizzazione degli scambi finanziari, che è l’obiettivo centrale espresso dalla politica europea negli ultimi venti anni, in tutta evidenza protegge i margini delle transazioni finanziarie stesse, le massimizza, e -come effetto indiretto dell’accresciuta concorrenza- protegge ed aumenta i margini del capitale. Cioè contribuisce in modo decisivo a ridurre le protezioni che determinavano una ripartizione tra capitale e lavoro a maggiore vantaggio del secondo. Su questo scrive cose chiare Wolfgang Streeck (che non è un radicale isolato, anche l’ultimissimo libro di Habermas, che tra poco leggeremo, lo cita abbondantemente).

In questa primissima frase, in altre parole, De Nardis determina il suo posizionamento essenziale (che confermerà in una frase altrettanto illuminante più avanti). Comunque per lui l’Euro si è trasformato in “catalizzatore” di tensioni “per i paesi ad alto debito”. Cioè in quell’elemento che accelera una reazione chimica senza venirne consumato.
Ma l’Euro non è solo questo, perché determina fenomeni che in sua assenza non si determinerebbero affatto (dato che impedisce al cambio di trasmettere i corretti segnali di prezzo ai mercati) e li determina per tutti i paesi. L’Euro, in sostanza altera le distribuzioni. E’ sostanzialmente un potente meccanismo di ridistribuzione della ricchezza reale dalle parti deboli del sistema verso quelle forti.
Invece per De Nardis, ciò che è successo è solo che i paesi ad alto debito (tra i quali non era la Spagna, per dire un caso), “si sono trovati esposti alla perdita di fiducia degli investitori” (cioè si sono trovati a dipendere dalla fiducia di questi, e dalla necessità di coltivarla e blandirla) che hanno correttamente “visto una debolezza intrinseca nel fatto che tali economie emettevano titoli in una valuta non propria (non svalutabile a seguito delle fughe di capitali)”, come qualsiasi paese in via di sviluppo, ed “erano prive della protezione assicurata al debito sovrano da un prestatore di ultima istanza”. La riduzione, in altre parole, dei paesi dell’area Euro al rango di regioni interne in uno stato federale, senza averlo, li ha messi nelle condizioni di non poter controllare il proprio destino.
Quel che succede nel seguito De Nardis lo stilizza comunque in modo efficace: “problemi di liquidità [determinati dalla bilancia commerciale, a sua volta determinata dalla perdita di competitività, effetto della neutralizzazione del cambio ed altri fattori] sono evoluti in rischi di solvibilità e lo stop ai flussi di finanziamenti dall’estero si è riflesso in crisi delle bilance dei pagamenti”.

Da questo punto in poi la carente analisi esplica il suo effetto: senza considerare distribuzioni e potere non c’è spiegazione possibile per una serie di irrazionalità manifeste. Infatti, per De Nardis, “la risposta europea è stata quella di non predisporre reti di sicurezza, di lasciare anzi che i timori dei mercati finanziari guidassero le scelte di politica economica con l’adozione di austerità in dosi massicce e immediate”. Aiuterebbe, ad esempio, a interpretare le forze in campo, e individuare gli interessi se sui mitici “mercati finanziari” si alzasse il velo, individuando i capitali nordici (ed in parte francesi) estratti dai surplus commerciali e dai relativi lavoratori, grazie al dumping salariale, intermediati dal sistema creditizio tedesco e francese per il tramite del sistema Target2 gestito dalla BCE. Invece è solo ricordato il timore tedesco per “l’azzardo morale” (cioè “che i periferici non pagassero per i loro errori, posponendo sine die l’aggiustamento”), che ha l’effetto di ritardare l’azione della BCE (con l’OMT). In altre parole è solo ricordato l’effetto di auto-imbrigliamento politico indotto dalla politica populista del CDU, e della Merkel in particolare, nel nascondere dietro un fumoso apologo morale concreti interessi.

L’imposizione “dell’ordine di priorità del paese dominante” (come giustamente ricorda De Nardis) è quindi una delle cause del permanere della crisi. Ma questo non è un “errore di valutazione”, bensì una scelta politica ed economica perfettamente consapevole. Le conseguenze delle scelte (magari non in tutti i particolari) erano chiarissime a tutte le élite coinvolte in esse; principalmente alla direzione tedesca, ma anche –credo- alle élite dei paesi del sud. Sinceramente non si può essere così distratti. E del resto ci sono tracce abbondanti di consapevolezza, sin trenta anni fa (Spaventa e Napolitano) come venti anni fa (Scalfari) o dieci (Alesina) per restare al dibattito italiano.
Dunque io contesto, mi spiace, che “non si sia previsto”, con le parole dell’autore:
-          che in condizioni cicliche deboli, con impotenza della politica monetaria e senza possibilità di svalutare, “il consolidamento fiscale ha effetti depressivi molto più forti del normale”. Giusto qualche modello matematico può non prevederlo. Ma anche chi finge di crederci, come i rettori della Bocconi, sa, per aver letto qualche libro di storia economica, che è sempre successo esattamente questo.
-          che con moltiplicatori fiscali elevati finché dura la recessione determina effetti opposti a quelli attesi (il debito aumenta invece di diminuire). Anche qui, un simile analfabetismo storico, prima che economico è talmente enorme da richiedere un’altra spiegazione.
-          che fosse necessario coordinare le politiche economiche, con misure espansive al nord Europa per accompagnare e bilanciare quelle  repressive al sud. Questo era noto sin dagli accorati appelli del FMI negli anni novanta (esattamente rivolti alla Germania).
-          che l’indebolimento dei mercati del lavoro, con la crescita dei disoccupati, produce effetti di contenimento dei salari e dei prezzi, ma molto gradualmente. Anche questa può essere una sorpresa solo per un bambino delle elementari.
-          che l’inflazione media molto bassa significa avere deflazione al sud, cosa che rende molto più severo il debito. Ci sono modellizzazioni in questa direzione sin dagli anni trenta.
-          che due recessioni in sequenza (2008-9; 2011-13) inducono danni permanenti in termini di perdita di potenziale produttivo e disoccupazione strutturale. Qui basta la matematica.

Poi vediamo cosa si può concludere se non si parte dall’ipotesi che tutti gli attori economici e politici stavano in vacanza, ed erano completamente ignari di nozioni economiche e storiche di base. Ma continuiamo a leggere perché è interessante.

A questo punto De Nardis si chiede se uscire dall’Euro sia utile, e la svalutazione che deriverebbe dallo sganciamento dal’area dell’ex marco possa dare “più solide prospettive di crescita alle economie periferiche”. Per rispondere rilegge la vicenda dello sganciamento dal Gold Standard.
Una volta che le tensioni tra le economie reali divennero insostenibili così divenne anche lo schema in auge fino agli anni trenta, che legava le monete alla convertibilità in oro (e dunque impediva di fare espansione monetaria se non si disponeva di oro, inducendo un vincolo forte); dunque uno alla volta i diversi paesi lo abbandonarono, entrando in una fase espansiva. Infatti al prezzo della limitazione della mobilità dei capitali, la riacquistata sovranità monetaria indusse al controllo dei tassi di interesse e alla fine delle pressioni deflazionistiche con l’obbligo auto rafforzante di tagliare i salari reali. Chi lo abbandonò per primo vinse, chi lo fece per ultimo molto meno. Naturalmente si guarda bene dal riprendere l’incisiva analisi di Rodik (che cita più avanti) sul significato di questo modello economico e sociale, i suoi legami strutturali con l’imperialismo, ed il liberismo e la sua ambivalenza: “il liberismo può rappresentare una forza regressiva o di progresso secondo il posto che un paese occupa nell’economia mondiale e secondo il modo in cui le politiche commerciali vengono adeguate alle proprie divisioni a livello sociale e politico.” (R., p.31)
Ma rileggiamo un attimo le parole di De Nardis: che significa che gli Stati “controllano i tassi di interesse” (grazie alla facoltà della Banca Centrale di acquistare i titoli con moneta fiduciaria illimitata)? Che non li controllano altri, evidentemente. E chi? I “mercati”, ovviamente. E chi sono i “mercati”? Il primo 5% della stratificazione sociale e le banche che ne intermediano la ricchezza. Dunque la cosa si potrebbe anche scrivere così: <al prezzo del rafforzamento del controllo pubblico sui capitali transfrontalieri, la riacquistata sovranità monetaria in capo al Governo determinò il ripristino del controllo dei Parlamenti eletti e dei Governi democratici sull’uso delle risorse derivanti dalle tasse a vantaggio dei prestatori di capitale>. Come si capisce si tratta di una questione di controllo del proprio destino e quindi di potere. Precisamente di ripartizione del potere reale tra i diversi gruppi sociali.
Più o meno nella stessa direzione la lettura storica di Rodrik: il vecchio Gold Standard è espressione della stessa “procedura imperialista” da cui dipende il libero commercio nell’ottocento e all’inizio del novecento. Si trattava infatti di un sistema semplice, nel quale ogni moneta era agganciata ad un certo valore in oro (la sterlina 113 grani, il dollaro 23,22, etc.) con la Banca Centrale che, a semplice richiesta, doveva cambiare in oro la moneta. Dunque i tassi di cambio tra le monete erano fissi. La stabilità era, conseguentemente, l’unico obiettivo delle Banche Centrali (senza distrazioni come “il pieno impiego o la crescita dell’economia”). Chiaramente nel contesto del Gold Standard, con il suo cambio fisso, “il problema più preoccupante era il modo in cui garantire che gli enti sovrani, e tra questi i mutuatari, rimborsassero i propri debiti” (non so se suona familiare). In particolare l’assenza di un tribunale internazionale, davanti al quale far valere il credito, rendeva unica sanzione il discredito, con conseguente mancato accesso ai mercati per qualche tempo, ma si tratta di una sanzione debole. La soluzione, con paesi come l’India o la Turchia ottomana erano ancora le cannoniere. Nel 1875 furono usate con il sultano che fu costretto ad accettare l’istituzione di una Agenzia extraterritoriale che gestiva i tributi e rimborsava i debiti. Nel 1882 si arrivò all’intervento militare diretto in Egitto (c’è anche un bel film). Nel 1905 lo fecero gli Stati Uniti a Santo Domingo per lo stesso motivo.
In definitiva, per Rodrik, “il Gold Standard e la globalizzazione finanziaria poterono funzionare unicamente nel quadro della politica del libero scambio, e grazie ad una combinazione singolare di politiche interne, sistemi di pensiero ed esecuzione forzata imposta da terzi” (anche qui: ricorda qualcosa?).
Ed alla fine il sistema è crollato (su questo l’analisi di Keynes) perché senza cambio restava solo la deflazione salariale, e questa si rivelò incompatibile con la democrazia man mano che si estendeva il suffragio. Lo “Standard” era incompatibile con la democrazia.

Tutto questo, malgrado citi le conclusioni di Rodrik, svuotandole del contenuto politico, non compare nella lettura mainstream di De Narsis; nella quale, sospetto, non esistono i gruppi sociali. E non esiste potere e interessi contrastanti. Allora descrive l’effetto della svalutazione relativa delle monete (attenzione, la svalutazione l’una rispetto alle altre, cioè quella derivante dalla fluttuazione dei cambi ripristinata) come una riduzione del potere di acquisto dei lavoratori –acquisita tramite il cambio- “che altrimenti si sarebbe dovuta ottenere con un aumento massiccio della disoccupazione”.
De Nardis è un economista esperto e una persona seria, un uomo d’onore, ma io ho dovuto rileggere più volte questa frase, perché non capivo. Proviamo a cambiare una parola: <l’effetto del cambio relativo [della svalutazione] delle monete determina una riduzione relativa del potere di acquisto dei lavoratori che altrimenti si sarebbe dovuta ottenere con un aumento massiccio della disoccupazione>. Così è più chiaro, il fenomeno non ha nulla a che vedere con il fatto che con il salario compro meno pane, o pago di più l’affitto, o i vestiti, o i libri; ma solo con il fatto che i prodotti stranieri mi costano di più (mentre i miei costano meno agli stranieri). Dunque che avviene una ricomposizione del paniere di acquisto e d’altra parte aumentano le esportazioni, dunque i posti di lavoro nelle relative aziende (per questo chi esce per primo ha più vantaggi, occupa i mercati). Voi capite che usare la parola “svalutazione” o quella “cambio” dà un’idea diversa, e può far sembrare, a chi legge in fretta, che qui ci si impoverisce. Invece è (o può essere) il contrario.

Anche dal grafico, (tra ci esce prima e chi dopo) si vede che comunque guadagnano tutti. Il Gold Standard era diventato una specie di freno a mano per l’economia (ma non per tutti).


Ciò che non dice De Nardis è che dopo l’uscita dal Gold Standard (31-32 e 35-36) ci furono enormi disastri (in effetti nel ‘39 ce ne fu uno), dimenticando che senza di esso ci sono stati anche i trenta anni di crescita più forte ed equilibrata del secolo scorso.

Con questo esempio illustra le “tre criticità” dell’uscita dall’Euro:
1-      politica, potrebbe mettersi in moto una reazione a catena che distruggerebbe la integrazione economica e quella politica, fino allo scontro. E’ un buon argomento, ma stilizzato in questo modo è altamente problematico: le tensioni degli anni trenta non derivano dalla rottura del gold standard, è molto più vero il contrario. Anche in questo caso se l’Euro si rompesse sarebbe per il mancato disciplinamento della volontà di potenza e di affermazione di alcuni che usano il legame monetario a senso unico.
2-      economica, se l’Italia uscisse per prima avrebbe i vantaggi di cui a suo tempo fruì l’Inghilterra. Ma ad un prezzo, dice De Nardis, della diminuzione dei salari reali (anche qui omette di sottolineare “rispetto ai competitori esteri”); della chiusura dei mercati finanziari e il controllo sui movimenti di capitale (su cui vale quanto prima detto); del ripristino del controllo del Tesoro, cioè del Governo Italiano, sulla Banca d’Italia e sul sistema del credito. Queste condizioni sono per il nostro “un salto indietro di quaranta anni” (il che è cronologicamente corretto, ma esprime una valutazione discutibile, perché “salto indietro”?) e sono incompatibili con i Trattati che determinano il mercato unico. Ora questo è vero, a Trattati fermi, o non reinterpretati, bisognerebbe uscire dall’Unione Europea. Ma va avanti, dicendo che “la crisi finanziaria, allontanata dal debito pubblico, si ripercuoterebbe sul resto dell’economia. I risparmi delle famiglie sarebbero erosi dall’inflazione e si avrebbero effetti negativi sui bilanci degli operatori privati (banche e imprese) che hanno posizioni debitore in valuta estera”. Sì, in effetti è probabile che una moderata inflazione potrebbe essere avviata (l’iperinflazione degli anni settanta era importata soprattutto dalle materie prime), ma molto difficilmente colpirebbe i capitali delle famiglie medie, che sono sostanzialmente case. Invece colpirebbe molto i percettori di rendite finanziarie e chi ha debiti all’estero. In cambio la ripresa della domanda interna e la competitività riconquistata verso gli amici del nord causerebbe una fortissima ripresa dei redditi da lavoro, dell’occupazione, degli investimenti industriali, della redditività del capitale in esso investito. Alla fine anche il sistema bancario, dopo una fase di turbolenza passeggero, se ne avvantaggerà. Non sarà facile, ma è l’alternativa che va valutata.
3-      tecnica, non sarà assolutamente facile riconvertire, se avviene traumaticamente e su questo De Nardis ha ragione.

Secondo lui questi tre fattori di criticità implicano “impossibilità”. Tuttavia “non in ogni circostanza”. Infatti se restare diventa troppo oneroso, “per persistenza della disoccupazione di massa ed un’estensione dei fenomeni di impoverimento, allora potrebbero formarsi maggioranze di cittadini, i cui interessi risultino più colpiti, indotti a ritenere sopportabili i costi politici, economici, tecnici di un’uscita”. Dunque “non si può fare troppo a lungo affidamento sull’altezza delle barriere all’uscita dall’Euro come pretesti per mantenere invariato il frame work politico ed economico”.
Fermiamoci, perché qui il valoroso scrittore mostra implicitamente da che lato parla: c’è qualcuno che si impoverisce ed è disoccupato che potrebbe formare una nuova maggioranza di interesse (evidentemente contro l’attuale), e dunque loro potrebbero considerare sopportabile l’uscita. Allora noi non dobbiamo fare troppo affidamento sui vincoli introdotti (cioè sui legami creati per impedire l’uscita) e restare in questo comodo frame work politico ed economico. Qui emerge una divisione in gruppi sociali. Improvvisamente si vede in trasparenza che c’è, in effetti, qualcuno che ha un assetto politico ed economico che lo avvantaggia e qualcuno che da questo stesso assetto perde. Sarà per questo che è stato imposto?

Il "Trilemma" di Dani Rodrik

A questo punto serve una direzione di azione possibile. E De Nardis ricorre a Dani Rodrik, citando il suo splendido libro del 2011. Propone quindi di allargare la “camicia di forza” (presenza di globalizzazione -cioè moneta unica- con sovranità nazionale, senza democrazia) attuale per evitare che non potendo arrivare all’optimum (Globalizzazione e democrazia senza Stato Nazionale, cioè Stati Uniti d’Europa), per evidente attuale indisponibilità, si arrivi al terzo corno del “trilemma” (cioè ripristino della sovranità nazionale e della democrazia a spese della globalizzazione, cioè dell’Euro).
In questo programma il Capo Economista di Nomisma, dice che bisogna:
-          agire sul Fiscal Compact (escludendo le spese di investimento);
-          rendere simmetrici gli aggiustamenti (cioè espandere in Germania mentre si contrare la spesa in Italia) in modo che le nostre imprese possano andare a “catturare” domanda resa disponibile all’estero;
-          alzare l’inflazione programmata oltre il 2% per un periodo limitato.

Chiude dicendo che “si tratta di modifiche su cui è facile prevedere opposizioni. L’alleanza e lo sforzo congiunto di convincimento da parte di Italia, Francia e Spagna –vale a dire dei tre grandi paesi più sensibili alle esigenze della crescita- sono condizioni essenziali per la loro realizzazione”.

Così si chiude l’articolo di De Nardis, con la parola chiave <convincimento>. Ritornando quindi sull’asse portante del suo ragionamento: la questione è cognitiva. Si tratta di un equivoco, di un errore, d’incomprensioni. Gli Stati Europei, presi come blocchi unici monolitici, stanno conducendo un generoso processo politico i cui strumenti economici non sono purtroppo del tutto funzionali e dunque “catalizzano” conflitti.

Le cose sono altamente diverse: la questione al centro della scena è il potere che il dispositivo della globalizzazione (di cui l’Euro è strumento perfettamente coerente) distribuisce dal basso verso l’alto entro i corpi sociali nazionali e tra i paesi europei.
Dimenticare che l’austerità, e tutte le scelte che questo esattamente previsto dispositivo provocano, è da leggere in questo quadro (cioè che è un mezzo per sottomettere dentro e fuori) significa prestarsi ad un nascondimento. Cioè a nascondere il vero problema dell’Euro. E dunque anche la sua eventuale soluzione che non può passare attraverso accordi tra le èlite che esprimono i diversi governi nazionali, ma solo attraverso la ripresa della democrazia.
Una pressione da basso.


In sintesi a me pare che il vero problema dell’Euro sia più nascosto che mostrato da questa analisi. Il problema è chi considera e prevede, chi decide e per quali interessi, per quale potere; ed anche a chi viene messa la cera nelle orecchie. 

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