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sabato 7 giugno 2014

Angelo Panebianco, “Dietro la scelta di un Presidente”


Il politologo Angelo Panebianco, per il Corriere della Sera, firma un editoriale sulla questione della scelta del Presidente della Commissione Europea. Come ha scritto anche Habermas su La Repubblica, in questa scelta è in gioco molto.
Il punto di vista di Panebianco e quello di Habermas non potrebbero essere più diversi, il primo è un politologo influenzato da Mosca e da Aron, quindi dalle teorie elitiste della democrazia, il secondo è il principale teorico della democrazia deliberativa, ed ha posizioni chiaramente opposte, ma c’è un “punto zero” su cui concordano (e tra l’altro ritrovano persino la sinistra radicale di Syriza): la scelta del prossimo Presidente della Commissione, almeno nel primo giro di consultazioni, deve ricadere sui candidati presentati a noi tutti cittadini durante il voto.

Nel sito della UE che riassume la legislazione europea la procedura è descritta così: “La procedura di nomina del presidente della Commissione rimane immutata: viene proposto dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata e poi viene approvato dal Parlamento europeo. Tuttavia il trattato di Lisbona introduce una novità poiché stabilisce un legame diretto tra i risultati delle elezioni del Parlamento europeo e la scelta del candidato alla presidenza della Commissione. Il Consiglio europeo deve tenere conto dei risultati al Parlamento quando designa la personalità che intende nominare quale presidente della Commissione. Tale modifica aumenta il peso del Parlamento nella nomina del presidente e dunque rafforza la posta in gioco politica legata alle elezioni europee.
Il Consiglio, di comune accordo con il presidente eletto adotta l’elenco di personalità che propone di nominare membri della Commissione, eccetto l’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. I membri della Commissione sono scelti sulla base delle loro competenza generale e della loro indipendenza. Il trattato di Lisbona aggiunge un nuovo criterio relativo al loro impegno europeo”.

Dunque il Consiglio Europeo, a maggioranza qualificata (il che esclude che la Gran Bretagna possa, come tutte le altre volte, esprimere semplicemente un veto), indica il candidato Presidente che però deve ottenere la fiducia del Parlamento Europeo appena nominato. Inoltre il Trattato, seguendo un evidente compromesso tra un vincolo più forte e la completa libertà, dice che deve “tenere conto” dei risultati delle elezioni.
Ma qui nasce il problema, perché (con una decisione molto contrastata) alle elezioni i Partiti europei hanno candidato dei “capilista”, raccontando in modo semplificato che erano i “candidati al ruolo di Presidente della Commissione”. Dunque se io ho votato un Partito apparentato in una famiglia politica che esprimeva un candidato ho dato indicazione per avere quel Presidente della Commissione. Non è un vincolo legale, ma conta.
Come scrivono sia Habermas sia Panebianco, scegliere altrimenti danneggerebbe ulteriormente la fiducia nella possibilità di creare una democrazia che risponde ai cittadini. Senza questa fiducia lo scontro tra “più Europa” e “meno o nessuna”, rischia di essere arruolato come scontro tra “democrazia o oligarchia”. In quel caso la scelta sarebbe fatta.

Questa è, quindi, effettivamente una “partita” che influenza il nostro destino. Ieri alcuni intellettuali hanno sottoscritto un Appello, anche essi pubblicato sul Corriere della Sera; tra i firmatari Zygmunt Bauman, Ulrich Beck, Lorenzo Bini Smaghi, Paul De Grauwe, Anthony Giddens, Jürgen Habermas, Christian Lequene, Gianfranco Pasquino, Costantinos Simitis, Hans-Werner Sinn, Mario Telò, Nadia Urbinati. Riprendo il passaggio chiave di questo appello: “le famiglie dei partiti europei hanno presentato dei candidati per la Presidenza della Commissione prima delle elezioni. I candidati si sono confrontati in una campagna rigorosa attraverso tutto il continente. Ci sono stati diversi dibattiti televisivi in diretta tra i candidati e i media hanno informato delle loro posizioni. E, cruciale, i candidati hanno discusso il tema della direzione dell’UE”.

A questo punto la prima indicazione, coerente con le indicazioni dei cittadini sovrani europei, è designare il lussemburghese Jean-Claude Juncker come Candidato Presidente della Commissione. Chiaramente se il Partito Popolare, in Parlamento, non trovasse i voti sufficienti per eleggerlo (è necessario un compromesso con altre forze), bisognerebbe proseguire con gli altri candidati presentati a partire da Schultz, per poi –ma solo a quel punto- tentare altre vie.

Non concordo con Panebianco nel dire che “Junker è il candidato che dispone di una maggioranza parlamentare”, perché –semplicemente- non ne dispone, o meglio (e questo è quel che voleva dire, ma è meglio essere precisi) ha la “maggioranza relativa”. Tuttavia mi sembra corretto dire che “il famoso «deficit democratico» dell’Unione non scomparirebbe ma si farebbe comunque un passo importante per ridurlo: la Commissione diventerebbe espressione di una maggioranza parlamentare e, quindi, di qualcosa che assomiglia alla sovranità popolare (dico «assomiglia», perché le elezioni europee sono ancora assai diverse da quelle politiche nazionali)”.
Nel suo articolo Panebianco, però, prosegue evidenziando altri aspetti del dilemma che si presenta agli organi decisionali, ed allo stesso Parlamento (e rende probabile un fallimento della candidatura): “si dà il caso che Juncker sia anche la massima espressione della continuità, l’ortodossia europeista fatta persona. Non è l’uomo a cui affidarsi per cercare soluzioni innovative allo scopo di salvare un’Unione squassata da nazionalismi e da proteste antieuropee”. L’innovazione istituzionale in direzione di una procedura più democratica (e la democrazia è soprattutto procedura) si quindi contrappone ad una scelta di continuità politica. Il Partito Popolare, nello sceglierlo ha optato per una reazione difensiva.
Entrambi i fattori ispirano l’opposizione di Cameron (ma il primo sicuramente prevale, in quanto la Gran Bretagna si è sempre opposta ad un allargamento dell’Unione Europea verso un superstato che non sono in grado di accettare per profonde ragioni storiche ed identitarie). Secondo la previsione del Premier, la Gran Bretagna, insomma, se ne andrebbe (magari perdendo la Scozia nel passaggio).

Come correttamente scrive Panebianco, la questione diventa in questo modo ancora più grande (se possibile): vogliamo un’Unione Europea che includa la Gran Bretagna (e la sua Borsa, la sua marina, la sua autorità e prestigio) o che la escluda? Lasciandola andare verso gli USA?
Vogliamo, cioè, rientrare nello schema “continentale” (che prima la Francia, a cavallo della rivoluzione e delle guerre napoleoniche, e poi la Germania, dall’unificazione del 1870 alla seconda guerra mondiale, hanno perseguito)? Oppure insistere nello sforzo di unire gli europei dal mare al confine russo? E se lo vogliamo: perché? Per inseguire un sogno di potenza, una semi-egemonia, o per difendere un modello sociale in modo più efficace?

E qui le cose si fanno complesse. Perché ha ragione il politologo: “non sappiamo bene quale Europa stiamo costruendo né quale Europa vogliamo”. In effetti questo è un sottoprodotto dell’approccio “incrementale” ed elitista, che rifiuta di discutere pubblicamente le questioni e procede a corto raggio su compromessi di giornata. Ancora in questo passaggio, ci ricorda lo studioso di Mosca, “i politici europei hanno ora da affrontare questioni pressanti e pratiche (quale compromesso trovare fra le esigenze tedesche e quelle degli altri Paesi?), non spetta loro il compito di filosofare”. Peccato che a nessuno resti questo compito che sarebbe estremamente necessario. Se il modello di Unione che Juncker rappresenta (pur nell’innovazione procedurale che la sua elezione implicitamente significherebbe), è lontano da “federalismo”, quale è la direzione?
Krugman dice che gli “europei sono una razza sottile”. Ma che (con l’Euro e la programmazione “a pilota automatico” della BCE, espressione del compromesso Francia-Germania) “questa volta si sono messi in un angolo molto stretto”. Anche in questo passaggio lo vediamo chiaramente.

Panebianco, che in quanto europeo è certamente “sottile”, dice che abbiamo apparentemente davanti l’alternativa tra due modelli (orientativi):
-          il Sacro Romano Impero “in salsa repubblicana” (e solo parzialmente democratico);
-          la Lega Anseatica.

Sul primo paragone, implicitamente evocato anche in un testo di Habermas del 1991 come avevamo notato, pesa la perdita di peso e ruolo della Francia, la “Marca Francese” non potrebbe infatti accettare di essere subalterna in un impero continentale che dovrebbe invece reggere sul compromesso e l’equilibrio –politico, sociale ed economico- con la “Marca Tedesca”. Bene fa Panebianco a ricordare che il progetto europeo, nel suo sogno di potenza, nasce su questo compromesso che è revocato dall’unificazione tedesca. Questa, infatti, sposta radicalmente gli equilibri sia perché crea di nuovo una potenza demografica ed economica prevalente al centro dell’Europa, sia –e forse soprattutto- perché sposta ad oriente lo sguardo.
La “progressiva riesumazione di un composito impero continentale caratterizzato da un mix confuso di centralismo burocratico e di autonomie (statali) gestionali”, è insomma ormai “fuori agenda”.

Credo che abbia abbastanza ragione Panebianco nel dire che gli “Stati Uniti d’Europa”, fino ad ora, non sono mai stati nell’Agenda (malgrado alcuni proclami). Ma ciò non significa non possano entrarci, anche se con i tempi necessari (che nel molto più semplice caso Americano ha richiesto secoli e guerre).

Resta, secondo il politologo la “Lega Anseatica”.

Lega Anseatica

Se l’impero continentale avrebbe dovuto lasciar andare l’Isola, e prendere il suo ruolo di potenza rivale della costellazione anglosassone (ed in tal senso è sempre stata osteggiato, con la necessaria sottigliezza che si adatta agli europei, dall’Inghilterra ma anche dagli USA), la Lega Anseatica potrebbe convivere con orgogliosi Stati Nazione. Il ricordo è infatti al “Raggruppamento” (Hanse) di città libere ed indipendenti che si aggregano in alleanze commerciali e politiche in un processo dal basso (mosso da mercanti) che prende forma lentamente e arriva a comprendere 100 città incluso Napoli (aderente alla Lega Anseatica dal 1164). Questa strana formazione, con un suo esercito, una sua capacità negoziale ed enorme forza commerciale ed economica conviveva con il potere politico Imperiale. Ed è durato molto a lungo: l’ultima “dieta” della Lega, che implose per lotte intestine e nuove rivalità esterne vide solo tre città: Lubecca, Amburgo e Brema. Era il 1669.
Non mi è molto chiaro cosa intenda esattamente Panebianco, quando scrive: “come fu nel caso dell’Hansa, della Lega anseatica, le flessibili confederazioni possono svolgere un grande ruolo politico. Fare quella scelta sarebbe un modo per tenere dentro la Gran Bretagna, riconciliare gli elettori con un’Europa meno invadente, rispettare le diversità che la arricchiscono, e assicurarle un posto nel mondo”.

Se capisco il politologo italiano sembra, sul filo del parallelo storico, indicare una via di uscita dal dilemma in retromarcia. Un “meno Europa” che riconduce il Progetto di Unificazione ad una rete mutevole di accordi tra organismi politici indipendenti, solo su alcuni temi; accompagnati da accordi di mutuo soccorso, anche militari; con forti legami commerciali ma debole uniformità politica. Su questa linea, mi pare, bisognerebbe rinunciare all’Euro (la cui logica è chiaramente quella di un governo comune dell’economia e di trasferimenti solidaristici compensativi, come mettono in evidenza praticamente tutti) e ricalibrare profondamente competenze e Trattati. Significherebbe anche accettare (“disfattisticamente” direbbe Habermas) che l’oggetto centrale del nostro stare insieme è economico e commerciale.

E’ possibile che “il nome del prossimo presidente della Commissione aiuterà forse a capire quale strada intraprenderemo”, ma sinceramente vorremmo discuterlo pubblicamente. In questo senso la proposta italiana di parlare prima del programma e poi del nome (pur nel suo sapore di compromesso e guadagno di tempo) potrebbe essere utile, purché la discussione si faccia nel Parlamento Europeo e non solo nell’Eurogruppo.


Il luogo in cui i miei figli passeranno l’intera esistenza dipende da questo.

1 commento:

  1. Poiché mi pare, da alcuni commenti su Twitter, che si possa equivocare il senso del mio pensiero, preciso che il "disfattismo" (che tra l'altro come termine suona di scontro e militanza) è da attribuirsi solo alle ragioni per stare insieme, che per me persistono ma devono andare molto oltre le ragioni meramente economiche. Per me quello europeo è un vincolo di destino e culturale profondo. una comunanza che affonda nella condivisione di una storia e di una fratellanza. Nasce dall'avere uno sguardo simile, pur nella diversità, una vicinanza. Avere eroi e santi in comune.

    Non si estende alla protezione e difesa dell'Euro. Che è solo uno strumento, in alcuni sensi un'arma. E un equivoco. Io non credo che l'eventuale suo abbandono porti necessariamente al fallimento del progetto di unione e al precipitare nel rancore dei popoli europei. Molto dipenderebbe da come potrebbe succedere.
    In un certo senso (in questo la tragicità della attuale situazione) non recedere dall'Euro in modo ordinato potrebbe portare alla tragedia, se la corda continua a tendersi.

    Infine, credo che dovremmo aprire una ampia discussione democratica, nei Parlamenti e nella società, sul destino comune dell'Europa. E dovremmo convocare in tempi rapidi una Assemblea Costituente, i cui lavori siano aperti alla discussione pubblica con i potenti strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, per riscrivere radicalmente i Trattati.

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