Importante libro-arringa (come
recita il sottotitolo) di Jurgen Habermas
sulla situazione del Progetto Europeo, scritto poco prima delle elezioni
europee, nel quale il filosofo tedesco fondamentalmente intende porci di fronte
alla visione del bivio drammatico nel quale i cittadini europei tutti, e le
élite del vecchio continente, sono per gli errori che hanno fatto, in
particolare dal 1989 ad oggi; si tratta di scegliere tra: danneggiare il
progetto dell’Unione Europea, rinunciando all’Euro, o rompere ogni indugio e
approfondire subito l’Unione Politica.
Il motivo per il quale la “rinuncia” all’Euro
sia un danno “irresponsabile” al progetto dell’Unione Europea è spiegato di
passaggio a pag. 77: e fonda in effetti sulla causa del fallimento, più che
sulla sua perdita in sé. Per Habermas infatti se l’Euro viene “lasciato
fallire”, per incapacità di fare il passo verso l’Unione Politica (che esso
rende indispensabile, sembra di capire, con la forza della sua logica
economica), e cioè a causa “dell’irriducibilità degli egoismi nazionali”, ciò
sarebbe “molto demoralizzante” e darebbe il via allo scatenamento di tutti i
populismi. In altre parole, il fallimento della Moneta Unica, è da temere soprattutto
per la dinamica politica e sociale che scatenerebbe e per il rischio (di cui il
richiamo alla “responsabilità”) che determini lo scivolamento dell’intera
Unione Europea in questo “gorgo”. Potrebbe essere messo a repentaglio il
risultato, certo incompleto, di cinquanta anni di conquiste fortunate e forse
irripetibili (a meno di aspettare prima un’altra guerra mondiale fratricida).
D’altra parte, più profondamente, la
desiderabilità dell’Unione Europea poggia non tanto sul rischio della vera e
propria guerra in Europa ma sulla certezza che senza di essa per i popoli
europei e per le tradizioni politiche e sociali che hanno faticosamente (e
talvolta dolorosamente) costruito, non resterebbe possibile difendersi e
restare padroni del proprio destino.
In che senso il filosofo della Democrazia
Deliberativa dice questo? Non nel senso della politica
di potenza, che talvolta sembra emergere nelle pieghe di alcuni discorsi
(cioè nel senso della competizione per la distribuzione delle sfere di
influenza, o dei ruoli negli organismi internazionali, o dei mercati); lo dice invece
nel senso del superamento di quell’auto-esautoramento
della politica, promosso dal progetto liberale radicale contro il quale sia lui
stesso sia autori come Wolfgang Streeck spendono da anni le loro parole. In
altre parole, la dimensione europea, dato il livello delle sfide e delle forze
in campo scatenate dal grande capitale internazionale, è il livello minimo al
quale si può guidare un contrattacco per recuperare il terreno perduto. Per
riprendere, cioè, in mano gli strumenti che consentano di agire collettivamente
in modo intenzionale (cioè razionale
e voluto) sulle condizioni di esistenza della comunità e sulla storia. Per
togliere, ancora in altre parole, “il manico del coltello” dalle mani dei
mercati finanziari, riportandolo nelle nostre mani collettive.
Non riuscire in questo significa perdere
l’occasione per mobilitare “i potenziali di razionalizzazione e
socializzazione” della dinamica democratica, restando intrappolati in una
politica autoreferente facilmente catturabile da interessi costituiti ed
incapace di prendere sul serio la giustizia sociale. Una politica che, nella
sua assoluta impotenza, è totalmente “in balia dei mercati”. Questa strada
post-democratica infatti si “adatta passivamente” ad essi e fallisce nella
funzione di regolarli. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.
Ma Habermas non nasconde l’estrema difficoltà
dell’azione: per salvare insieme il Progetto Europeo e l’Euro occorre “dar[gli]
legittimità democratica, oltrepassando le frontiere, ai trasferimenti di valuta
ed alla messa in comune dei debiti” (H.,p.4). Per riuscirci è indispensabile
riuscire a cambiare prospettiva del <noi>, e generalizzare gli interessi
a livello europeo, evitando sia gli “antichi fantasmi” che una rinnovata
centralità tedesca evoca in molti, sia le “tentazioni” che evoca nella stessa
Germania.
Ciò che serve è un cambio radicale di approccio,
farla finita con la strategia del “piano inclinato” che conta sulla potente costrizione
sistemica del modello tecnocratico e mercantilista per costringere le
forme-di-vita nazionali ad uniformarsi ed in particolare spingere le culture
economiche del sud ad appiattirsi su quelle del nord. Questa “omogeneizzazione
forzata dei contesti di vita” derivante da una politica che si conforma al mercato, e si piega alla
concorrenza del più forte, deve essere contrastata da una politica che, al
contrario, si conforma alla democrazia.
D’altra parte occorre anche farla finita con
<i signori dei Trattati>; cioè con quella forma di governance
sovranazionale che deriva dal compromesso tra <pragmatistici>,
<tecnocrati> e <liberisti> che ha sino ad ora governato gli organi
europei (p.20).
Nel quadro delle forze potenti che si muovono
sul terreno europeo, Habermas prende parte, insomma, per quelli che chiama
<propugnatori dell’addomesticamento della finanza>, e per tale ragione difende il percorso di
unificazione sia contro i <liberisti> (che pure lo promuovono per diverse
ed opposte ragioni) sia contro le tre forze che ad esso si oppongono: <gli
ordoliberali>, i <repubblicani> ed i <populisti di destra> (i
primi vogliono uno Stato Nazionale, ma “leggero”, i secondi e terzi lo vogliono
“forte”).
Passando sul piano pratico per Habermas il
percorso da fare passa per (p.23):
- Una decisa Unione
Politica che passi per una necessaria differenziazione tra un nucleo già
pronto ed una periferia che, per diversi motivi, non lo è; caso particolare e
sensibile è quello della Gran Bretagna, oggetto in questo momento di notevoli
fibrillazioni;
- Una comune
politica fiscale, di bilancio ed economica porterebbe oltre <la linea
rossa> del tradizionale concetto di sovranità. Ma non significherebbe andare
verso gli Stati Uniti d’Europa, per i quali non è presente il necessario
consenso, ma produrre una nuova comunità soprastatale e democratica al
contempo, che lascia il funzionamento degli Stati nazionali (con il monopolio
della violenza legittima e l’amministrazione implementante le leggi).
- Il “metodo
comunitario” che dovrebbe affermarsi tramite un riparto delle competenze
che superi la <intergovernamentalità> oggi espressa dal Consiglio
Europeo, e sarebbe da preferirsi sia per
ragioni normative (l’accordo tra governi, dal punto di vista del singolo
cittadino dello Stato, è sempre a rischio di essere percepito come
eterodirezione ed alienazione, in quanto imposta da “governi esteri” che non
rispondono ad esso tramite le elezioni), sia
per ragioni di efficienza (proprio perché consente di superare la dinamica
particolaristica ed i giochi a somma zero propri dei tavoli di trattativa nelle
stanze chiuse). Ancoraggio di tale metodo dovrebbe essere il Parlamento Europeo
a suffragio diretto, nel quale la dinamica politica si formi però secondo linee
culturali e ideali (cioè politiche) e non nazionali.
Ciò che serve è dunque una nuova “Assemblea Costituente”, che può essere
chiamata solo con il pieno ed attivo assenso della Germania.
In questo contesto è chiaro che i partiti
dovrebbero prendersi il forte rischio, cui non sono più abituati da tempo, di
trattare esplicitamente e francamente questi temi sulla sfera pubblica ed
affrontare un reale conflitto di interessi e volontà. Ma solo così potrebbero
mobilitare la necessaria forza motivante e scatenare il potenziale normativo e
cognitivo delle tornate elettorali. In piccola parte si è visto in questa
tornata, in cui il dibattito ha visto diverse posizioni scontrarsi e
prospettive essere evocate.
A questo punto resta da raccontare quello che è
probabilmente il centro del testo: il confronto con le posizioni di Wolfgang Streeck. Come noto Habermas ha
intrecciato da tempo un confronto dialettico molto produttivo con il suo
vecchio amico e collega (di sociologia) al quale rimprovera un “disfattistico”
ritirarsi dietro le paratie ex stagne (ormai trapassate) dello Stato Nazione,
per difendere la coesione sociale e il modello economico (che a tratti
identifica con il classico compromesso “Renano”) aggredito e messo fuori gioco
dalle costellazioni di potere contingenti che si sono affermate negli ultimi
trenta anni. Streeck tende a vedere l’Unione Europea come <becchino della
democrazia> (come afferma in
alcune interviste) e il gioco del “tempo supplementare”, nel
quale si possa finalmente affermare una democrazia sovranazionale, un
autoinganno nel quale indugiano le forze progressiste da almeno trenta anni ed
al quale egli non intende più partecipare. Nell’alternativa tra ricostruire una
democrazia per la globalizzazione (come a suo parere vorrebbe Habermas) e
rimontare l’economia ed i mercati intorno alla democrazia (nazionale), Streeck
sceglie con decisione la seconda strada.
A questa posizione, non priva di una dolorosa
fattualità, Habermas oppone una diversa visione (anche disciplinare); in favore
del progetto europeo preso al suo meglio milita quello che il filosofo chiama
“l’effetto chiavistello” delle norme costituzionali (come quelle Portoghesi che
resistono efficacemente ai ditkat della Troika, ma anche quelle tedesche in più
occasioni) in vigore, e del “complesso democratico già di fatto esistente”.
Cioè quel che rende possibili queste stesse parole che state leggendo: “la
persistenza di istituzioni, regole e pratiche consolidate e ancorate nelle
culture politiche” (P.59).
Chiaramente il filosofo francofortese è ben
cosciente dei nessi economici tra l’Euro
e lo stato di crisi permanente nel quale è caduta l’Unione Europea; in
proposito cita Stiglitz, Fritz
Scharpf, e Henrik Enderlein.
Un’Unione Europea “conforme-a-democrazia” si
dovrebbe però distinguere da un esecutivo federale “conforme-a-mercato” per due
cose: l’esistenza di un progetto politico di fondo (con correlati
trasferimenti) e il cambiamento del Trattato
di Lisbona per rendere possibile una nuova architettura istituzionale
basata su Parlamento e Consiglio posti sullo stesso piano ed entrambi dotati
del ruolo legislativo con la
Commissione tenuta a rispondere ad entrambi.
Come noto Streeck oppone
una nutrita serie di argomenti a questa prospettiva: oltre allo scetticismo sul
“principio di speranza” che anima Habermas, troviamo l’acuta percezione dell’insostenibilità
della “trappola monetaria” verso la quale i paesi del sud si sono incamminati,
insieme al calcolo della fisica insostenibilità di trasferimenti da parte di 163
milioni di cittadini europei che hanno un reddito medio pro capite di 31.000
euro verso 128 milioni con un reddito di 28.000 euro. L’ordine di grandezza è
semplicemente troppo ampio.
Ma anche se lo fosse non sarebbe neppure
desiderabile, perché lo schiacciamento del modello sociale ed economico del sud
su quello del nord sacrificherebbe forme-di-vita autonome senza avere la
legittimazione di un <popolo europeo> al quale legare la legittimità dell’operazione.
A queste obiezioni, Habermas propone
la sua “politica di attacco” e il
carattere intrinsecamente artificiale del <popolo sovrano> (costruzione
storica condotta nel corso dell’ottocento, con abbondanti dosi di progettualità
e logica del nemico esterno). Inoltre propone di valorizzare la fondamentale
distinzione tra “decisioni che si conformano
al mercato” e “decisioni che si
conformano alla democrazia”.
Cioè di fare affidamento su un potere
costituente, capace, sulla base delle premesse iscritte nella nostra cultura e
memoria oltre che nei testi e delle istituzioni, di un movimento autonomo di universalizzazione,
astrazione e anche di operare in modo decentrato. Quando necessario di farlo “nel
piccolo taglio” di decisioni e mobilitazioni in grado di far saltare la
capacità di ricatto tra Stati Nazionali e sistemi bancari.
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