Anche se è stato
più volte detto sulla soglia di ogni grande accelerazione del ritmo
tecnologico, si intravede ancora una volta una trasformazione essenziale dei
rapporti di riproduzione sociale, quindi della stratificazione e del potere, mossa
da quella autentica “seconda natura” (o prima) che è per l’uomo la tecnologia.
Le modalità di
produzione e distribuzione stanno cambiando in modo irresistibile e sempre più
accelerato; il movimento ha preso il via alla metà degli anni settanta, con la
rivoluzione informatica, e ha preso sempre più impeto con le nuove forme di
comunicazione e di intelligenza diffusa. L’interconnessione sta facendo fare
alla dinamica un salto quantico i cui effetti si disseminano intorno a noi in
tutte le direzioni. Questa crisi, che affonda almeno le sue radici all’inizio del
millennio, ma direi che si manifesta anche nella finanziarizzazione (resa
percepibile dalle crisi asiatiche degli anni novanta) sempre meno resistibile
in questi anni dieci e nei suoi effetti sistemici, è effetto di questi
sommovimenti.
Io non credo che
la tecnologia sia destino, essa è comunque un costrutto umano anche se ci costituisce
in certo senso, ma certamente dispiega una potenza immensa alla quale non è
dato resistere senza
danno.
E’ già successo
che una disponibilità tecnologica, con l’immenso potere distruttivo e creativo
che porta con sé abbia accelerato lo scarto di interi popoli e territori, di
biografie e categorie non più utili, perché indisponibili o inadatti. E’ già
successo che questa devastante modifica dei fondamenti dell’esistenza sociale
ed individuale creassero milioni di disoccupati, di disadattati, di respinti;
che svuotassero interi territori; che attivassero movimenti di popolazione,
dolore e persino guerre.
E’ già successo
che dopo alcuni anni, o decenni, di crisi sia emerso, prima in alcuni luoghi
esemplari e poi allargandosi e codificandosi in altri, un nuovo ordine. E che
questo abbia portato con sé nuovi livelli di istruzione, nuovi saperi, nuovi
rapporti sociali e di classe, assetti di potere e dominazioni. Spesso un nuovo
egemone politico internazionale.
E’ successo
molte volte, solo nella storia europea si può registrare, così a semplice
memoria: la transizione sanguinante tra il disfunzionale tardo impero romano e
il nuovo assetto romano-barbarico e poi da questo all’equilibrio medioevale; la
crisi terminale dell’assetto medioevale e dei suoi modi di produzione nella
guerra dei trent’anni; la prima industrializzazione tra seicento e settecento;
quella nella prima metà del settecento; l’accelerazione, dovuta a nuovi regimi
energetici della prima metà dell’ottocento; la crisi degli anni venti-trenta.
Ogni volta
abbiamo visto cambiare insieme assetti sociali, stili di vita e biografie
caratteristiche, modi di produzione, sistemi politici e sistemi di dominazione.
Ma forse ciò che
sta succedendo ora, di cui vediamo a stento il primo vagito, è nuovo. Si
affaccia sulla scena, per via della “protesi” al nostro organo più potente che
la tecnologia ora mette a nostra disposizione, una inedita capacità di produrre
ogni cosa senza quasi più il contributo dell’uomo nel processo. A questa produzione
de-antropomorfizzata si sta affiancando, accelerando gli effetti, la
possibilità ancora più dirompente di organizzare ed erogare anche i servizi
connessi con le stesse modalità. Quando l’aggiunta tecnologica, come ogni pharmakon contemporaneamente aiuto e veleno, si applica al cervello (e non più
alle mani, ai muscoli, alle gambe, estendendone la portata ed efficacia) l’effetto
è potenzialmente completamente spiazzante.
Le tecnologie
labor-saving hanno ormai la potenzialità di estendersi ad ogni settore: la
distribuzione, la produzione di beni, l’organizzazione, il management, l’intermediazione,
l’istruzione. In ognuno di questi la meccanica è la stessa, serializzare e
automatizzare in modo ormai intelligente tutti i compiti ripetitivi e
tipizzabili, eliminando tutti i relativi lavoratori, lasciando solo le skill
più elevate in campo (per ora).
Anche il rifugio
dei servizi di cura alla persona temo sarà assediato ed eroso progressivamente,
e comunque è un rifugio povero.
Anzi, come
risulta ormai da numerose analisi convergenti, questa dislocazione, verso l’alto
ed il basso, delle skill ancora utilizzabili è uno dei motori principali della
ineguaglianza che sta scavando sotto le fondamenta delle nostre società.
Cosa potrebbe comportare questa grande
trasformazione? Come è ovvio è
molto difficile dirlo mentre è ancora al suo avvio. Potrebbe portare alla fine
della centralità del lavoro salariato (che è una figura storica di rapporti
sociali che ancora nella prima metà dell’ottocento era quantitativamente marginale);
potrebbe più radicalmente portare alla ricostruzione di una economia del tempo
liberato e della gratuità; giungere ad una economia della reciprocità.
Cosa intanto comporta? Uno dei più eleganti teoremi dell’economia
mainstream dice che in questi processi di dislocazione, provocati da guadagni
di produttività trainati dalla tecnologia, ciò che si perde in un settore
obsoleto e inefficiente viene subito recuperato in uno nuovo e più efficiente.
La società complessivamente ci guadagna. Ne abbiamo già parlato, questo modo di
pensare –figlio della metafisica occidentale, direbbe qualcuno- evita
programmaticamente di fare i conti con l’attrito. Con il tempo e con lo spazio.
Con il fatto che l’espulso da una catena di montaggio nella periferia di Torino
non ha le competenze, le risorse, l’opportunità di ricollocarsi come
sviluppatore free lance di apps per I-Pad. O come grafico in una software house
dedita ai giochi in Polonia. Che il territorio torinese, con troppo ex
lavoratori disoccupati, o pensionati, degraderà ed entrerà in crisi fiscale, i
servizi alla persona caleranno e ciò renderà ancora più difficile aiutare le riconversioni
abbandonate alle singole forze degli individui. Forze palesemente
insufficienti, come ci continua a dire con commovente ostinazione Bauman.
La tecnologia
che ci
sta condannando potrebbe salvarci se capissimo il quadro
generale. Keynes negli anni trenta lo aveva già
intuito, Robert
Kennedy con parole poetiche ce lo ha indicato, più d’uno
generosamente, anche
sbagliando, sta cercando la strada.
Quel che penso è
che l’ineguaglianza che sta scavando solchi nelle nostre società potrebbe
essere la levatrice di un nuovo assetto duale.
Nel quale siano
compresenti due modelli di vita e stili di esistenza:
-
Il primo,
espressione di una cultura post-produttiva e post-consumistica per chi preferirà
disconnettersi dal flusso della produzione sempre più veloce ed inumano;
-
Il secondo,
iperveloce, ipercompetitivo, flessibile e rischioso, ma anche creativo ed eccitante,
per chi resterà connesso.
Perché i due
modelli non siano la base di una nuova lotta di classe è necessario che lo
Stato recuperi la propria capacità di progettazione politica e sociale, riesca
a garantire il dividendo sociale messo a disposizione dalla nuova modalità di
produzione in-umana, impedendo
che resti ad accumularsi tutto nelle mani dei “connessi”. Sarà poi l’uomo a trovare
la sua strada.
Ciò di cui
abbiamo urgente bisogno è di un nuovo compromesso sociale.
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