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venerdì 27 giugno 2014

Appunti per il futuro: la fine dell’homo faber


Anche se è stato più volte detto sulla soglia di ogni grande accelerazione del ritmo tecnologico, si intravede ancora una volta una trasformazione essenziale dei rapporti di riproduzione sociale, quindi della stratificazione e del potere, mossa da quella autentica “seconda natura” (o prima) che è per l’uomo la tecnologia.
Le modalità di produzione e distribuzione stanno cambiando in modo irresistibile e sempre più accelerato; il movimento ha preso il via alla metà degli anni settanta, con la rivoluzione informatica, e ha preso sempre più impeto con le nuove forme di comunicazione e di intelligenza diffusa. L’interconnessione sta facendo fare alla dinamica un salto quantico i cui effetti si disseminano intorno a noi in tutte le direzioni. Questa crisi, che affonda almeno le sue radici all’inizio del millennio, ma direi che si manifesta anche nella finanziarizzazione (resa percepibile dalle crisi asiatiche degli anni novanta) sempre meno resistibile in questi anni dieci e nei suoi effetti sistemici, è effetto di questi sommovimenti.
Io non credo che la tecnologia sia destino, essa è comunque un costrutto umano anche se ci costituisce in certo senso, ma certamente dispiega una potenza immensa alla quale non è dato resistere senza danno.

E’ già successo che una disponibilità tecnologica, con l’immenso potere distruttivo e creativo che porta con sé abbia accelerato lo scarto di interi popoli e territori, di biografie e categorie non più utili, perché indisponibili o inadatti. E’ già successo che questa devastante modifica dei fondamenti dell’esistenza sociale ed individuale creassero milioni di disoccupati, di disadattati, di respinti; che svuotassero interi territori; che attivassero movimenti di popolazione, dolore e persino guerre.
E’ già successo che dopo alcuni anni, o decenni, di crisi sia emerso, prima in alcuni luoghi esemplari e poi allargandosi e codificandosi in altri, un nuovo ordine. E che questo abbia portato con sé nuovi livelli di istruzione, nuovi saperi, nuovi rapporti sociali e di classe, assetti di potere e dominazioni. Spesso un nuovo egemone politico internazionale.
E’ successo molte volte, solo nella storia europea si può registrare, così a semplice memoria: la transizione sanguinante tra il disfunzionale tardo impero romano e il nuovo assetto romano-barbarico e poi da questo all’equilibrio medioevale; la crisi terminale dell’assetto medioevale e dei suoi modi di produzione nella guerra dei trent’anni; la prima industrializzazione tra seicento e settecento; quella nella prima metà del settecento; l’accelerazione, dovuta a nuovi regimi energetici della prima metà dell’ottocento; la crisi degli anni venti-trenta.
Ogni volta abbiamo visto cambiare insieme assetti sociali, stili di vita e biografie caratteristiche, modi di produzione, sistemi politici e sistemi di dominazione.

Ma forse ciò che sta succedendo ora, di cui vediamo a stento il primo vagito, è nuovo. Si affaccia sulla scena, per via della “protesi” al nostro organo più potente che la tecnologia ora mette a nostra disposizione, una inedita capacità di produrre ogni cosa senza quasi più il contributo dell’uomo nel processo. A questa produzione de-antropomorfizzata si sta affiancando, accelerando gli effetti, la possibilità ancora più dirompente di organizzare ed erogare anche i servizi connessi con le stesse modalità. Quando l’aggiunta tecnologica, come ogni pharmakon contemporaneamente aiuto e  veleno, si applica al cervello (e non più alle mani, ai muscoli, alle gambe, estendendone la portata ed efficacia) l’effetto è potenzialmente completamente spiazzante.
Le tecnologie labor-saving hanno ormai la potenzialità di estendersi ad ogni settore: la distribuzione, la produzione di beni, l’organizzazione, il management, l’intermediazione, l’istruzione. In ognuno di questi la meccanica è la stessa, serializzare e automatizzare in modo ormai intelligente tutti i compiti ripetitivi e tipizzabili, eliminando tutti i relativi lavoratori, lasciando solo le skill più elevate in campo (per ora).
Anche il rifugio dei servizi di cura alla persona temo sarà assediato ed eroso progressivamente, e comunque è un rifugio povero.

Anzi, come risulta ormai da numerose analisi convergenti, questa dislocazione, verso l’alto ed il basso, delle skill ancora utilizzabili è uno dei motori principali della ineguaglianza che sta scavando sotto le fondamenta delle nostre società.

Cosa potrebbe comportare questa grande trasformazione? Come è ovvio è molto difficile dirlo mentre è ancora al suo avvio. Potrebbe portare alla fine della centralità del lavoro salariato (che è una figura storica di rapporti sociali che ancora nella prima metà dell’ottocento era quantitativamente marginale); potrebbe più radicalmente portare alla ricostruzione di una economia del tempo liberato e della gratuità; giungere ad una economia della reciprocità.

Cosa intanto comporta? Uno dei più eleganti teoremi dell’economia mainstream dice che in questi processi di dislocazione, provocati da guadagni di produttività trainati dalla tecnologia, ciò che si perde in un settore obsoleto e inefficiente viene subito recuperato in uno nuovo e più efficiente. La società complessivamente ci guadagna. Ne abbiamo già parlato, questo modo di pensare –figlio della metafisica occidentale, direbbe qualcuno- evita programmaticamente di fare i conti con l’attrito. Con il tempo e con lo spazio. Con il fatto che l’espulso da una catena di montaggio nella periferia di Torino non ha le competenze, le risorse, l’opportunità di ricollocarsi come sviluppatore free lance di apps per I-Pad. O come grafico in una software house dedita ai giochi in Polonia. Che il territorio torinese, con troppo ex lavoratori disoccupati, o pensionati, degraderà ed entrerà in crisi fiscale, i servizi alla persona caleranno e ciò renderà ancora più difficile aiutare le riconversioni abbandonate alle singole forze degli individui. Forze palesemente insufficienti, come ci continua a dire con commovente ostinazione Bauman.

La tecnologia che ci sta condannando potrebbe salvarci se capissimo il quadro generale. Keynes negli anni trenta lo aveva già intuito, Robert Kennedy con parole poetiche ce lo ha indicato, più d’uno generosamente, anche sbagliando, sta cercando la strada.

Quel che penso è che l’ineguaglianza che sta scavando solchi nelle nostre società potrebbe essere la levatrice di un nuovo assetto duale.
Nel quale siano compresenti due modelli di vita e stili di esistenza:
      -          Il primo, espressione di una cultura post-produttiva e post-consumistica per chi preferirà disconnettersi dal flusso della produzione sempre più veloce ed inumano;
     -          Il secondo, iperveloce, ipercompetitivo, flessibile e rischioso, ma anche creativo ed eccitante, per chi resterà connesso.

Perché i due modelli non siano la base di una nuova lotta di classe è necessario che lo Stato recuperi la propria capacità di progettazione politica e sociale, riesca a garantire il dividendo sociale messo a disposizione dalla nuova modalità di produzione in-umana, impedendo che resti ad accumularsi tutto nelle mani dei “connessi”. Sarà poi l’uomo a trovare la sua strada.


Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è di un nuovo compromesso sociale.

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