Sin dall’inizio
di questo blog ho il programma di affrontare una quarta crisi: quella ecologica. Il nostro tempo è
caratterizzato da una perdita complessiva di equilibrio che si manifesta insieme
sul terreno economico
e sociale.
E’ in effetti il nostro rapporto con il mondo artificiale, socialmente determinato,
nel quale viviamo (cioè nasciamo, ci formiamo, cresciamo e moriamo) che perde
stabilità ed equilibrio, determinando quel senso d’incertezza, paura e offesa
che agita le nostre società e cerca soddisfazione. Questa ricerca, questa ira (che cerca sempre nuovi
bersagli, fuoriuscendo dai vecchi “contenitori” che non riescono più a
contenerla), genera la terza instabilità; quella
politica.
Una reazione, un adattamento, a questa ira e a questo dolore è contenuta nelle
forme di populismo politico che contraddistinguono il nostro tempo: nella
ricerca di sempre nuovi capri espiatori da esporre alla pubblica gogna. Da
uccidere ritualmente.
Naturalmente
quello politico non è l’unico “populismo” sulla scena: c’è quello giudiziario,
quello mediatico, quello direttamente auto organizzato nei movimenti di
self-help. In un certo senso questo è un movimento naturale e contiene anche
elementi positivi, in questa direzione richiamo la lettura di Rosanvallon
e di Crouch.
C’è, tuttavia, una quarta dimensione di crisi (o un
quarto modo di leggerla) che va affrontata per definire il nostro stato: quella
determinata dalla perdita di stabilità ed equilibrio con il mondo fisico
intorno a noi. Non farlo può portare a cercare sfogo, a ricercare margini di
manovra e isole di maggiore sfruttamento al fine di dare sollievo alle tre
crisi; aumentando cioè lo sfruttamento dell’ambiente. Ci sono segnali
insistenti in questa direzione; dall’inizio della crisi del 2008, in particolare in
Europa, si assiste infatti ad un continuo sforzo di riconfigurare l’agenda a
danno dei temi ambientali. Uno sforzo di dirigere l’ira deviandola verso di
essi (e verso le relative politiche, accusate di essere troppo onerose e
addirittura parassitarie), di cercare sollievo alla crisi economica riducendo
le protezioni ambientali.
Ma nessuna
soluzione può essere costruita senza affrontare insieme le quattro crisi.
Per avviare
l’esplorazione della crisi ecologica, allora, inizieremo dalla lettura di due
libri importanti, di Hermann
Scheer, che fino alla morte nel 2010 è stato tra i leader più rispettati
del movimento ambientalista tedesco. Il politico tedesco scrive nel 1999 “Autonomia
energetica. Ecologia, tecnologia e sociologia delle risorse rinnovabili”.
Un testo che esce in Italia nel 2006 con la prefazione di Gianni Silvestrini,
In esso Scheer
si chiede perché lo sviluppo delle energie rinnovabili, di fronte al rischio di
esaurimento delle risorse, distruzione dell’equilibrio climatico, instabilità
delle forniture e perdita della capacità di governare i nostri destini
economici e sociali, sia così incerto. Cercare spiegazioni solo nel potere del
sistema energetico convenzionale interessato alla sua autoconservazione (e
prigioniero della sua catena di approvvigionamento con i suoi intrecci
economici, sociali, politici e tecnici) non è sufficiente. Ciò che orienta il
complesso decisionale, e l’umore dell’opinione pubblica, è più profondo: il
problema è di “natura mentale”. Le energie rinnovabili non sono realmente
percepite come una prospettiva fattibile. Si tratta, per Scheer, dell’effetto di
alcuni assiomi discutibili, ma generalmente presi per veri:
-
il potenziale disponibile è insufficiente;
-
è comunque necessario molto tempo;
-
restano necessarie le grandi centrali per dare
equilibrio e stabilità alla fornitura;
-
si può ridurre molto e virtualmente annullare l’impatto
sull’ambiente delle centrali convenzionali;
-
sono gli impianti rinnovabili a doversi adattare alla
rete distributiva esistente e non il contrario;
- in ogni caso bisogna salvaguardare gli investimenti
effettuati in fonti fossili, in quanto infrastruttura essenziale di interesse
nazionale;
-
le energie rinnovabili sono comunque troppo costose, e
dipendono dalle sovvenzioni.
Questi
enunciati, ed altri, individuano uno schema che imprigiona il potenziale
trasformativo della rivoluzione energetica in un contesto di gradualismo,
compatibilità subalterna con le fonti fossili e concentrate, continuità con uno
schema di approvvigionamento globalmente integrato.
Ciò che Scheer
invita a focalizzare è che le modalità di alimentazione energetica da fonte fossile
sono in realtà “nemici strutturali” delle emergenti produzioni di energia
naturale, rinnovabile, distribuita. Si tratta di una vera e propria nuova
piattaforma energetica, che unisce il vantaggio di essere infinitamente
replicabile a quella di essere territorialmente autosufficiente (su idonee
scale).
Oltrepassando i
dati forniti da Scheer sullo stato di avanzamento della generazione elettrica
da rinnovabili (che dal 2004, data di ultima revisione, hanno fatto passi da
gigante) uno dei nodi messi in evidenza dall’ambientalista tedesco è che la
generazione distribuita, cioè realizzata con piccole centrali, da pochi kW a
pochi MW, distribuite sul territorio in prossimità dei centri di consumo,
anziché da grandi centrali da centinaia di MW (o migliaia) distribuite su
dorsali di trasporto in alta tensione, ha il decisivo vantaggio di ottenere il
necessario bilanciamento della tensione in modo più sicuro e con meno
ridondanza. Infatti l’uscita di servizio di una grande centrale a carbone da
2.000 MW potrebbe sottoporre la rete ad uno stress che non è replicabile con
l’uscita casuale di un certo numero di centrali distribuite. Naturalmente aiuta
in questa direzione la definizione di un mix equilibrato di fonti (dato che
alcune sono spente di notte, oppure quando restano senza risorse non
programmabili ma in parte prevedibili) e, più di recente, di sistemi di
accumulo.
Un sistema
distribuito è più efficiente, infatti, essenzialmente per le seguenti ragioni:
-
richiede meno trasformazioni di tensione, e quindi meno
dispersioni di energia;
- quando si valuti l’utilizzo termico questa efficienza è
ancor più esaltata, non richiedendo estrazione, importazione
commercializzazione e trasporto di vettori energetici sino al punto di
utilizzo;
- non sono prodotti tutti quei danni ambientali, in
termini di inquinamento e alterazioni climatica e microclimatica, che inducono
costi enormi sia sul sistema sanitario e la qualità della vita, sia sul nostro
stesso futuro.
Del resto
storicamente le strutture centralizzate di approvvigionamento energetico
nacquero dallo scontro culturale ed imprenditoriale tra Edison e Westinghouse,
ognuno dei quali propugnava una soluzione. Per Edison era meglio produrre
l’energia termica ed elettrica necessaria presso i luoghi di consumo, pagando il
prezzo di dover trasportare il combustibile in loco; per Westinghouse era
preferibile fornirla tramite elettrodotti.
La scelta finale
fu razionale in relazione alle tecnologie allora disponibili, ma oggi sarebbe
presa in direzione opposta. Infatti la fornitura gratuita, tramite raggi solari
che cadono sulle nostre teste o vento sulle nostre facce, è naturalmente
distribuita.
Chiaramente
ormai le reti ci sono, e dunque l’implementazione di forme di generazione
distribuita, pur sfruttando risorse gratuite, ne riduce lo sfruttamento. La
conseguenza è a Scheer chiarissima, e lo vediamo bene anche in questi giorni in
cui un DL del Governo ha reintrodotto parte dei costi di sistema anche a chi si
auto produce l’energia: “le reti preesistenti sono sfruttate tanto meno quanto
più si diffonde la produzione e l’approvvigionamento decentralizzati
dell’energia elettrica. Quindi i costi che l’utente della rete deve pagare
aumentano quando la rete non viene più cofinanziata da chi non la usa più o la
usa solo a regime ridotto”. (p. 61)
Alcuni anni
dopo, nel 2010, lo stesso Hermann Scheer scrive un altro importante libro sulla
riconversione del sistema energetico, “Imperativo
Energetico. Come realizzare la completa riconversione del nostro sistema
energetico”. In esso sottolinea come gli operatori tradizionali siano in
questi anni passati attraverso tre atteggiamenti verso la transizione
energetica e le energie rinnovabili:
-
l’atteggiamento
“ciondolo d’oro”, quando la produzione da rinnovabili era da tutti vista
come una opzione marginale, fascinosa, da appuntarsi come un gioiello per far
vedere di avere una coscienza. In questa direzione ENEL, ad esempio, realizzò
la prima centrale fotovoltaica a terra su grande superficie (da ca un MW);
-
l’atteggiamento “cavallo bianco”, quando diventa un mercato lucroso
ma ancora non pericoloso, e allora bisogna utilizzarlo per recuperare margini
di profittabilità. In questo senso è stata realizzata ENEL Green Power;
- l’atteggiamento
“Word”, quando, ed è questa fase, si accorgono con sconcerto che non c’è
compatibilità e quindi nasce il contrasto. Sta nascendo un uovo dominatore del
mercato, e il vecchio (la macchina da scrivere) cerca di resistere.
E’ inevitabile
che gradualmente le compagnie energetiche debbano ridimensionare il loro parco
termoelettrico, ma la trasformazione non si ridurrà ad una sostituzione con
grandi centrali industriali da rinnovabili (ENEL produzione con ENEL Green
Power), dovranno in effetti diminuire i kWh venduti in rete, quindi la
cosiddetta produzione “contendibile”. In Germania, ricorda Scheer ci sono (nel
2010) un milione di impianti fotovoltaici domestici e sono tutti kWh che non
vengono prelevati dalla rete, trasportati, prodotti in centrali. Inoltre, dato
che le offerte sono accettate sul mercato in ordine di prezzo decrescente,
questa riduzione di richiesta (e l’offerta da rinnovabili a prezzo zero per
ragioni strutturali) determina una tendenza alla riduzione del prezzo.
Queste sono le
ragioni per cui stiamo entrando in “fase word” e gli operatori tradizionali
sono in allarme rosso. Succede quel che ricordava il Mahatma Gandhi: <Prima ti ignorano, poi di deridono, poi
ti combattono, infine vinci>.
Non appena si
entra in questa fase (che per ora è aperta in Germania e in Italia, forse negli
USA), dice l’autore “si arriva al punto: la sostituzione delle energie atomiche
e fossili riguarda direttamente la struttura del sistema energetico
tradizionale e presenta stretti legami con il sistema produttivo, le abitudini
di consumo, i sistemi economici e le istituzioni politiche vigenti” (p.21). Si
tratta di una fase ibrida nel quale il progetto consolidato si confronta con un
sistema radicalmente alternativo che in effetti non ha bisogno di lui.
Quello che si
presenta sulla scena è un vero e proprio
conflitto strutturale, perché il sistema energetico tradizionale, che è
perfettamente funzionante e fortemente radicato in tutti i luoghi della
decisione, ha una struttura organizzativa sviluppata lungo una rete
unidirezionale. Non è possibile lasciarla invariata sostituendo l’elemento
centrale “impianto termoelettrico” con impianti diffusi di piccola taglia senza
avere effetti a cascata. Ci sono, e si vede benissimo, importanti effetti sui
prezzi e la redditività delle infrastrutture di trasporto dalle quali dipende
l’intera struttura aziendale.
Si comprende
bene, quindi, come i grandi gruppi energetici, di fronte al rischio di veder
diventare obsoleti prima del tempo ingenti investimenti non ancora ammortizzati
reagiscano come se fosse (e lo è) questione di vita e di morte. Di qui il
tentativo di indurre rallentamento, rinvii, di guadagnare tempo.
Tra gli
argomenti più utilizzati troviamo i seguenti:
-
il cambiamento deve essere internazionale e armonico;
-
è necessario disporre di “ponti” energetici
convenzionali (in Germania il gas);
-
gli incentivi sono da rifiutare in quanto ingerenza in
dinamiche di mercato;
Nel seguito del
libro Scheer si impegna a contrastare l’idea che si debba procedere solo
attraverso accordi internazionali vincolanti (difficili da ottenere e per loro
natura costruiti su compromessi minimi), con il risultato che spesso i target
“minimi” vengono presi per obbiettivi massimi dopo i quali fermare l’azione di
sostegno. Quindi sulla presunta necessità di centrali a carico costante (che se
troppo alte diventano concorrenti dirette delle rinnovabili); sull’ipotesi (che
ha visto incentivi massicci) della cattura della CO2 nelle centrali
a carbone (tecnica CCS).
In un contesto
di generazione diffusa da rinnovabili, dato che il “combustibile” è gratuito
(sole e vento), il necessario stoccaggio deve essere compiuto dopo la produzione, anziché prima come nei sistemi che valorizzano
una risorsa fossile di grande valore, che è trasportata da grandi distanze.
Dunque il cosiddetto “carico di base” si può ottenere con procedure di accumulo
di energia dirette ed indirette.
Un altro esempio
di strategia di disturbo, per l’autore, è lo sviluppo delle “supergrid” e dei
progetti di produzione di dimensioni “europee”, come Desertec (produzione di
energia in nord Africa) ed il grande eolico on shore del Mare del Nord. Simili
progetti rafforzano la posizione dominante delle grandi utility protagoniste
attuali del sistema elettrico e per questo sono promossi. La ragione per la
quale questa non è la strada è che (in particolare il progetto in Nord Africa)
perpetua la condizione di dipendenza e fragilità degli approvvigionamenti,
oltre ad incontrare significative difficoltà di costo e temporali.
Invece le
caratteristiche più importanti delle energie rinnovabili sono la gratuità della
fonte e la disponibilità decentrata e immediata. Inoltre sono inesauribili e
non inquinanti. Una delle caratteristiche più importanti è dunque l’interazione
spaziale tra la produzione immediata, lo stoccaggio e l’utilizzo dell’energia.
In effetti questa caratteristica rende questa famiglia di tecnologie altamente
indifferenti alla scala, e le rende strumenti di accelerazione della
trasformazione flessibile. Qui l’idea di Scheer è che queste tecnologie si
possano trasformare in “catalizzatori per rapporti di distribuzione, modalità
di produzione e strutture economiche più sociali.” (p.169) In effetti “rompono”
il sistema, generando potenziali di autonomia e indipendenza, garantiscono
certezza e sicurezza di approvvigionamento energetico e adattamento alle
condizioni locali di produzione e sviluppo.
Le battaglie per
garantire l’adattamento che andrebbero allora combattute per l’autore sono:
favorire integrazioni plurifonte, per stabilizzare e rendere più prevedibile la
produzione; remunerare l’energia consumata per fasce orarie e zone, in modo da
incentivare lo stoccaggio infra-giornaliero e l’adattamento territoriale tra
produzione e consumo; garantire la possibilità di fare proprie reti in modo da
favorire a livello territoriale il modello prosumers (energia prodotta e
consumata in loco).
Anche le
frequenti obiezioni in riferimento all’impatto sul paesaggio trascurano il
contributo decisivo delle rinnovabili in generale alla tutela del clima e
dunque dello stesso paesaggio. Occorre in altre parole passare dalla tutela
passiva a quella attiva.
Naturalmente
tutto quanto illustrato da Scheer non va interpretato semplicemente come
un’apologia per i “piccoli” impianti contro i “grandi”, perché nel settore
delle rinnovabili anche un grande impianto è comunque alla scala del consumo
locale (ad esempio di una piccola area industriale). Succede qualcosa del
genere di quanto è avvenuto con la rivoluzione informatica, quando sistemi
distribuiti e decentrati si sono sostituiti ai grandi mainframe in cui si era
specializzata l’IBM (come avevamo scritto in “Big
Blue e il fiume della storia”).
Questo è il motivo per cui non bisogna
accettare il terreno della riduzione del dibattito ad una questione di prezzi. E’
una questione di futuro.
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