Interessante Articolo, su Vox, di Coen Teulings sul tema dell’ineguaglianza, che rimarca come sia
l’OCSE (anche di recente) sia Thomas
Piketty abbiano posto all’attenzione del dibattito pubblico il tema della
dispersione del reddito nei paesi sviluppati.
Sono stati registrati in questi ultimi anni
grandi cambiamenti nella distribuzione del reddito complessivo, con importanti
trasferimenti sia dal lavoro al capitale (la cui parte è molto cresciuta) sia
entro la ripartizione tra lavoratori ad alto reddito e a basso. Una
disuguaglianza crescente che ha grandi impatti sull’educazione, sulla salute e
il benessere. Aggiungo sulla coesione e la capacità della democrazia di
rappresentare gli interessi diffusi.
Per comprendere se esistono strategie per
rendere più inclusiva la crescita del PIL, bisogna ragionare sulle cause:
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La
vecchia ipotesi, praticata durante il passaggio del secolo, tra
la fine degli anni novanta e i primi anni del millennio, era che il principale
“colpevole” fosse il progresso tecnologico. Il meccanismo individuato è che il
cambiamento di abilità richieste dal sistema economico ha reso meno richieste
formazioni di base (diplomati) e aumentato la richiesta di laureati e
specializzati, dato che il sistema educativo non è riuscito ad adattarsi,
generando più laureati come richiesto, il “premio abilità” è salito. Dunque ci
si è spostati verso una società “vincitore-prende-tutto” dove chi ha le
competenze giuste e arriva prima riesce a “catturare” una quota altissima dei
profitti. L’esempio più estremo sono gli “innovatori” di Facebook, e in misura
meno estrema (nel senso che è maggiore il contenuto tecnologico) Google e
Microsoft. Di questo avviso sia Raghuram
Rajan sia, in modo diverso, Moretti.
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la
seconda ipotesi vede in posizione centrale il ruolo della globalizzazione,
mentre negli anni novanta la quota dei paesi BRIC nella complessiva economia
mondiale era ancora minima (in tal senso, ad esempio, un libro di Krugman del
1996, “Un’ossessione pericolosa”)
ormai negli ultimi venti anni è diventata rilevante. Sembra che l’effetto per i
paesi sviluppati sia lo schiacciamento dei salari verso il basso delle ex
classi medie su quelle inferiori, invece il primo 10% ha incrementato sia in
senso assoluto che relativo la propria posizione. Lo studio di Autor
del 2013 evidenzia come la grande sconfitta di questa fase sia la classe media
occidentale (stessa analisi in Milanovic),
si tratterebbe di un effetto sia dell’esposizione alla concorrenza
internazionale sia all’automazione dei cicli produttivi. E’ un poco un’integrazione
della tesi precedente: cade la domanda di lavoratori con livello intermedio d’istruzione,
come si vede dalla caduta dal 1990 del reddito reale del lavoratore “mediano”. Il
comando passa alla classe superiore specializzata in un mondo molto più guidato
dalla tecnologia, mentre la classe inferiore in qualche modo è difesa dal suo
impegno nel settore dei servizi alla persona che per ora non è esposto alla
concorrenza internazionale e non è automatizzabile, o comunque esposto all’innovazione
tecnologica. E’ molto importante segnalare che questa
dinamica spiega come mai sia diffusa l’idea che l’istruzione sia diventata meno
importante. In effetti l’alta istruzione lo è molto di più (lauree specialistiche,
specializzazioni, dottorati) ma quella
media lo è di meno. Dunque dipende da dove si guarda ed a cosa si guarda:
se l’ambizione massima è una laurea breve o un diploma, effettivamente l’accesso
per questa via ai buoni salari della vecchia classe media è diventato più
difficile; se è una laurea di élite, nelle condizioni sociali familiari e di
contesto giuste, può aprire a carriere prestigiose. La società si sta
segmentando in modo più marcato.
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esiste
una terza ipotesi: la liberalizzazione che è partita dal 1980,
con la riduzione delle protezioni e di tutte quelle infrastrutture sociali e
politiche che amplificavano il potere negoziale dei lavoratori e in tal senso
erano state costruite. E’ dunque, in questa visione, il calo dei salari minimi,
la riduzione dei sindacati, ad aver determinato l’allargarsi della forbice dell’ineguaglianza.
E’ il fenomeno dei “lavoratori poveri”. Naturalmente l’effetto di salari minimi
troppo alti può creare svantaggi per i lavoratori meno qualificati; senza
esagerare invece si trova ad avere un effetto alto sull’ineguaglianza e basso
sulla disoccupazione. L’autore propone la regola che vede un punto ottimale
quando accede al salario minimo non più del 4% della popolazione lavorativa. Secondo
la sua analisi, invece, il modello non regolato (cioè quello dell’Asta
Standard) non è una corretta rappresentazione del mercato del lavoro,
essenzialmente perché tutti i lavoratori e tutti i potenziali datori di lavoro
non sono presenti contemporaneamente
in un sol luogo (come in un’Asta), inoltre non c’è alcun “banditore”. Imprese e
lavoratori nella pratica, invece, negoziano tra loro secondo il modello
incrementale. L’apparato teorico “dell’Asta” (impostato da Pissarides nel 1990,
e da Burdett e Mortensen nel 1988) presupponeva un intervento divino che
garantisse che il risultato delle contrattazioni uno-ad-uno sia sempre anche l’ottimo
sociale. La realtà è diversa, le imprese hanno un grande potere contrattuale e
questo distorce il risultato delle contrattazioni lontano dall’ottimo sociale. Provoca
distruzione di esperienza, di competenza, accumulo di potere. Secondo l’autore
la liberalizzazione potrebbe essere andata oltre il segno e aver raggiunto un
punto in cui crea più svantaggi che vantaggi.
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