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giovedì 26 giugno 2014

Coen Teulings, “Perché cresce la disuguaglianza? Possiamo fare qualcosa?”


Interessante Articolo, su Vox, di Coen Teulings sul tema dell’ineguaglianza, che rimarca come sia l’OCSE (anche di recente) sia Thomas Piketty abbiano posto all’attenzione del dibattito pubblico il tema della dispersione del reddito nei paesi sviluppati.
Sono stati registrati in questi ultimi anni grandi cambiamenti nella distribuzione del reddito complessivo, con importanti trasferimenti sia dal lavoro al capitale (la cui parte è molto cresciuta) sia entro la ripartizione tra lavoratori ad alto reddito e a basso. Una disuguaglianza crescente che ha grandi impatti sull’educazione, sulla salute e il benessere. Aggiungo sulla coesione e la capacità della democrazia di rappresentare gli interessi diffusi.


Per comprendere se esistono strategie per rendere più inclusiva la crescita del PIL, bisogna ragionare sulle cause:
     -         La vecchia ipotesi, praticata durante il passaggio del secolo, tra la fine degli anni novanta e i primi anni del millennio, era che il principale “colpevole” fosse il progresso tecnologico. Il meccanismo individuato è che il cambiamento di abilità richieste dal sistema economico ha reso meno richieste formazioni di base (diplomati) e aumentato la richiesta di laureati e specializzati, dato che il sistema educativo non è riuscito ad adattarsi, generando più laureati come richiesto, il “premio abilità” è salito. Dunque ci si è spostati verso una società “vincitore-prende-tutto” dove chi ha le competenze giuste e arriva prima riesce a “catturare” una quota altissima dei profitti. L’esempio più estremo sono gli “innovatori” di Facebook, e in misura meno estrema (nel senso che è maggiore il contenuto tecnologico) Google e Microsoft. Di questo avviso sia Raghuram Rajan sia, in modo diverso, Moretti.
     -         la seconda ipotesi vede in posizione centrale il ruolo della globalizzazione, mentre negli anni novanta la quota dei paesi BRIC nella complessiva economia mondiale era ancora minima (in tal senso, ad esempio, un libro di Krugman del 1996, “Un’ossessione pericolosa”) ormai negli ultimi venti anni è diventata rilevante. Sembra che l’effetto per i paesi sviluppati sia lo schiacciamento dei salari verso il basso delle ex classi medie su quelle inferiori, invece il primo 10% ha incrementato sia in senso assoluto che relativo la propria posizione. Lo studio di Autor del 2013 evidenzia come la grande sconfitta di questa fase sia la classe media occidentale (stessa analisi in Milanovic), si tratterebbe di un effetto sia dell’esposizione alla concorrenza internazionale sia all’automazione dei cicli produttivi. E’ un poco un’integrazione della tesi precedente: cade la domanda di lavoratori con livello intermedio d’istruzione, come si vede dalla caduta dal 1990 del reddito reale del lavoratore “mediano”. Il comando passa alla classe superiore specializzata in un mondo molto più guidato dalla tecnologia, mentre la classe inferiore in qualche modo è difesa dal suo impegno nel settore dei servizi alla persona che per ora non è esposto alla concorrenza internazionale e non è automatizzabile, o comunque esposto all’innovazione tecnologica. E’ molto importante segnalare che questa dinamica spiega come mai sia diffusa l’idea che l’istruzione sia diventata meno importante. In effetti l’alta istruzione lo è molto di più (lauree specialistiche, specializzazioni, dottorati) ma quella media lo è di meno. Dunque dipende da dove si guarda ed a cosa si guarda: se l’ambizione massima è una laurea breve o un diploma, effettivamente l’accesso per questa via ai buoni salari della vecchia classe media è diventato più difficile; se è una laurea di élite, nelle condizioni sociali familiari e di contesto giuste, può aprire a carriere prestigiose. La società si sta segmentando in modo più marcato.

     -         esiste una terza ipotesi: la liberalizzazione che è partita dal 1980, con la riduzione delle protezioni e di tutte quelle infrastrutture sociali e politiche che amplificavano il potere negoziale dei lavoratori e in tal senso erano state costruite. E’ dunque, in questa visione, il calo dei salari minimi, la riduzione dei sindacati, ad aver determinato l’allargarsi della forbice dell’ineguaglianza. E’ il fenomeno dei “lavoratori poveri”. Naturalmente l’effetto di salari minimi troppo alti può creare svantaggi per i lavoratori meno qualificati; senza esagerare invece si trova ad avere un effetto alto sull’ineguaglianza e basso sulla disoccupazione. L’autore propone la regola che vede un punto ottimale quando accede al salario minimo non più del 4% della popolazione lavorativa. Secondo la sua analisi, invece, il modello non regolato (cioè quello dell’Asta Standard) non è una corretta rappresentazione del mercato del lavoro, essenzialmente perché tutti i lavoratori e tutti i potenziali datori di lavoro non sono presenti contemporaneamente in un sol luogo (come in un’Asta), inoltre non c’è alcun “banditore”. Imprese e lavoratori nella pratica, invece, negoziano tra loro secondo il modello incrementale. L’apparato teorico “dell’Asta” (impostato da Pissarides nel 1990, e da Burdett e Mortensen nel 1988) presupponeva un intervento divino che garantisse che il risultato delle contrattazioni uno-ad-uno sia sempre anche l’ottimo sociale. La realtà è diversa, le imprese hanno un grande potere contrattuale e questo distorce il risultato delle contrattazioni lontano dall’ottimo sociale. Provoca distruzione di esperienza, di competenza, accumulo di potere. Secondo l’autore la liberalizzazione potrebbe essere andata oltre il segno e aver raggiunto un punto in cui crea più svantaggi che vantaggi.

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