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lunedì 2 giugno 2014

Branko Milanovic, Piketty e “I Limiti dell’economia neoclassica”


Dal blog di Branko Milanovic, un post sulla controversia Piketty nel quale quale l’ex economista della Banca Mondiale ritorna sulla questione centrale nel testo dell’economista francese del significato della prevalenza della quota di reddito derivante dalla valorizzazione del capitale già esistente su quella creata dal lavoro corrente. Su questo tema abbiamo già scritto qui, qui, qui,



La cosa si lega ad un altro post nel quale Milanovic commenta la critica di Debraj Ray a Piketty secondo il quale la scoperta che il reddito da capitale “r” è mediamente sempre superiore a quello da lavoro “g” non avrebbe alcun valore nella spiegazione della crescita della disuguaglianza. Questa affermazione di Ray (questo rapporto r>g sarebbe caratteristico di ogni modello o condizione di crescita) serve a negare che l’ineguaglianza deriva dalla maggiore propensione marginale al risparmio dei capitalisti (cioè di chi ha redditi da capitale significativi). Non sarebbe dunque una contraddizione del capitalismo.
L’economista serbo-americano obietta in modo vigoroso che anche se fosse vero che r>g è caratteristico dei modelli di crescita, resta comunque una contraddizione propria del capitalismo, perché:
1.      il capitalismo consente di appropriarsi dei rendimenti di capitale;
2.      in esso sono distribuiti in modo fortemente ineguale (“il che significa che il coefficiente di Gini dei redditi da capitale è maggiore del coefficiente di Gini dei redditi da lavoro”);
3.      e i destinatari dei redditi da capitale sono in genere più in alto nella piramide di distribuzione dei redditi dei destinatari dei redditi da lavoro (fanno eccezione alcune superstar nel mondo dello spettacolo o della finanza);

Più sale la quota dei redditi da capitale, più cresce dunque l’ineguaglianza. Il capitalismo è precisamente quel genere di sistema sociale in cui la ripartizione, nel paniere individuale, delle quote di reddito da capitale e lavoro è fortemente sbilanciata lungo la distribuzione sociale; dunque, in queste condizioni se immaginiamo, con Milanovic, un individuo con 100 € di reddito da lavoro, ed un altro con 1.000 € da capitale (il secondo è dunque dieci volte più ricco del primo, ma non ha redditi da lavoro), il rapporto r>g diventa rilevante nel far crescere le ineguaglianze perché la crescita maggiore del reddito da capitale scaverà nel tempo una sempre maggiore distanza tra i due.
Dunque r>g determina una crescente disuguaglianza in rapporto alle condizioni sociali realmente esistenti.

Naturalmente la propensione al risparmio (cioè a non consumare immediatamente) di chi guadagna 1.000 €, rispetto a chi ne guadagna 100 (e sa che i suoi redditi cresceranno più lentamente, ma soprattutto dipendono dal lavoro e non dal risparmio), è un fattore importante. Se non ci fosse non ci sarebbe alcuna crescita del capitale. Poiché, invece, questa propensione esiste (ed è molto pronunciata) il processo di divergenza ne viene ulteriormente accelerato (il risparmio si traduce in altro capitale investito e questo genera un rendimento superiore, accrescendo il patrimonio con evidente effetto cumulativo).

Tutto questo è banale, ma anche interessante: Milanovic lega questa critica disincarnata di Ray alle assunzioni implicite del suo modello di riferimento neoclassico, che dimentica in sostanza “che i processi economici si verificano all'interno di una società capitalista”.
L’identità messa in evidenza da Piketty ha, nella società concreta in cui viviamo, un semplice significato: “definisce la quantità della produzione totale che sarà presa da una classe speciale di popolazione che non deve lavorare per il suo reddito”. 
Chiaramente, ciò non è assolutamente neutrale, ancora in modo semplice: più cresce la quota riservata al reddito da capitale, meno resta per chi deve lavorare. 

Ma questa semplice proporzione “non è una legge fondamentale dell’economia, è una legge fondamentale del capitalismo”.  
A titolo di esempio Milanovic propone di considerare un sistema alternativo in cui “tutto il capitale è di proprietà sociale ed il reddito da capitale è distribuito equamente tra tutta la popolazione. Poi chiaramente, il capitale sociale sarebbe ancora lo stesso di prima, ma questo sarebbe un diritto fondamentale e non un problema sistemico, in quanto non comporterebbe ineguale distribuzione del reddito, né l'esistenza di una classe che non ha bisogno di lavorare”.
Il punto non è proporre un sistema socialista, con la proprietà pubblica del capitale, ma rendersi conto che guardare alle “leggi economiche” in modo astratto dimentica la loro dipendenza dai rapporti di produzione storicamente esistenti. Cioè il loro essere “leggi” in riferimento a questi (e non in generale).
La “legge” proposta da Piketty (cioè la dipendenza della crescita tendenziale dell’ineguaglianza dal rapporto ineguale r>g) è tale solo se:
(a) le proporzioni capitale/lavoro non sono uguali in tutta distribuzione del reddito; 
(b) i capitalisti sono più ricchi dei lavoratori; 
(c) il capitale è di proprietà privata
Queste sono le condizioni della società attuale. In essa il fatto r>g non è una “legge della crescita”, ma un motore dell’ineguaglianza.
Secondo le efficaci parole di Milanovic nel primo post, “ci dà una misura della quota della torta totale che i proprietari di capitali (che sono il gruppo sociale principale nel capitalismo) sono in grado di rivendicare per se stessi senza dover lavorare”. 
In pratica quel che succede è che il 20 % delle persone più ricche sostengono la metà della produzione nazionale senza dover lavorare. Questo vantaggio essenziale che favorisce sistematicamente nella distribuzione della ricchezza prodotta in favore di coloro che non hanno bisogno di lavorare contro quelli che lo fanno influenza in modo decisivo l'intera struttura sociale della società. Tutta l’economia neoclassica, con le sue eleganti “leggi” e la trasformazione di ogni rapporto in astratti numeri e modelli, tende a far dimenticare –per Milanovic- questa semplice, elementare, differenza: tra l’avere e il dover lavorare per vivere.
Guardare tutto come “fattori di produzione” (capitale+lavoro), ed il lavoro come “capitale umano” è un osceno modo di nascondere che un ragazzo che lavora a Walmart per meno del salario minimo non è un capitalista (in quanto sta usando il suo capitale umano) come un broker che fa un milione in un giorno. Non è questione di avere un diverso “capitale umano”. E’ una questione ben diversa.

Se l’economia tornasse una scienza sociale (e responsabile), dovrebbe porsi domande come:
  1. è una società degna (o “ben ordinata”, come diceva Rawls) quella in cui il 20% dei non-lavoratori guadagnano il 70% del reddito totale disponibile? 
  2. quali sono i valori che una tale società promuove?  
  3. quali sono i modelli di consumo che incoraggia? 
  4. quale è la religione o il sistema etico che legittima e giustifica un sistema in cui soprattutto le persone che non lavorano sono ricche? Che ne è del talento in una simile società, come si chiedeva anche Krugman?
  5. e che, trasmettendola ai loro figli, rende radicalmente ineguale la trasmissione delle opportunità tra le generazioni?

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