Tony
Judt era uno storico americano di origine britannica, tra i maggiori
intellettuali di lingua inglese, specializzato in storia europea e professore a
Cambridge, Oxford, Berkley e New York University. Nel 2008, quando
aveva 60 anni, gli fu diagnosticata la SLA che lo portò alla morte dopo solo
due anni. Nel suo ultimo anno di vita Judt, mentre era paralizzato dal collo in
giù, con presumibile grande sforzo ed assoluta determinazione scrisse questo
libro che va considerato dunque il suo lascito a noi che gli sopravviviamo.
In
“Guasto
è il mondo” (tratto da un aforisma del 1770) il grande storico esprime
una vibrante accusa al mondo nel quale ci accade di vivere da qualche decennio.
Nel nostro modo di vivere, infatti, “c’è qualcosa di profondamente sbagliato.
Per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse
personale: anzi, ormai questo è l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane.”
Ormai di ogni cosa, di ogni decisione, di ogni sentenza non ci chiediamo più se
sia equa, giusta, o se contribuirà a rendere tale il mondo e la società.
Conosciamo di ogni cosa quanto costa, ma non “quanto vale”.
Per
Judt “dobbiamo reimparare a porci queste domande”; le domande politiche per
eccellenza, quelle difficili. Materialismo ed egoismo, per il grande storico, “non
sono aspetti intrinseci della condizione umana. Gran parte di ciò che ci appare
<naturale> risale [infatti] agli anni ottanta: l’ossessione per la
creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato,
le disparità crescenti tra ricchi e poveri.” (J.p.3)
Ma
nasce negli anni ottanta anche la
retorica che nasconde questa innovazione, sotto un velo di nebbia,
facendola sembrare eterna: “l’ammirazione acritica per i mercati liberi da
lacci e laccioli, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione di una
crescita senza fine”.
Ormai
si comincia però a vedere che non possiamo continuare a vivere così, ma non
sappiamo immaginare alcuna alternativa. Questo proietta un’enorme incertezza,
uno smarrimento; mentre si percepisce che c’è qualcosa di sbagliato, una
direzione profondamente malata, nessuno sa indicare che fare.
Sembriamo
essere tornati “al mondo freddo e spietato della razionalità economica
illuminista”, quella di Mandeville peri il quale i lavoratori si danno da fare solo
per seguire i propri bisogni, che vanno quindi tenuti sempre sotto pressione,
non vanno mai soddisfatti. Siamo tornati a leggi che assomigliano alla New Poor Law del 1834, contro la quale
Charles Dickens scrive Oliver Twist. Leggi
come quelle introdotte negli anni novanta dalle amministrazioni liberal di
Clinton (1996) o Blair, che sono il bersaglio di Judt. In esse, allo scopo di
ridurre il numero di individui a carico dell’assistenza pubblica, furono
ridotti o annullati i benefici a chi rifiutava uno (o due) lavori. L’effetto di
norme simili è di costringere, come nell’ottocento, il lavoratore povero ad
accettare qualsiasi lavoro, per quanto umiliante. L’umiliazione è quindi ciò contro cui si scaglia Tony Judt,
ricordando le parole in proposito di Adam Smith, e le riforme del XX secolo che
chiamarono indecente definire lo
status di un uomo in base alla sua fortuna o sfortuna economica. Il punto è che
restituire orgoglio e rispetto di sé agli
sconfitti della società deve essere lo scopo centrale dell’azione
collettiva. Voltargli le spalle fa di noi una società peggiore.
Oggi
viviamo invece in un mondo nel quale enormi disparità economiche nascono
essenzialmente dalla posizione degli individui nel flusso delle transazioni
finanziarie. Dalla loro capacità di prenderne al passaggio una parte, o
comunque di sfruttare i colossali flussi di merci, uomini e danaro che sono in
vorticoso movimento in tutto il globo. Già da tempo all’economia dei luoghi si
contrappone quella dei flussi e la seconda vince. La cosa ha preso una tale
dimensione che la famiglia che possiede il colosso della grande distribuzione
(e grande finanziatore di Clinton) Wall Mart,
con la sua capillare rete di sfruttamento dei subfornitori e dei lavoratori, ha
un patrimonio corrispondente a 90 miliardi di dollari, pari a quella del 40%
più povero della popolazione americana. Si, una sola famiglia possiede lo
stesso patrimonio di decine di milioni di persone.
Questo mondo non c’è sempre
stato: nel
trentennio del dopoguerra, l’espansione universalista delle prestazioni sociali
portò la classe media a disporre di un reddito disponibile crescente, e
superiore a qualsiasi periodo del passato. Inoltre garantì la fiducia nella
programmazione e nella spesa pubblica. Il risultato era una maggiore fiducia,
cooperazione, sicurezza, maggiore uguaglianza e servizi sociali; inoltre
tassazione progressiva e stato interventista.
Nei
decenni successivi ci è stato però raccontato che questo non era sostenibile,
che le risorse erano spese male e soffocavano lo spirito imprenditoriale,
comportavano alto debito pubblico e bassa iniziativa privata, insufficiente
innovazione. Per Judt “la maggior parte di queste critiche e palesemente falsa”
(p.55).
Tuttavia
hanno preso piede, perché negli anni sessanta i baby boomers iniziarono a
sentirsi oppressi dalla “gabbia d’acciaio” della burocrazia e dallo stato
interventista che rispondeva a drammatici problemi di ineguaglianza e conflitti
che avevano dimenticato. Loro erano nati dopo.
Dando
per scontato che il mondo era quello confortevole e noioso della generazione
del dopoguerra, secondo Judt, la generazione della contestazione spinse sull’acceleratore
dell’individualismo e della autoaffermazione. Il risultato fu che “la sinistra
si frammentò e perse ogni percezione di uno scopo comune”, e che la politica
diventò una rivendicazione di <identità>.
Curiosamente
questo creò lo spazio per la ripresa dei temi della destra individualista
austriaca, che aveva fragorosamente perso lo scontro culturale negli anni
trenta. I campioni di questa fase sono Michael Oakeshott, poi Raymond Aron,
Isaiah Berlin, Sydney Hook, Daniel Bell. Quindi gli ispiratori della Scuola di
Chicago: Ludwig von Mises, Fredrich von Hayek, Joseph Schumpeter, Karl Popper, Peter
Drucker. Tra le due guerre la maggior parte di questi intellettuali assiste al
crollo del mondo statuale austriaco e tedesco intorno a loro. Temevano quindi che
uno stato forte evolvesse necessariamente nella tragedia nazista.
Questo
pensiero venne allora sviluppato da una nuova generazione di econometristi (in
un certo senso dotati della stessa hybris
che Hayek accusava per la programmazione statuale) che lo trasformarono in una
sorta di teologia. La vicinanza con l’emergente
classe degli operatori finanziari, rese questa miscela esplosiva. Ormai “dietro
ad ogni banchiere ed agente di borsa cinico (o semplicemente incompetente) c’è
un economista che dalla sua posizione di autorità intellettuale incontestata
garantisce a loro (e a noi) che le azioni da essi compiute sono utili per la
collettività e che in ogni caso non devono essere sottoposte a supervisione
collettiva”. (p. 79)
Il
risultato di questa totale copertura della ricerca del massimo sfruttamento e
della idolatria del successo economico e del denaro è un colossale e sistemico “azzardo
morale”, la tendenza a ragionare solo a brevissimo termine e sapendo che se si
va male si sarà salvati (quale Stato fa fallire il suo sistema bancario, ma
anche le ferrovie, le autostrade, le reti idriche, le reti elettriche?). Le
aziende che gestiscono questi beni pubblici con logica privatistica, possono per
questo prendere qualsiasi rischio, alzare il saggio di sfruttamento come
vogliono, catturare i regolatori e alla fine lasciarsi salvare da noi. Judt si
dilunga per decine di pagine di esempi, non credo ci sia bisogno di ricordarli.
Quindi arrivò il 1989.
Insieme
al comunismo, a terra, finì nelle macerie il problema più ampio di come
organizzarci per il bene comune.
Superare
tutto questo, implica riprendere il dibattito pubblico e il potere della
critica, riaprire la <questione sociale> e rimettere al centro della
politica la questione posta a suo tempo da William Beveridge: “stabilire in quali condizioni, per gli
uomini tutti, è possibile vivere e vale la pena di vivere” (p.127).
Di
fronte agli enormi problemi contemporanei, allo spiazzamento del lavoro
determinato dalle innovazioni tecnologiche e dalla globalizzazione (cioè dall’accresciuta
concorrenza tra sistemi ineguali), ciò che ci manca “è una narrazione morale”.
Cioè “una descrizione dotata di coerenza interna che attribuisca alle nostre
azioni uno scopo che le trascenda” (p.133).
Del
resto bisogna essere attenti alle lezioni della storia: la prima globalizzazione,
ci ricorda Judt “finì in una catastrofe”, “la logica apparentemente
inarrestabile dell’economia fu surclassata dall’ascesa di nuovi Stati-nazione,
reciprocamente ostili e politicamente instabili. I grandi imperi crollarono
tutti”. Oggi lo abbiamo completamente dimenticato, facciamo finta sia un
racconto che non ci riguarda. Oggi diciamo che “non ci sono alternative”, lo
diceva la Thatcher, ma in realtà lo ripetiamo sempre; la globalizzazione è un
destino naturale, non è altro che l’economia, le sue semplici “leggi”. Il
<capitalismo globale integrato>, la crescita economica e gli incrementi
di produttività, la competizione che farà sempre prevalere il migliore, il più
efficiente, è la natura stessa. Si tratta di una narrazione ad incremento
infinito “che combina un mantra valutativo (<crescita è bello>) con la
presunzione dell’inevitabilità: la globalizzazione è qui e resterà, non è una
scelta umana ma un processo naturale” (p.138).
Questa è diventata “l’illusione della
nostra epoca”, “l’ineluttabile dinamica della competizione economica globale e
dell’integrazione”.
Con
lo sguardo del grande storico del novecento Tony Judt ci avvisa che la
<globalizzazione> è solo l’ultima versione aggiornata della secolare
grande fede modernista nella tecnologia e nella gestione razionale, nascosta
sotto altre vesti. In effetti da parte più o meno delle stesse persone. Questa
versione del governo dei tecnici (che prima affollavano gli uffici di
programmazione, ora quelli di econometria) esclude la politica e la scelta. Del
resto, se le leggi economiche sono parte della natura, bisogna solo riconoscerle
e piegarsi. In questo senso si tratta di una sorta di teologia.
Ma
come era già avvenuto, le tensioni che nascono da questo insostenibile assetto
porteranno ad un ritorno a luoghi più sicuri, alla politica ed alla scelta. Per
Judt ciò che succederà è la riaffermazione del ruolo degli Stati-nazione, sta
già succedendo, negli USA, in Europa, ovunque.
A
questo fine la tradizione socialdemocratica ha ancora qualcosa da dire, deve
riprendere il suo occhio critico; di più, tutti noi, ci dice Tony, dobbiamo agire, se pensiamo che qualche cosa non
vada. Oltre a interpretare il mondo con occhi nuovi, dobbiamo trasformarlo.
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