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giovedì 12 giugno 2014

Euroscettici, Eurofedeli, Eurodogmatici, Eurointeressati.


E’ passato nel linguaggio comune il termine “Euroscettico”, per indicare chi sottopone a critica l’utilità o l’equità della Moneta Unica introdotta a seguito del Trattato di Maastricht, nel contesto culturale, ideologico ed economico (oltre che politico) degli anni novanta. Questa scelta è figlia della storia, della sua specifica storia, e come tale andrebbe guardata nello spirito di una costante attenzione e revisione critica. Come detto essere “scettico”, in fondo, non significa altro che questo: tenere sempre aperta la porta del «controllo critico» circa gli oggetti del sapere, compiuto senza mai giungere a una conclusione definitiva. 

In questa linea non sembri una condanna ricordare che la Moneta Unica nasce, con la sua caratteristica e per alcuni versi tragica, accelerazione rispetto al processo di formazione di uno Stato Europeo (o di altra formazione politica alternativa, che potrebbe richiedere diversi accordi di cambio, o diversa regolazione della Banca Centrale) sul quale i “partner” europei non erano (come non sono) pronti, dall’insieme mai discusso adeguatamente di:
     1.      Un’urgenza geopolitica determinata dal subitaneo crollo, negli anni 1989-93 del blocco sovietico, con conseguente liberazione dell’ampia area economica e politica dell’Est europeo dal controllo e con la competizione (almeno percepita tale da alcuni decisori europei, come testimonia nel 1991 Emilio Colombo, in quegli anni Ministro degli Esteri italiano, al Parlamento nella discussione di chiusura della ratifica del trattato) con gli USA per l’allargamento della sfera di influenza. Aprendo una gara che vede la Germania largamente vincitrice (ad esempio la Polonia è ormai una sorta di protettorato tedesco);
      2.      Una, mal concepita e mal trattata, spinta a incapsulare la Germania unificata proprio in quegli anni, in una camicia di nesso con le altre economie europee. In questa direzione sembra, con il senno di poi, che nel gioco delle concessioni e richieste i negoziatori tedeschi abbiano portato a casa tutta la posta, i nostri siano rimasti con qualche briciola (come risulta anche dal dibattito sulla ratifica, nel quale interventi come quello di Intini spiccano per la lucidità e la pavidità al tempo), ai francesi solo l’illusione di governare l’istituzione, ai britannici qualche maggiore margine di libertà (in primis l’esclusione dall’Euro, che gli ha consentito di reagire molto meglio alla crisi).
    3.      Una impostazione ideologica, figlia dei tempi, che vedeva con grande sospetto la democrazia e la politica, in favore della forza di autoprogrammazione dei mercati economici e di istituzioni indipendenti (come la BCE, vero dominus creato dai Trattati). Restando al dibattito per la ratifica lo vede bene, e lo dice Petruccioli del PDS che con questo atto vede giungere “ad un punto critico” il processo di unificazione europeo, spinto in pratica da una concezione “limitata, asfittica” sostanzialmente riconducibile alle “forze del mercato e quelle dei capitali”, che ignora e marginalizza la “risorsa della volontà consapevole dei cittadini, la risorsa delle scelte e delle decisioni assunte e controllate attraverso gli strumenti e le istituzioni della democrazia”, cioè la “risorsa della politica”. Ancora secondo Petruccioli, “il mancato ricorso alla risorsa politica”, derivante dall’esito del negoziato di Lussemburgo, e l’idea che in fondo l’Unione Politica arriverà come “conseguenza automatica e residuale di processo di unione del mercato e della moneta”, provoca una cruciale distorsione e determina la prevalenza dei poteri e procedure tecnocratiche ed “è probabile che possa provocare la paralisi” (“se non peggio”). Nel 1991 potremmo candidare l’esponente politico al Premio Profeta per questa osservazione (ma, in realtà, quello è un anno ricco di “nomination”).
Il punto non è solo di dare spazio ad assemblee democratiche, per un mero fatto formalistico o ideologico, la questione è che il perimetro decisionale determinato dalla “dinamica intergovernativa” e dagli uffici burocratici di Bruxelles non consente “la piena espressione di tutte le posizioni effettivamente in campo ed un costruttivo confronto tra di esse”. Dunque non consente di individuare e soppesare gli interessi legittimi coinvolti nelle decisioni, consente di fare violenza ad alcuni di essi.
Dei due bracci necessari dell’Unione Europea, insomma, quello politico è atrofizzato e resta solo quello economico. Con il solo “braccio economico”, per Petruccioli, saranno difficili i processi di integrazione; i paesi deboli (a cominciare da quelli ex Comecon) “resteranno isolati, saranno oggetto di dislocazioni di produzioni per il basso costo del lavoro e l’assenza di diritti sindacali, e saranno possibile terreno di esperienze nazionalistico-autoritarie, costituendo sia sotto l’aspetto della competizione economica sia sotto quello dell’incubazione di politiche reazionarie il punto di partenza per aggredire le conquiste di cittadinanza nella Comunità europea, dallo Stato sociale ai diritti civili”.
Le conseguenze di tutto ciò sono che “sarà difficile evitare che anche con il Trattato di Maastricht operante si determini un’egemonia della banca tedesca e il costituirsi, di fatto, di una comunità del marco con dinamiche ed estensione che prescindono da quelle dell’Unione Europea”. E, forse più importante: “sarà difficile evitare crisi di rigetto”.
Questa critica, siamo nel 1991, non impedisce al Partito di votare a favore, contraddicendo e rovesciando la posizione, ben più coraggiosa che nel 1978 aveva preso il suo antesignano PCI.

Nel quadro di queste tre determinanti storiche della scelta, e delle tre insufficienze che comportano nel quadro odierno (dal ’91 la globalizzazione ha totalmente cambiato il quadro, manifestando tutta la sua capacità distruttiva, il dibattito sull’unificazione andrebbe ripreso e non stancamente continuato; l’equilibrio delle forze e delle influenze entro la dinamica Europea andrebbe focalizzato in modo franco e realistico, senza indulgere in sogni ed autoinganni, e senza cinismi e furbizie;  l’assetto ideologico, tutto politica dell’offerta e certezza nella capacità di equilibrio dei mercati, con il connesso sospetto per la politica democratica, andrebbe aggiornato ai tempi ed alle sfide che sono completamente diverse da quelle degli anni ottanta-novanta) lo “scetticismo” è più che opportuno.

MA se uno non ha una posizione “scettica”, quale ha?

Mi pare siano presenti tre atteggiamenti:
    1-      “L’Eurofedele”, colui che collega alla Moneta Unica degli investimenti identitari ed affettivi, una posizione nel mondo secondo una rappresentazione che vede nella istituzione monetaria la più recente incarnazione di quell’ideale di progresso, apertura, modernizzazione, che è il sostituto funzionale contemporaneo della religione e della trascendenza. L’Euro, ma in modo più ampio il processo di transnazionalizzazione e di caduta delle frontiere nazionali, è lo Spirito della Storia connettendosi a quel potente asse ideologico che muove dall’illuminismo ad oggi la spiritualità dell’occidente. Molto spesso questa ispirazione, per grande parte non cosciente, è quel che impedisce a chi ha una posizione politica e culturale “progressista” di prendere le distanze dal Progetto. E’ la ragione per cui Petruccioli, alla fine, vota a favore.
    2-      “L’Eurodogmatico”, colui che resta prigioniero mentale di una rete di concetti ossificata in dogmi contenuti in una tradizione culturale che ha dominato, praticamente senza opposizione, gli ultimi trenta anni di dibattito economico e politologico, ha avuto una rappresentazione totalizzante sui media, ha ispirato e determinato tutte le carriere nelle istituzioni coinvolte con la gestione e programmazione delle scelte economiche e politiche. La totale coerenza interna, l’eleganza levigata, la massa degli studi, dei dati (derivanti, come sono, da strumenti di rilevazione e concetti organizzativi ad essi coerenti), rende difficile per chi è stato formato in questo milieu vederne i limiti. 

Il Cardinale Bellarmino
    E’, per certi versi, come assistere al dibattito tra il Cardinale Bellarmino (che ebbe parte centrale nella condanna di Giordano Bruno e nel primo processo del 1616 a Galileo Galilei, non nel conclusivo del ’33, dato che morì nel 1620) e lo stesso Galilei: il primo era ricco di dottrina e coerenza, aveva grande dirittura morale, ed era nella posizione di potere; il secondo aveva il futuro dalla sua, ma non il presente, la sua posizione aveva elementi di debolezza ma ridefiniva i parametri del sapere. Nella straordinaria lettera che il Cardinale scrive al Priore Paolo Antonio Foscarini, che sostiene le posizioni di Galilei, nel 1615, il primo argomento (parlare per ipotesi, cioè per esercizio mathematico, della centralità del sole e del movimento eliocentrico della terra è una cosa, dire che è vero supera il segno perché “è cosa molto pericolosa non solo d'irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante) assomiglia straordinariamente ad alcune reazioni “Eurodogmatiche”: fino a che si critica accademicamente l’assurdità tecnica dell’Euro va bene, ma dire che bisogna passare nel mondo reale e revocarlo passa il segno e rischia di muovere tutti gli assetti reali del potere, un intero mondo potrebbe essere messo in questione.
     3-      “L’Eurointeressato”, colui, dei tre il più lucido, che ha specifici interessi nella centralità dell’economia finanziaria, e nelle sue istituzioni, sull’economia nazionale che l’Euro contribuisce in modo decisivo a consolidare. Oppure, per individuare un secondo “attore” dell’alleanza, l’industriale orientato alle esportazioni e/o alla delocalizzazione delle strutture produttive per sfruttare il dumping salariale che la caduta di ogni barriera allo spostamento di capitali (in primis il cambio) genera implicitamente. Infine il politico che ha legato la sua carriera al percorso europeo e alla particolare libertà di azione che la dinamica delle “mani legate” genera (è un rovesciamento caratteristico: le arene decisionali opache e democraticamente chiuse nelle quali si prendono decisioni politiche ed amministrative a Bruxelles, limitano l’azione delle arene nazionali nelle quali la maggiore esposizione alla sfera pubblica determina vincoli argomentativi e valoriali più stringenti. Un politico che collochi la sua azione a cavallo delle due sfere è singolarmente libero proprio nel “denunciare” il suo stato di “legato” dalle decisioni europee, che in realtà ha contribuito a formare in associazione con gli altri due attori di cui sopra).

Come ho già detto, se costretto a scegliere, mi spiace, tra le quattro alternative scelgo di essere “Euroscettico”. Confesso, amo Sesto Empirico.

L’ideale sarebbe, entrare nell’area della δξα (doxa) cioè nel dominio dell’«opinione», sapendo di non possedere la certezza obiettiva della verità, ma potendo formare una opinione inter-soggettiva. Giungendo ad una  vera conoscenza (πιστμη) tramite l’aperto e franco esercizio dialettico, partendo dalle varie dòxai.

Ma bisogna andare oltre Bellarmino.


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