Un importante paper (e presentazione)
del National Bureau of Economic Research
USA a firma di Loukas Karabarbounis e Brent Neiman, che
richiama un tema trattato anche dalla FED di San Francisco,
e da innumerevoli altri.
Per affrontarne la lettura
partiremo da un post
di Maurizio Sgroi (@Maitre_à_panZer) sul blog The Walking Debt. Si tratta di un problema distributivo: la
distribuzione della ricchezza prodotta da oltre trenta anni si sta “sbilanciando”
a favore del Capitale ed a danno della quota di ricchezza attribuita alla
remunerazione del Lavoro.
Sgroi esce con una
frase che ci interroga in modo radicale: “cos’altro
è l’eterno dibattito sulla competitività a cui assistiamo ogni giorno se non la
presa d’atto economica di una tendenza che ormai è squisitamente politica?”
La <competitività>
non è altro, cioè che l’etichetta
che racchiude –con il suo falso naturalismo economico- la spinta ad adattarsi,
senza resistenza, alla spinta a massimizzare il saggio di profitto del capitale
liberamente investito (ed altrettanto liberamente disinvestito).
E questa è una questione politica, non economica. Decidere che le questioni
distributive, e di assetto dei poteri, entro la società territorializzata (sia
essa nazionale o europea) siano affidate alla dinamica “naturale” dell’economia,
anziché alla decisionalità politica democratica è il nucleo dell’ideologia
nella quale siamo immersi.
Il Paper, muove non a caso dalla revoca
dell’assunzione di Kaldor (1957) secondo il quale nel lungo periodo le quote
attribuite a lavoro e capitale sono stabili. Dunque tutti i problemi
distributivi relativi possono essere trascurati, per concentrarsi sull’ampliamento
della “torta” (cioè sulla crescita). Una posizione le cui colossali conseguenze
politiche sono evidenti. Non è così: la quota del lavoro è diminuita su un
periodo temporale lungo ed in tutto il mondo. Tutti i modelli macroeconomici
vanno riscritti.
Dunque ciò che è
successo è il risultato di composizione di una dinamica molto semplice: il
lavoro deve costare sempre meno, altrimenti
si ottiene il deflusso dei capitali mobili (cioè di tutti), l’espulsione dai
mercati, l’insostenibilità dei debiti pubblici e privati, i fallimenti. Tutta l’Eurozona,
come giustamente sottolinea Sgroi, è stata sin dalla sua fondazione alla
frontiera di questo movimento. Lo ha attivamente promosso, sia nella guida
conservatrice sia in quella socialdemocratica (per quanto possa essere doloroso
ammetterlo). Ha visto come “destino” questo movimento, ed ha cercato addirittura
di leggerlo come progressivo e liberante.
Ora, intendiamoci, nessuno
era più libero di un aristocratico nell’antico regime, disponendo come classe
(ca. 1% della popolazione) di più della metà del capitale (rappresentato per lo
più dalla terra) e di graditissime esenzioni dai vincoli della legge (in primis
dalle tasse). Tuttavia a questa libertà faceva da necessario contraltare l’oppressione
soffocante dell’80% della popolazione, tenuta sotto controllo dalla religione,
dalla morale, dalle armi. Ed essere amici dei principi è sicuramente
confortevole.
Ma questa
distribuzione, si rileva anche dal Paper
del NBER, che non è certo un Think Thank marxista, genera enormi storture a
livello macroeconomico. Dal 1980 la quota che viene attribuita al lavoro (e
tramite questo messa a disposizione anche del finanziamento del welfare) è in
costante calo. La quota di ricchezza prodotta che viene catturata dal capitale,
cioè dalla struttura proprietaria diretta ed indiretta (con ciò indico i diritti
di proprietà intellettuale), è sempre maggiore e sempre meno socialmente
responsabile. Questi profitti sono mobilissimi e restano sostanzialmente esenti
dalla tassazione (come nell’antico regime).
Nel linguaggio degli
autori, tale tendenza è motivata dall’andamento decrescente del costo degli
impieghi di capitale (cioè dei “beni di investimento”), evidentemente in
rapporto alla produttività, cioè al saggio di profitto ricavabile.
Uno spostamento che
nel periodo è stimato nell’ordine del 25% (cioè il saggio di profitto del
capitale investito è del 25% più profittevole, rispetto all’impiego di forza
lavoro, rispetto agli anni settanta). Tale spostamento epocale è determinato
per gli autori dall’innovazione tecnologica e delle modalità di uso del denaro
(con la liberalizzazione dei flussi e degli impieghi che ne hanno abbattuto
enormemente il costo). Ancora un effetto della competizione (questa volta
applicata al rendimento del capitale), che faceva dire ai “maestri” degli anni
novanta che il capitale avrebbe trovato sempre l’impiego più efficiente a
vantaggio di tutti e senza più crisi.
Il risultato aggregato
è stato invece di ridurre (media mondiale) del 5% la quota lavoro negli ultimi
35 anni. Su 56 paesi monitorati, 38 mostrano questo declino sul 60% delle
industrie (il 20% ha visto aumentare i salari). La relazione statisticamente
significativa rivelata è tra “calo del prezzo relativo di investimento” e
declino della quota di ricchezza assegnata al lavoro. In parole più semplici,
dove una macchina, o un nuovo stabilimento, rende di più cala la quota
attribuita al lavoro (il che, diciamo, è ovvio).
Chiaramente ciò
significa anche, guardando lo stesso fenomeno da un’altra angolazione, che “come
la quota di ricchezza destinata al lavoro è diminuita, sono aumentati i
profitti per le aziende”.
Questo fenomeno è
abbastanza diverso da paese a paese (in Germania, ad esempio, è più
pronunciato) e raggiunge il massimo nel 2005. La forte riduzione dei flussi
transfrontalieri di capitale, determinata dalla crisi del debito e quindi di
fiducia, ha fatto tornare a salire la quota/lavoro. Il che è naturalmente molto interessante.
Si tratta, dunque, di
un fenomeno molto noto e molto ampio, che ha una dimensione strutturale implicante
profondi mutamenti sociali, prima che economici (le due cose, in fondo, sono
etichette dello stesso sistema di fenomeni).
Quel che si dovrebbe
sottolineare è che la descrizione di un fenomeno (anche largo come questo) che “è” (di cui, ovvero, si propone di
considerare l’esistenza) non implica il suo “dover
essere”. E’ possibile, se si ricorda questo, interrogare la situazione data
con due domande: “perché questo ampio
fenomeno ora ‘è’, mentre prima no?” e “quali
sono le sue conseguenze?”.
Nel campo della prima domanda emergono due candidati preminenti per spiegare questa profonda ricomposizione distributiva: la tecnologia e la libertà di movimento dei capitali.
Il secondo candidato
(che, certo, ha alcune tecnologie al suo interno) mi pare legato sostanzialmente
ad un processo di astrazione del denaro che si va dis-ancorando dal lavoro che
rappresenta (chiaramente ‘in ultima istanza’ e con molte precisazioni). Muove
questa astrazione (potentemente trascinata da una pronunciata matematizzazione,
da tecniche finanziarie ed analitiche, dall’uso di infrastrutture di
comunicazione, etc.) un intreccio di processi storici (lo sganciamento del
dollaro dalla nominale parità, con i conseguenti flussi giganteschi messi in
movimento come scrive Rodrik; il crollo del blocco sovietico con l’apertura di
nuovi mercati da centinaia di milioni di abitanti; gli accordi WTO e l’emergere
del far east negli anni novanta). Tutti fenomeni collegati; si tratta nell’insieme
di un vero e proprio nuovo mondo, nel quale il carico della nave nella quale
siamo è stato liberato dai suoi lacci, nella sicurezza che non arriverà mai una
tempesta (in occidente).
Poi ci sono da
considerare le tecnologie
(informatica e sue conseguenze in termini di tecniche di comunicazione,
automazione, intelligenza artificiale) le quali tutte sono caratterizzate dal
‘fare di più con meno’ (lavoro umano). Cioè
da una maggiore efficienza e produttività. Quando si evoca questa
trasformazione se non si fa molta attenzione si resta intrappolati in un’idea
radicalmente incardinata nella nostra visione del mondo: la tecnologia è natura. E’ cioè un fenomeno di accrescimento
cumulativo spontaneo e naturale, che procede per sua propria direzione, e non
si può né fermare né indirizzare. Io sono figlio del novecento (e dunque alla fine concordo), ma osservo che le
tecnologie sono connesse con la società che le rende possibili, sorgono in esse
e per effetto di un sistema di aspirazioni, bisogni, desideri, strutture che è
sociale (un esempio nel campo scientifico di tale visione era espressa da
Thomas Khun). Storicamente molte innovazioni altamente promettenti, con il
senno di poi, sono rimaste silenti o non sviluppate perché la società non era
pronta a richiederle o a desiderarle. Non ne aveva bisogno (esempi potrebbero
farsi nel mondo antico, nel medioevo, ma anche in epoche recenti, compulsando
qualche libro di storia della tecnologia). La questione è quindi è “perché ora?”.
La seconda domanda:
per me è la più importante: “quali sono
le sue conseguenze?”. Nei nostri paesi occidentali, ad alta densità
demografica e tenore di vita, con livelli di infrastruttura ereditate e di
capitale fisso sociale molto elevati, con attese di vita e di comportamento
date, con strutture giuridiche e valoriali consolidate, questo spostamento (che
per la maggioranza è arretramento) porta nel medio termine un’insopportabile instabilità
politica e sociale.
Lo stiamo appena
iniziando a vedere. Un sistema che avvantaggia in modo essenziale il capitale
astratto, mobile ed irresponsabile, non è
stabile né sostenibile.
Letteralmente non può
durare. Né
lo deve.
Dunque il problema è
individuare una struttura stabile e sostenibile, definire una transizione in
essa; oppure subire il crollo di una struttura sociale che va a vantaggio di
troppi pochi per sostenersi durevolmente.
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