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lunedì 16 giugno 2014

NBER “Il declino globale della quota lavoro”


Un importante paper (e presentazione) del National Bureau of Economic Research USA a firma di Loukas Karabarbounis e Brent Neiman, che richiama un tema trattato anche dalla FED di San Francisco, e da innumerevoli altri.
Per affrontarne la lettura partiremo da un post di Maurizio Sgroi (@Maitre_à_panZer) sul blog The Walking Debt. Si tratta di un problema distributivo: la distribuzione della ricchezza prodotta da oltre trenta anni si sta “sbilanciando” a favore del Capitale ed a danno della quota di ricchezza attribuita alla remunerazione del Lavoro.
Sgroi esce con una frase che ci interroga in modo radicale: “cos’altro è l’eterno dibattito sulla competitività a cui assistiamo ogni giorno se non la presa d’atto economica di una tendenza che ormai è squisitamente politica?”
La <competitività> non è altro, cioè che l’etichetta che racchiude –con il suo falso naturalismo economico- la spinta ad adattarsi, senza resistenza, alla spinta a massimizzare il saggio di profitto del capitale liberamente investito (ed altrettanto liberamente disinvestito). E questa è una questione politica, non economica. Decidere che le questioni distributive, e di assetto dei poteri, entro la società territorializzata (sia essa nazionale o europea) siano affidate alla dinamica “naturale” dell’economia, anziché alla decisionalità politica democratica è il nucleo dell’ideologia nella quale siamo immersi.
Il Paper, muove non a caso dalla revoca dell’assunzione di Kaldor (1957) secondo il quale nel lungo periodo le quote attribuite a lavoro e capitale sono stabili. Dunque tutti i problemi distributivi relativi possono essere trascurati, per concentrarsi sull’ampliamento della “torta” (cioè sulla crescita). Una posizione le cui colossali conseguenze politiche sono evidenti. Non è così: la quota del lavoro è diminuita su un periodo temporale lungo ed in tutto il mondo. Tutti i modelli macroeconomici vanno riscritti.


Dunque ciò che è successo è il risultato di composizione di una dinamica molto semplice: il lavoro deve costare sempre meno, altrimenti si ottiene il deflusso dei capitali mobili (cioè di tutti), l’espulsione dai mercati, l’insostenibilità dei debiti pubblici e privati, i fallimenti. Tutta l’Eurozona, come giustamente sottolinea Sgroi, è stata sin dalla sua fondazione alla frontiera di questo movimento. Lo ha attivamente promosso, sia nella guida conservatrice sia in quella socialdemocratica (per quanto possa essere doloroso ammetterlo). Ha visto come “destino” questo movimento, ed ha cercato addirittura di leggerlo come progressivo e liberante.
Ora, intendiamoci, nessuno era più libero di un aristocratico nell’antico regime, disponendo come classe (ca. 1% della popolazione) di più della metà del capitale (rappresentato per lo più dalla terra) e di graditissime esenzioni dai vincoli della legge (in primis dalle tasse). Tuttavia a questa libertà faceva da necessario contraltare l’oppressione soffocante dell’80% della popolazione, tenuta sotto controllo dalla religione, dalla morale, dalle armi. Ed essere amici dei principi è sicuramente confortevole.

Ma questa distribuzione, si rileva anche dal Paper del NBER, che non è certo un Think Thank marxista, genera enormi storture a livello macroeconomico. Dal 1980 la quota che viene attribuita al lavoro (e tramite questo messa a disposizione anche del finanziamento del welfare) è in costante calo. La quota di ricchezza prodotta che viene catturata dal capitale, cioè dalla struttura proprietaria diretta ed indiretta (con ciò indico i diritti di proprietà intellettuale), è sempre maggiore e sempre meno socialmente responsabile. Questi profitti sono mobilissimi e restano sostanzialmente esenti dalla tassazione (come nell’antico regime).

Nel linguaggio degli autori, tale tendenza è motivata dall’andamento decrescente del costo degli impieghi di capitale (cioè dei “beni di investimento”), evidentemente in rapporto alla produttività, cioè al saggio di profitto ricavabile.



Uno spostamento che nel periodo è stimato nell’ordine del 25% (cioè il saggio di profitto del capitale investito è del 25% più profittevole, rispetto all’impiego di forza lavoro, rispetto agli anni settanta). Tale spostamento epocale è determinato per gli autori dall’innovazione tecnologica e delle modalità di uso del denaro (con la liberalizzazione dei flussi e degli impieghi che ne hanno abbattuto enormemente il costo). Ancora un effetto della competizione (questa volta applicata al rendimento del capitale), che faceva dire ai “maestri” degli anni novanta che il capitale avrebbe trovato sempre l’impiego più efficiente a vantaggio di tutti e senza più crisi.

Il risultato aggregato è stato invece di ridurre (media mondiale) del 5% la quota lavoro negli ultimi 35 anni. Su 56 paesi monitorati, 38 mostrano questo declino sul 60% delle industrie (il 20% ha visto aumentare i salari). La relazione statisticamente significativa rivelata è tra “calo del prezzo relativo di investimento” e declino della quota di ricchezza assegnata al lavoro. In parole più semplici, dove una macchina, o un nuovo stabilimento, rende di più cala la quota attribuita al lavoro (il che, diciamo, è ovvio).



Chiaramente ciò significa anche, guardando lo stesso fenomeno da un’altra angolazione, che “come la quota di ricchezza destinata al lavoro è diminuita, sono aumentati i profitti per le aziende”.

Questo fenomeno è abbastanza diverso da paese a paese (in Germania, ad esempio, è più pronunciato) e raggiunge il massimo nel 2005. La forte riduzione dei flussi transfrontalieri di capitale, determinata dalla crisi del debito e quindi di fiducia, ha fatto tornare a salire la quota/lavoro. Il che è naturalmente molto interessante.  


  
Si tratta, dunque, di un fenomeno molto noto e molto ampio, che ha una dimensione strutturale implicante profondi mutamenti sociali, prima che economici (le due cose, in fondo, sono etichette dello stesso sistema di fenomeni).
Quel che si dovrebbe sottolineare è che la descrizione di un fenomeno (anche largo come questo) che “è” (di cui, ovvero, si propone di considerare l’esistenza) non implica il suo “dover essere”. E’ possibile, se si ricorda questo, interrogare la situazione data con due domande: “perché questo ampio fenomeno ora ‘è’, mentre prima no?” e “quali sono le sue conseguenze?”.

Nel campo della prima domanda emergono due candidati preminenti per spiegare questa profonda ricomposizione distributiva: la tecnologia e la libertà di movimento dei capitali.
Il secondo candidato (che, certo, ha alcune tecnologie al suo interno) mi pare legato sostanzialmente ad un processo di astrazione del denaro che si va dis-ancorando dal lavoro che rappresenta (chiaramente ‘in ultima istanza’ e con molte precisazioni). Muove questa astrazione (potentemente trascinata da una pronunciata matematizzazione, da tecniche finanziarie ed analitiche, dall’uso di infrastrutture di comunicazione, etc.) un intreccio di processi storici (lo sganciamento del dollaro dalla nominale parità, con i conseguenti flussi giganteschi messi in movimento come scrive Rodrik; il crollo del blocco sovietico con l’apertura di nuovi mercati da centinaia di milioni di abitanti; gli accordi WTO e l’emergere del far east negli anni novanta). Tutti fenomeni collegati; si tratta nell’insieme di un vero e proprio nuovo mondo, nel quale il carico della nave nella quale siamo è stato liberato dai suoi lacci, nella sicurezza che non arriverà mai una tempesta (in occidente).

Poi ci sono da considerare le tecnologie (informatica e sue conseguenze in termini di tecniche di comunicazione, automazione, intelligenza artificiale) le quali tutte sono caratterizzate dal ‘fare di più con meno’ (lavoro umano). Cioè da una maggiore efficienza e produttività. Quando si evoca questa trasformazione se non si fa molta attenzione si resta intrappolati in un’idea radicalmente incardinata nella nostra visione del mondo: la tecnologia è natura. E’ cioè un fenomeno di accrescimento cumulativo spontaneo e naturale, che procede per sua propria direzione, e non si può né fermare né indirizzare. Io sono figlio del novecento (e dunque alla fine concordo), ma osservo che le tecnologie sono connesse con la società che le rende possibili, sorgono in esse e per effetto di un sistema di aspirazioni, bisogni, desideri, strutture che è sociale (un esempio nel campo scientifico di tale visione era espressa da Thomas Khun). Storicamente molte innovazioni altamente promettenti, con il senno di poi, sono rimaste silenti o non sviluppate perché la società non era pronta a richiederle o a desiderarle. Non ne aveva bisogno (esempi potrebbero farsi nel mondo antico, nel medioevo, ma anche in epoche recenti, compulsando qualche libro di storia della tecnologia). La questione è quindi è “perché ora?”.

La seconda domanda: per me è la più importante: “quali sono le sue conseguenze?”. Nei nostri paesi occidentali, ad alta densità demografica e tenore di vita, con livelli di infrastruttura ereditate e di capitale fisso sociale molto elevati, con attese di vita e di comportamento date, con strutture giuridiche e valoriali consolidate, questo spostamento (che per la maggioranza è arretramento) porta nel medio termine un’insopportabile instabilità politica e sociale.
Lo stiamo appena iniziando a vedere. Un sistema che avvantaggia in modo essenziale il capitale astratto, mobile ed irresponsabile, non è stabile né sostenibile.

Letteralmente non può durare. Né lo deve.


Dunque il problema è individuare una struttura stabile e sostenibile, definire una transizione in essa; oppure subire il crollo di una struttura sociale che va a vantaggio di troppi pochi per sostenersi durevolmente.

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