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martedì 3 giugno 2014

Inflazione e Quantitative Easing: azione permanente o no?


Due articoli di qualche giorno fa introducono la stessa riflessione, in USA e in Europa, Il New York Times racconta di un dibattito circa la permanenza o meno della politica di acquisti di titoli condotta a partire dalla crisi del 2008 dalla FED.
L’autorevole giornale americano si chiede se il QE diventerà alla fine uno strumento permanente della cassetta degli attrezzi delle Banche Centrali, citando un nuovo documento dell’economista Benjamin Friedman della Harward University, pubblicato da National Bureau of Economic Research (quindi una fonte notevolmente autorevole). Dunque la tradizionale politica dei tassi di interesse a breve termine sarà, secondo Friedman, affiancata in avvenire dell’uso del bilancio della Banca Centrale che si è dimostrato efficace per abbassare i tassi a lungo termine e i tassi sui prodotti più rischiosi.
La controversia intorno a questo strumento vede da una parte il Presidente Janet Yellen, che ne elogia l’utilità ad altri (insieme ad eminenti economisti) a sostenere che l’utilità del programma è calante nel tempo e non riesce ad aggredire ulteriormente la disoccupazione (che è al 6,3%).
D’altra parte l’altra arma tradizionale, la semplice parola, cioè l’investimento della propria reputazione per indicare il futuro non è stato molto efficace.

Secondo Friedman l’esperienza di questi ultimi anni “rischia si scuotere le fondamenta della teoria monetaria e il modo in cui gli economisti pensano all’influenza della moneta sui tassi di interesse”.

Dall’altra parte dell’oceano, il Financial Times, descrive un’animata riunione della BCE nella quale Paul Krugman ha teatralmente condotto una discussione restando in piedi a pochi metri da Mario Draghi in un evento che l'autorità monetaria della zona euro spera di far diventare la propria versione di Jackson Hole. La http://blogs.ft.com/the-world/wp-includes/js/tinymce/plugins/wordpress/img/trans.giftesi di Krugman si basava sulla sua prognosi per “la nuova normalità” che attenderebbe le grandi economie avanzate dopo la crisi; dunque sulla valutazione che il 2 %, anche ammesso fosse opportuno nel 1990, non lo sarà in futuro. Un insieme di fattori come i cambiamenti demografici e la mancanza della leva finanziaria, stanno per creare un mondo dove i livelli di domanda aggregata saranno molto più bassi rispetto a prima dello schianto. Secondo le sue parole: “stiamo guardando una politica di austerità naturale ... è molto facile pensare che potrebbe spingere il tasso di interesse reale a un livello in cui è persistentemente negativo”. Per questo sarebbe necessario definire un obiettivo più alto allo scopo di attivare le economie che soffrono di bassa inflazione (come la zona euro) per sfuggire alla trappola stimolando la domanda aggregata. La spinta arriverebbe attraverso la politica di allentamento che un obiettivo più alto implicherebbe. 

Calo popolazione attiva in Europa
La dichiarazione di Krugman ha subito incontrato forti opposizioni: ad esempio Otmar Issing, ex membro del Consiglio Bce e Bundesbank, a suo tempo una delle figure più importanti nella fissazione degli obiettivi della Banca Centrale ha difeso il suo precedente operato sostenendo la pericolosità di una inflazione più alta “sul benessere” (non so se ha chiarito di chi). Agustin Carstens, Governatore della Banca del Messico, ha rispolverato il sempreverde spauracchio argentino, dove l'inflazione è aumentata rapidamente negli ultimi anni ..
James Bullard, dalla FED di St Louis, è stato invece più solidale, concordando con il paper, ma insieme ha dichiarato che è più facile da dirsi che da farsi. Inoltre ha condiviso la descrizione degli effetti di benessere citata dal signor Issing, sostenendo che l'inflazione nel corso della storia aveva colpito più duramente i più poveri.

Altri si sono chiesti se una Banca Centrale che non può nemmeno colpire un obiettivo del 2 % sarebbe in grado di alimentare l'inflazione semplicemente alzando il suo obiettivo.


Una buona domanda.

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