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mercoledì 18 giugno 2014

“Mosse del cavallo e Arrocchi”, la strategia energetica divergente di Italia e Russia.


Pubblico anche qui una versione leggermente ampliata dell’articolo che ho scritto per Greenbiz, perché ormai il Decreto Legge sta per essere pubblicato, e contiene una misura retroattiva che taglia gli incentivi a poco più di 8.000 impianti fotovoltaici di potenza industriale (superiore a 200 kW, cioè a 4-500.000,00 euro di investimento), per intenderci, lo spazio occupato da un piccolo capannone da 1.000 mq ed una produzione elettrica del tutto inferiore al relativo consumo. Quando si guarda agli impianti fotovoltaici, si pensa sempre ai grandi megaimpianti a terra su suolo agricolo, realizzati da fondi di investimento stranieri.
Ma questi sono solo 1.134 impianti (Fonte Atlasole) per 3.710 MW; inoltre solo alcuni sono stati realizzati da fondi e per la maggior parte sono comunque finanziati da banche italiane. Nella taglia da 200 kW a 1.000 kW (dimensione “imprenditoriale”, per lo più realizzati da imprenditori italiani e da industrie piccole e medie) troviamo, invece, 11.127 impianti per 7.282 MW.
Questi impianti, che su 11.000 siti italiani realizzano una potenza istallata di ca 11.000 MW (capace di generare 13.200 GWh in un anno, contribuiscono a determinare questa situazione (Fonte Terna).

Consumo e produzione elettrica Italia 2013-14

A fronte di una domanda continuamente calante (per la crisi principalmente), abbiamo un sensibile calo della produzione realizzata da centrali termiche a gas e carbone (che passa dai 15.000 GWh/mese dell’inizio 2013 a poco più di 12.000 oggi) mentre la produzione da rinnovabili continua a crescere.

Sembrerebbe una buona notizia.

Non per chi produce l’energia da fossili che ha un grosso problema: ha investimenti ingenti che vengono spiazzati dalla produzione dei nuovi venuti.
Di fronte a questi problemi bisogna avere una strategia energetica. Non una retorica.
Ma dire che l’Italia ha una strategia energetica è sicuramente un azzardo. Disponiamo di alcuni restii documenti ufficiali, cui siamo stati obbligati dall’Unione Europea, e di una ondeggiante comunicazione pubblica, per lo più schiacciata sulla voce del più forte e sempre in cerca dell’argomento più “vendibile”.

Nell’Assemblea del PD di sabato 14 giugno, il Presidente del Consiglio e Segretario, ci si augura nella seconda veste ha detto “Abbiamo riempito di sussidi chi investiva sulle rinnovabili, ma il costo in bolletta lo hanno pagato gli italiani. Siamo arrivati al paradosso che una misura che avrebbe dovuto favorire la sostenibilità ambientale abbia provocato una difficoltà in più”.
Questo “paradosso” non è a chi scrive molto chiaro: non lo è, cioè, la misura in cui le rinnovabili provochino “una difficoltà in più”; mentre lo è abbastanza quella in cui favoriscono la sostenibilità ambientale.
Come avevo scritto su Greenbiz nell’articolo “Perché si dimenticano gli impatti positivi delle rinnovabili?” le rinnovabili, in questi anni, hanno portato investimenti interni ed esterni per ca. 90 miliardi di euro (concentrati per lo più in soli tre anni), producono ormai il 52% delle vendite di energia sul MGP (fonte GME), nel loro ciclo di vita consentiranno di risparmiare oltre mezzo miliardo di tonnellate di CO2 emessa in atmosfera, e di non comprare 300 miliardi di mc di metano (per un controvalore di 85 miliardi di euro), di risparmiare 42 miliardi di tonnellate di acqua. E’ come se quasi 2 milioni di abitanti italiani non emettessero più CO2 in atmosfera, 9 milioni non consumassero metano, 11 milioni acqua. O, ancora, come se nel ciclo di vita fossimo in grado di produrre ben 240 miliardi di PIL senza utilizzo di energia fossile.

In “Big Blue il fiume della storia” avevo invece scritto che quel che sta succedendo con la nostra energia è una cosa semplicissima: la vecchia produzione concentrata, sostenuta da economie di scala imbattibili, è stata spiazzata da un salto di paradigma tecnologico. La componentistica per produrre energia senza costi di approvvigionamento di materie prime combustibili è diventata economica, semplice, flessibile e scalabile e ci sta portando ad un passaggio di fase nella secolare dipendenza dell’umanità dall’energia.

Ecco forse comparire “la difficoltà in più”: sono le società dominanti del settore energetico, abituate a contendersi un mercato dove gli operatori si contano sulle dita di massimo due mani, che si trovano in gravissima difficoltà e “cercano di fermare il fiume con le loro grandi mani”.

Ma perché il Segretario del PD ha fatto questo passaggio nel suo discorso? Lo vedremo tra poco in Gazzetta Ufficiale, nell’altra sua veste, malgrado la chiarissima valutazione di incostituzionalità fatta da Onida con ottime ragioni che qui non si riportano, il Governo nella seduta del 14 ha promulgato una rimodulazione retroattiva, incidente su condizioni contrattuali definite, degli incentivi. Sull’assurdità giuridica ed economica di questo provvedimento mi ero giù espresso in “Opportunità e certezza del diritto” e dunque non ci torno.

Nel frattempo, però, è anche uscito il n. 72 della Newsletter mensile del Gestore del Mercato Elettrico, che ci consente di mettere a confronto “l’Arrocco” del Governo Italiano, con la “Mossa del Cavallo” di Putin. L’evento più drammaticamente nuovo della fase che stiamo attraversando è sicuramente la Crisi Ucraina che ormai sta scivolando verso la guerra civile conclamata. Sono centinaia i morti che si ripetono, come d’uso nella generale indifferenza occidentale, nella regione orientale del paese. Ma per questa passano la maggior parte dei gasodotti che alimentano l’Europa continentale.


Dunque un possibile esito della crisi è l’interruzione delle forniture di gas russo all’Europa. Questa ipotesi è legata non solo ad eventi bellici in senso proprio (la distruzione fisica) ma anche agli esiti del braccio di ferro decisivo che si sta giocando in riferimento ai destini della regione e dell’intero margine orientale europeo.
Cosa c’entra questo con le rinnovabili? Il GME ci ricorda che il 30% degli 86 mld di mc che arrivano dai tubi Ucraini arrivano in Italia (le rinnovabili non idriche, insieme, consentono di non consumarne all’incirca la stessa entità), gli altri paesi grandi consumatori sono Turchia e Germania. E conclude che un taglio di lunga durata creerebbe difficoltà.

Certamente in entrambe le direzioni: infatti se noi ci troveremmo senza gas loro resterebbero senza euri. E qui si incontrano le reciproche strategie per rendersi indipendenti (al fine di esercitare pressione geopolitica senza subirne la contropartita): l’Unione Europea vuole diversificare le sue fonti di approvvigionamento, e parla di fare nuovi metanodotti, o nuovi rigassificatori; la Russia vuole trovare nuovi clienti. A maggio abbiamo avuto un G7 Ministeriale sull’Energia, al quale Putin è stato lasciato “fuori della porta” (peccato che uno ad uno sono andati tutti a trovarlo) a Roma. Purtroppo in questo vertice abbiamo visto che gli USA non sono tanto disposti a toglierci le castagne dal fuoco, autorizzando l’esportazione di LNG prodotto dallo Shale gas in patria, e che i paesi europei (tanto per cambiare) vanno in ordine sparso; dunque alla fine solo poche misure e lunghe sono state annunciate.
Invece Putin ha agito; il 21 maggio, mentre la polvere del vertice non si era ancora abbassata, ha firmato un Accordo con Xi Jinping per esportare in Cina 38 miliardi di mc per trenta anni. Una firma storica, che supera decenni di ostilità e modifica tutta la geopolitica mondiale del gas. Il cavallo russo ha dato scacco.

Se l’Europa, in futuro avrà bisogno di gas (ad esempio per rendere possibile la reindustrializzazione in Italia e Francia) non potrà quindi far conto sui nuovi giacimenti siberiani. La prevista crescita dei consumi da 307 miliardi a 423 nel 2030 non è più chiaro da dove possa arrivare. Diamo la parola al GME “da dove proverranno queste quantità addizionali è tutto da vedere, alla luce delle difficoltà che attraversano alcuni principali fornitori europei (Libia, Algeria, Nigeria, Egitto) e delle convenienze relative dei diversi mercati regionali che rendono quelli asiatici (per ora) molto più appetibili” (p.25). Il mercato, per rendere possibili i colossali investimenti pluriennali indispensabili per realizzare le infrastrutture energetiche avrebbe bisogno, infatti, di prezzi garantiti e contratti pluriennali (cioè dei vituperati incentivi a carico dei consumatori, questa volta del gas). I prezzi volatili (delle “transazioni spot”) non possono garantire la sicurezza energetica. Giustamente l’autore (Clò) ci ricorda che questa (la sicurezza energetica) è un “bene pubblico” di cui gli Stati devono assumersi la responsabilità allocando il rischio tra venditore ed acquirenti in modo da rendere possibili i necessari investimenti.
Si tratta esattamente di ciò che si fa, per effetto delle indicazioni delle Direttive Europee di settore, quando si garantisce un prezzo fisso a chi fa investimenti (altrimenti) ad alto rischio sulle energie rinnovabili, distribuendo questo “tra acquirenti e venditori”. Il vantaggio per gli acquirenti è di ridurre il rischio climatico e di contribuire a stabilizzare il prezzo, quello dei venditori è di ottenere la fattibilità dell’investimento.
Che succederebbe se le forniture di gas cessassero e dovessimo comprare tutto dall’Africa a qualunque prezzo?

Tutte le considerazioni che si fanno per l’approvvigionamento di gas metano sarebbero invece meno critiche e meno pericolose per l’Italia se questa avesse una quota maggiore di energia prodotta da fonti rinnovabili autoctone (cioè dal sole e dal vento, in misura minore dalle biomasse, in misura molto superiore dalla geotermia e dalla risorsa idroelettrica e del moto ondoso). Per questo ciò che dice il Gestore del Mercato Elettrico sul “bene pubblico” primario “sicurezza energetica” e sulla necessità di allocare il rischio tra venditore ed acquirente per rendere possibili gli investimenti vale anche (ma direi soprattutto) per le rinnovabili.


Se “nell’energia guardare al breve è guardare il dito anziché la luna” (come ci ricorda il GME),  mi permetterei di invitare a togliere l’occhio dall’anellino. 

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