Pubblico anche
qui una versione leggermente ampliata dell’articolo
che ho scritto per Greenbiz, perché ormai
il Decreto Legge sta per essere
pubblicato, e contiene una misura retroattiva che taglia gli incentivi a poco
più di 8.000 impianti fotovoltaici di potenza industriale (superiore a 200 kW,
cioè a 4-500.000,00 euro di investimento), per intenderci, lo spazio occupato
da un piccolo capannone da 1.000 mq ed una produzione elettrica del tutto
inferiore al relativo consumo. Quando si guarda agli impianti fotovoltaici, si
pensa sempre ai grandi megaimpianti a terra su suolo agricolo, realizzati da
fondi di investimento stranieri.
Ma questi sono
solo 1.134 impianti (Fonte Atlasole)
per 3.710 MW; inoltre solo alcuni sono stati realizzati da fondi e per la
maggior parte sono comunque finanziati da banche italiane. Nella taglia da 200
kW a 1.000 kW (dimensione “imprenditoriale”, per lo più realizzati da
imprenditori italiani e da industrie piccole e medie) troviamo, invece, 11.127
impianti per 7.282 MW.
Questi impianti,
che su 11.000 siti italiani realizzano una potenza istallata di ca 11.000 MW
(capace di generare 13.200 GWh in un anno, contribuiscono a determinare questa
situazione (Fonte Terna).
Consumo e produzione elettrica Italia 2013-14 |
A fronte di una
domanda continuamente calante (per la crisi principalmente), abbiamo un
sensibile calo della produzione realizzata da centrali termiche a gas e carbone
(che passa dai 15.000 GWh/mese dell’inizio 2013 a poco più di 12.000 oggi)
mentre la produzione da rinnovabili continua a crescere.
Sembrerebbe una
buona notizia.
Non per chi
produce l’energia da fossili che ha un grosso problema: ha investimenti ingenti
che vengono spiazzati dalla produzione dei nuovi venuti.
Di fronte a questi
problemi bisogna avere una strategia energetica. Non una retorica.
Ma dire che l’Italia ha una strategia energetica è
sicuramente un azzardo. Disponiamo di
alcuni restii documenti ufficiali, cui siamo stati obbligati dall’Unione Europea,
e di una ondeggiante comunicazione pubblica, per lo più schiacciata sulla voce
del più forte e sempre in cerca dell’argomento più “vendibile”.
Nell’Assemblea
del PD di sabato 14 giugno, il Presidente del Consiglio e Segretario, ci si
augura nella seconda veste ha detto “Abbiamo riempito di sussidi chi investiva
sulle rinnovabili, ma il costo in bolletta lo hanno pagato gli italiani. Siamo
arrivati al paradosso che una misura che avrebbe dovuto favorire la
sostenibilità ambientale abbia provocato una difficoltà in più”.
Questo
“paradosso” non è a chi scrive molto chiaro: non lo è, cioè, la misura in cui le
rinnovabili provochino “una difficoltà in più”; mentre lo è abbastanza quella
in cui favoriscono la sostenibilità ambientale.
Come avevo
scritto su Greenbiz nell’articolo “Perché si dimenticano gli impatti positivi delle
rinnovabili?” le rinnovabili, in
questi anni, hanno portato investimenti interni ed esterni per ca. 90 miliardi
di euro (concentrati per lo più in soli tre anni), producono ormai il 52% delle
vendite di energia sul MGP (fonte GME), nel loro ciclo di vita consentiranno di
risparmiare oltre mezzo miliardo di tonnellate di CO2 emessa in
atmosfera, e di non comprare 300 miliardi di mc di metano (per un controvalore
di 85 miliardi di euro), di risparmiare 42 miliardi di tonnellate di acqua. E’
come se quasi 2 milioni di abitanti italiani non emettessero più CO2
in atmosfera, 9 milioni non consumassero metano, 11 milioni acqua. O, ancora,
come se nel ciclo di vita fossimo in grado di produrre ben 240 miliardi di PIL
senza utilizzo di energia fossile.
In “Big Blue il fiume della storia” avevo invece scritto che quel che sta succedendo
con la nostra energia è una cosa semplicissima: la vecchia produzione
concentrata, sostenuta da economie di scala imbattibili, è stata spiazzata da
un salto di paradigma tecnologico. La componentistica per produrre energia
senza costi di approvvigionamento di materie prime combustibili è diventata
economica, semplice, flessibile e scalabile e ci sta portando ad un passaggio
di fase nella secolare dipendenza dell’umanità dall’energia.
Ecco forse
comparire “la difficoltà in più”:
sono le società dominanti del settore energetico, abituate a contendersi un
mercato dove gli operatori si contano sulle dita di massimo due mani, che si
trovano in gravissima difficoltà e “cercano di fermare il fiume con le loro
grandi mani”.
Ma perché il
Segretario del PD ha fatto questo passaggio nel suo discorso? Lo vedremo tra
poco in Gazzetta Ufficiale, nell’altra sua veste, malgrado la chiarissima
valutazione di incostituzionalità fatta da Onida
con ottime ragioni che qui non si riportano, il Governo nella seduta del 14 ha
promulgato una rimodulazione retroattiva, incidente su condizioni contrattuali
definite, degli incentivi. Sull’assurdità giuridica ed economica di questo
provvedimento mi ero giù espresso in “Opportunità e certezza del diritto” e dunque non ci torno.
Nel frattempo,
però, è anche uscito il n. 72
della Newsletter mensile del Gestore del
Mercato Elettrico, che ci consente di mettere a confronto “l’Arrocco” del
Governo Italiano, con la “Mossa del Cavallo” di Putin. L’evento più
drammaticamente nuovo della fase che stiamo attraversando è sicuramente la Crisi
Ucraina che ormai sta scivolando verso la guerra civile conclamata. Sono
centinaia i morti che si ripetono, come d’uso nella generale indifferenza
occidentale, nella regione orientale del paese. Ma per questa passano la
maggior parte dei gasodotti che alimentano l’Europa continentale.
Dunque un
possibile esito della crisi è l’interruzione delle forniture di gas russo
all’Europa. Questa ipotesi è legata non solo ad eventi bellici in senso proprio
(la
distruzione fisica) ma anche agli esiti del braccio di ferro decisivo che
si sta giocando in riferimento ai destini della regione e dell’intero margine
orientale europeo.
Cosa c’entra
questo con le rinnovabili? Il GME ci ricorda che il 30% degli 86 mld di mc che
arrivano dai tubi Ucraini arrivano in Italia (le rinnovabili non idriche,
insieme, consentono di non consumarne all’incirca la stessa entità), gli altri
paesi grandi consumatori sono Turchia e Germania. E conclude che un taglio di lunga durata creerebbe difficoltà.
Certamente in
entrambe le direzioni: infatti se noi ci troveremmo senza gas loro resterebbero
senza euri. E qui si incontrano le reciproche strategie per rendersi
indipendenti (al fine di esercitare pressione geopolitica senza subirne la
contropartita): l’Unione Europea vuole diversificare le sue fonti di
approvvigionamento, e parla di fare nuovi metanodotti, o nuovi rigassificatori;
la Russia vuole trovare nuovi clienti. A maggio abbiamo avuto un G7 Ministeriale sull’Energia, al quale
Putin è stato lasciato “fuori della porta” (peccato che uno ad uno sono andati
tutti a trovarlo) a Roma. Purtroppo in questo vertice abbiamo visto che gli USA
non sono tanto disposti a toglierci le castagne dal fuoco, autorizzando
l’esportazione di LNG prodotto dallo Shale gas in patria, e che i paesi europei
(tanto per cambiare) vanno in ordine sparso; dunque alla fine solo poche misure
e lunghe sono state annunciate.
Invece Putin ha agito; il 21 maggio, mentre la polvere del vertice non si
era ancora abbassata, ha firmato un Accordo con Xi Jinping per esportare in
Cina 38 miliardi di mc per trenta anni. Una firma storica, che supera decenni
di ostilità e modifica tutta la geopolitica mondiale del gas. Il
cavallo russo ha dato scacco.
Se l’Europa, in
futuro avrà bisogno di gas (ad esempio per rendere possibile la
reindustrializzazione in Italia e Francia) non potrà quindi far conto sui nuovi
giacimenti siberiani. La prevista crescita dei consumi da 307 miliardi a 423
nel 2030 non è più chiaro da dove possa arrivare. Diamo la parola al GME “da dove proverranno queste quantità
addizionali è tutto da vedere, alla luce delle difficoltà che attraversano
alcuni principali fornitori europei (Libia, Algeria, Nigeria, Egitto) e delle
convenienze relative dei diversi mercati regionali che rendono quelli asiatici
(per ora) molto più appetibili” (p.25). Il mercato, per rendere possibili i
colossali investimenti pluriennali indispensabili per realizzare le
infrastrutture energetiche avrebbe bisogno, infatti, di prezzi garantiti e
contratti pluriennali (cioè dei vituperati incentivi a carico dei consumatori,
questa volta del gas). I prezzi volatili (delle “transazioni spot”) non possono
garantire la sicurezza energetica. Giustamente l’autore (Clò) ci ricorda che
questa (la sicurezza energetica) è un “bene pubblico” di cui gli Stati devono
assumersi la responsabilità allocando il rischio tra venditore ed acquirenti in
modo da rendere possibili i necessari investimenti.
Si tratta esattamente
di ciò che si fa, per effetto delle indicazioni delle Direttive Europee di
settore, quando si garantisce un prezzo fisso a chi fa investimenti (altrimenti)
ad alto rischio sulle energie rinnovabili, distribuendo questo “tra acquirenti
e venditori”. Il vantaggio per gli acquirenti è di ridurre il rischio climatico
e di contribuire a stabilizzare il prezzo, quello dei venditori è di ottenere
la fattibilità dell’investimento.
Che succederebbe
se le forniture di gas cessassero e dovessimo comprare tutto dall’Africa a
qualunque prezzo?
Tutte le
considerazioni che si fanno per l’approvvigionamento di gas metano sarebbero invece
meno critiche e meno pericolose per l’Italia se questa avesse una quota
maggiore di energia prodotta da fonti rinnovabili autoctone (cioè dal sole e
dal vento, in misura minore dalle biomasse, in misura molto superiore dalla
geotermia e dalla risorsa idroelettrica e del moto ondoso). Per questo ciò che
dice il Gestore del Mercato Elettrico
sul “bene pubblico” primario “sicurezza energetica” e sulla necessità di
allocare il rischio tra venditore ed acquirente per rendere possibili gli
investimenti vale anche (ma direi soprattutto) per le rinnovabili.
Se “nell’energia
guardare al breve è guardare il dito anziché la luna” (come ci ricorda il GME), mi permetterei di invitare a togliere
l’occhio dall’anellino.
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