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martedì 17 giugno 2014

The Economist, “Nuvole davanti” alla Germania


Un interessante Articolo su The Economist sulla situazione in prospettiva della Germania dopo l’azione della BCE di qualche giorno fa. La situazione generale vede la Germania tenere l’Unione Europea fuori della zona deflazione con la sua crescita del 0,8%, e la prevista accelerazione al 2% per i prossimi due anni, ciò grazie ad un surplus nella bilancia commerciale del 7% a partire dal 2006, e del 7,5% nel 2013. E malgrado la debolezza della zona Euro (il suo essere “malaticcia”) come dice l’autore, abbia portato il surplus con essa della Germania a calare dal 4,5% a solo il 2,1% nel 2013 (è lo stesso fenomeno che rimarcava Daveri). La cosa è stata compensata con l’espansione delle esportazioni di macchinari e merci nei paesi emergenti.
Sostenuta da una competitività relativa (cioè da un rapporto tra costo del lavoro, che è tra i più alti in assoluto, come rimarca anche Krugman, accompagnato però da un’alta produttività e da un cambio relativamente favorevole) l’economia tiene al lavoro ben 42 milioni di persone, con una disoccupazione tra le più basse, al 5,2%.
Questa situazione produce, secondo l’autore, soddisfacenti ricavi fiscali e oneri sul debito molto bassi (a causa dello status di bene rifugio dei titoli tedeschi).

Dunque le condizioni attuali vedono la Germania come un’isola di forza (un “baluardo di forza”) in una zona Euro fragile (il che, se mi permettete, non è un caso).  
Ma a lungo termine il quadro cambia colore. Intanto, come noto, il tasso di natalità è molto al di sotto del “tasso di sostituzione”, e ciò sin dagli anni settanta. Questo fenomeno, che è al centro delle preoccupazioni tedesche e della sua aggressiva politica rischia di ridurre severamente il suo potenziale di crescita. Malgrado un saldo migratorio, anche dal sud Europa, di oltre 400.000 persone l’anno. Secondo l’OCSE il potenziale di crescita scenderà sotto l’1% entro un decennio.

Lo stesso grande successo tedesco, e grande fonte di orgoglio nazionale (detto per inciso, essenziale per sostenere il consenso del Cancelliere), nell’imponente surplus di partite correnti “può essere interpretato come un segno di debolezza”, in quanto è il risultato di un deficit di investimenti nazionali. La cosa si spiega facilmente: se un paese vende all’estero molto più di quanto compra dall’estero (esattamente il 7% in più) avrà ovviamente un saldo attivo finanziario (altrimenti le merci non le venderebbe, ma regalerebbe); se questo flusso fosse investito (cioè speso) in patria  genererebbe domanda interna e acquisti dall’estero che attenuerebbero o annullerebbero il surplus. Invece il risparmio (cioè il profitto ricavato dalle vendite) è speso all’estero tramite il sistema finanziario che lo “ricicla” in prodotti finanziari o investimenti diretti. Fino allo shock del 2008 lo faceva in particolare in Spagna, Irlanda e Grecia, e per lo più in case (Spagna), alberghi (Grecia) e capannoni (in Irlanda). Dopo, probabilmente, nei paesi in convergenza e in prodotti finanziari nelle piazze mondiali.


Andando a confrontare il dato dell’investimento totale si vede infatti che è sceso dal 21,5% del PIL del 2000 (all’inizio dell’Euro, e quindi del “Sistema Target”) al 17,2% nel 2013. Quattro punti in meno significano più di 120 miliardi di Euro di minori investimenti pubblici e privati. Ma la carenza di investimenti non si limita alla banda larga o alle infrastrutture energetiche, si estende anche agli investimenti in istruzione, come si vede dalle indagini OCSE (i tedeschi sono risultati meno alfabetizzati della media, i giovani con titolo superiore sono del 30% inferiori alla media dei paesi avanzati).
Per il settimanale conservatore inglese la ricerca di maggiore produttività si dovrebbe concentrare nel settore dei servizi (che è rimasto indietro in questi anni di riduzione dei salari relativamente alla produzione) che pesa per il 70% dell’economia e tra i servizi professionali in particolare (10%). L’OCSE suggerisce (come in Italia) l’eliminazione dei notai, delle tariffe professionali di architetti ed ingegneri, e dei commercialisti.
Come prevedibile L’Economist non ha dubbi nel suggerire questa condotta, cioè un nuovo “giro” di riforme strutturali liberiste in Germania; ma sottolinea nella chiusa dell’articolo la forte resistenza, causata dallo stato soddisfacente dell’economia. Dato che le cose vanno bene “c’è poco appetito per una nuova ondata di riforme”, e il Governo di Coalizione, infatti, discute di riforme di segno opposto: propone risarcimenti per le sofferenze indotte dalle politiche di Schroeder e Hartz (come l’abbassamento dell’età pensionistica).

Per chiudere questa piccola lettura, dunque, vorrei prestare attenzione a questo concetto, presentato così di sfuggita: le riforme che riducono il compenso per il lavoro (in questo caso prestazioni professionali e servizi) a parità di produzione, sono possibili solo se c’è fame. Cioè se l’economia induce sofferenza, crea un “esercito di riserva”, e favorisce il calo. La produttività è ricercata sempre da questo lato (il più semplice) produrre a meno prezzo.


Che questo riduca la domanda interna, o invii segnali deflattivi che rendono più facile ridurla, non è evidentemente un problema. 

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