Un interessante Articolo su The Economist sulla situazione in prospettiva della Germania dopo l’azione
della BCE di qualche
giorno fa. La situazione generale vede la Germania tenere l’Unione
Europea fuori della zona deflazione con la sua crescita del 0,8%, e la prevista
accelerazione al 2% per i prossimi due anni, ciò grazie ad un surplus nella
bilancia commerciale del 7% a partire dal 2006, e del 7,5% nel 2013. E malgrado
la debolezza della zona Euro (il suo essere “malaticcia”) come dice l’autore, abbia
portato il surplus con essa della Germania a calare dal 4,5% a solo il 2,1% nel
2013 (è lo stesso fenomeno che rimarcava
Daveri). La cosa è stata compensata con l’espansione delle esportazioni di
macchinari e merci nei paesi emergenti.
Sostenuta da una
competitività relativa (cioè da un rapporto tra costo del lavoro, che è tra i più
alti in assoluto, come rimarca
anche Krugman, accompagnato però da un’alta produttività e da un cambio
relativamente favorevole) l’economia tiene al lavoro ben 42 milioni di persone,
con una disoccupazione tra le più basse, al 5,2%.
Questa situazione
produce, secondo l’autore, soddisfacenti ricavi fiscali e oneri sul debito
molto bassi (a causa dello status di bene rifugio dei titoli tedeschi).
Dunque le condizioni
attuali vedono la Germania
come un’isola di forza (un “baluardo di forza”) in una zona Euro fragile (il
che, se mi permettete, non è un caso).
Ma a lungo termine il quadro cambia colore. Intanto, come noto, il tasso di natalità è molto al di sotto
del “tasso di sostituzione”, e ciò sin dagli anni settanta. Questo fenomeno,
che è al centro delle preoccupazioni tedesche e della sua aggressiva
politica rischia di ridurre severamente il suo potenziale di crescita. Malgrado
un saldo migratorio, anche
dal sud Europa, di oltre 400.000 persone l’anno. Secondo l’OCSE il
potenziale di crescita scenderà sotto l’1% entro un decennio.
Lo stesso grande
successo tedesco, e grande fonte di orgoglio nazionale (detto per inciso,
essenziale per sostenere il consenso del Cancelliere), nell’imponente surplus
di partite correnti “può essere interpretato come un segno di debolezza”, in
quanto è il risultato di un deficit di investimenti nazionali. La cosa si
spiega facilmente: se un paese vende all’estero molto più di quanto compra dall’estero
(esattamente il 7% in più) avrà ovviamente un saldo attivo finanziario (altrimenti
le merci non le venderebbe, ma regalerebbe); se questo flusso fosse investito
(cioè speso) in patria genererebbe
domanda interna e acquisti dall’estero che attenuerebbero o annullerebbero il
surplus. Invece il risparmio (cioè il profitto ricavato dalle vendite) è speso
all’estero tramite il sistema finanziario che lo “ricicla” in prodotti
finanziari o investimenti diretti. Fino allo shock del 2008 lo faceva in
particolare in Spagna, Irlanda e Grecia, e per lo più in case (Spagna), alberghi
(Grecia) e capannoni (in Irlanda). Dopo, probabilmente, nei paesi in convergenza
e in prodotti finanziari nelle piazze mondiali.
Andando a confrontare il
dato dell’investimento totale si vede infatti che è sceso dal 21,5% del PIL del
2000 (all’inizio dell’Euro, e quindi del “Sistema Target”) al 17,2% nel 2013. Quattro
punti in meno significano più di 120 miliardi di Euro di minori investimenti
pubblici e privati. Ma la carenza di investimenti non si limita alla banda
larga o alle infrastrutture energetiche, si estende anche agli investimenti in
istruzione, come si vede dalle indagini OCSE (i tedeschi sono risultati meno
alfabetizzati della media, i giovani con titolo superiore sono del 30%
inferiori alla media dei paesi avanzati).
Per il settimanale conservatore
inglese la ricerca di maggiore produttività si dovrebbe concentrare nel settore
dei servizi (che è rimasto indietro in questi anni di riduzione dei salari relativamente
alla produzione) che pesa per il 70% dell’economia e tra i servizi
professionali in particolare (10%). L’OCSE suggerisce (come in Italia) l’eliminazione
dei notai, delle tariffe professionali di architetti ed ingegneri, e dei
commercialisti.
Come prevedibile L’Economist non ha dubbi nel suggerire
questa condotta, cioè un nuovo “giro” di riforme strutturali liberiste in
Germania; ma sottolinea nella chiusa dell’articolo la forte resistenza, causata
dallo stato soddisfacente dell’economia. Dato che le cose vanno bene “c’è poco
appetito per una nuova ondata di riforme”, e il Governo di Coalizione, infatti,
discute di riforme di segno opposto: propone risarcimenti per le sofferenze
indotte dalle politiche di Schroeder e Hartz (come l’abbassamento dell’età
pensionistica).
Per chiudere questa
piccola lettura, dunque, vorrei prestare attenzione a questo concetto,
presentato così di sfuggita: le riforme che riducono il compenso per il lavoro
(in questo caso prestazioni professionali e servizi) a parità di produzione,
sono possibili solo se c’è fame. Cioè se l’economia induce sofferenza, crea un “esercito
di riserva”, e favorisce il calo. La produttività è ricercata sempre da questo
lato (il più semplice) produrre a meno prezzo.
Che questo riduca la
domanda interna, o invii segnali deflattivi che rendono più facile ridurla, non
è evidentemente un problema.
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