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martedì 10 giugno 2014

Zygmunt Bauman, “Il demone della paura”


Il grande sociologo polacco Zygmund Bauman, eleva in questo piccolo libricino collettaneo, nel quale il saggio più lungo è il suo, un atto di accusa verso la “globalizzazione negativa”, che produce come effetto secondario uno spettro che si aggira per l’umanità: la paura individuale di fallire, di essere abbandonato al freddo ed al buio.

Le nostre società sono ormai completamente “aperte”, ma invece di lasciar prevalere (come suggeriva “il profeta” del post precedente) la capacità di farsi valere, una sorta di orgogliosa sfida, questa caratteristica è diventata per quasi tutti un destino, una sventura, una vulnerabilità. L’incapacità di conoscere e controllare il proprio futuro.
La globalizzazione negativa implica che nessun paese, o piccolo gruppo, può con i suoi soli mezzi garantire la propria sicurezza e quella dei suoi cittadini. Ma comporta anche effetti più personali; come l’individualismo, l’affievolirsi dei legami umani e “l’inaridirsi della solidarietà”.
Il motivo, per Bauman, è che “nella sua forma attuale, puramente negativa, la globalizzazione è un processo parassitario e predatorio, che si nutre della forza succhiata dai corpi degli Stati-nazione e dei loro sudditi” (p.5). La stessa società resta esposta a forze rapaci che nessuno controlla e verso le quali lo Stato non può garantire protezione. Per questo motivo entro le nostre società aperte, si annida un demone: la paura. Insicurezza, incertezza, impotenza; si tratta di sentimenti insopportabili.
Secondo quanto opportunamente ricorda Bauman, il potere si è sollevato ed è fuggito al controllo dello Stato Nazione, e quindi della politica che è ormai senza strumenti, costretta ad inseguire una emergenza dopo l’altra. Impotente e ridicola, per reazione chiusa in piccoli fortini dove, a stento, riesce a garantire se stessa (e da qualche tempo neppure ciò).

Una delle conseguenze più frequentemente ricordate è che le politiche di assicurazione contro le sventure prodotte sugli individui dalla società, sono abbandonate, o fortemente ridotte. Ciò implica che ora sono i singoli individui che devono ideare, cercare, adottare soluzioni attraverso azioni solitarie, “potendo contare su strumenti e risorse palesemente inadeguati all’impresa” (p. 21). Questo messaggio, inviato indifferentemente a ricchi e poveri, che prescrive una <maggiore flessibilità> come unica cura standard contro malesseri del tutto diversi, provoca in coloro che hanno dotazioni inadeguate il risultato di aumentare l’insicurezza, l’angoscia e la paura.
Ma c’è di più: “precludono la possibilità di una sicurezza esistenziale basata su fondamenta collettive e perciò non offrono nessun incentivo ad azioni di solidarietà, al contrario incoraggiano i destinatari del messaggio a concentrarsi sulla propria sopravvivenza individuale in stile <ciascuno per sé, e al diavolo gli altri>, in un mondo incurabilmente frammentato e atomizzato, e quindi sempre più incerto e imprevedibile”.

La protezione (e non la redistribuzione) era il nucleo centrale dello <Stato sociale>, dato che questa aveva una base di gran lunga più ampia. Averla progressivamente abbandonato è la colpa, storica, della sinistra socialdemocratica europea, nella generazione dei Mitterrand, Blair, Schroeder. Una pavidità, di fronte alla pressione dello spirito del tempo che oggi politici altrettanto incerti come Hollande, al prezzo del disastro della sinistra francese di fronte alla sfida di Le Pen.
Un allontanamento dalla propria missione, inseguendo un sogno interclassista e post-ideologico che rischia di scivolare, inavvertito, nel sostegno alla classe ed all'ideologia avversa, che rende necessario in qualche modo la protezione entro i confortevoli rifugi dorati della tecnocrazia.
Alcune élite, soprattutto ma non solo europee, sembrano avere dimenticato di fronte alla minaccia ed alla promessa della liberalizzazione delle “forze animali” dei mercati (che si presentano nelle stanze del potere negli abiti da 5.000 euro dei consulenti delle banche) il ruolo di diga della democrazia (soprattutto, ma non solo, nella sua dimensione deliberativa). Un esempio lo abbiamo visto in Padoa-Schioppa, incapace di inquadrare il fatto che ci sia un nesso sistematico e strutturale nell’incapacità/mancanza di volontà di “governare a sufficienza” la globalizzazione e nel fatto di “consentirla”. Alla sua frase, dei primi anni novanta, “il conto che la globalizzazione ci presenta è per non averla governata a sufficienza, non per averla consentita”, occorrerebbe rispondere che “il conto” ci viene presentato dalla globalizzazione proprio perché “consentirla” disarma chi dovrebbe governarla. La globalizzazione non è, infatti, altro che l’insieme di norme e regolamenti, di rapporti di forza, di convenienze e di volontà dominanti la scena mondiale. Come avevamo già scritto: il punto è che la globalizzazione viene “consentita” per un insieme di motivi (tra i quali importare deflazione tramite le merci, per compensare l’espansione monetaria necessaria per compensare un calo degli investimenti strutturale, contemporaneamente disciplinando i lavoratori –esponendoli al rischio della disoccupazione e del lavoro precario- e recuperando margini industriali) che non hanno nulla di naturale. Si tratta di motivi tecnici e politici. La globalizzazione è, infatti, sostanzialmente un sistema sociale di governo dalle imponenti dimensioni geostrategiche e distributive, a suo modo geniale; uno schema essenziale di ripartizione del potere. Un modo di renderlo invisibile, ma più forte.

L’unico trionfo visibile, del tutto plateale, del nostro tempo è infatti quello della finanza. Essa è diventata ormai inafferrabile e potentissima, sviluppa un potere selvaggio ed irresponsabile al tempo; la cui abissalità “a spaziale” collide con il territoriale. E dunque con il principio del potere situato, ancorato, rivestito di bastioni, che per secoli aveva invece prevalso.
Il primo senso in cui ciò succede è la fuga dalla tassazione, il secondo dalla capitalizzazione fissa. Dal diventare cemento e ferro, ossa e muscoli. Il frutto di ciò è la deindustrializzazione, la delocalizzazione ed il decentramento, ma anche il successo delle merci immateriali, dei brevetti, dei diritti immateriali, delle informazioni e del “design”, dei codici e dei marchi; di tutti quei fattori distintivi e simboli di “valore” che possono essere scambiati e spostati con un “clic” e la velocità di un attimo. Che non sono trattenibili dalle maglie bucate di uno stato fiscale e di diritto rimasto al novecento.
Bisogna, ormai, distinguere tra due popoli:
-          quello apolide e mobilissimo, che conta qualche milione di individui e riesce a maneggiare la materia delle nuvole con cui è fatto oggi il denaro-potere;
-          quello terroso, fatto di ossa piantate nella sabbia e recintate, che conta qualche miliardo di individui e non può andare da nessuna parte.

Il primo non ha paura, non ne ha del resto ragione. Il secondo coltiva il disincanto, la solitudine e la rabbia.

Questo insieme di problemi, con i fenomeni di separazione sociale, di enclosure, con le aree di rarificazione territoriale e di densificazione selettiva che caratterizzano il nostro tempo (come si ricava anche dalla lettura di Moretti) lascia un compito essenziale, per Bauman: “cercare di tornare a coniugare potere e politica” (p.47). Da questo compito, che la generazione dei politici degli anni novanta ci ha lasciato irrisolto (e anche poco visto), dipende il futuro.

Sono in vista due ipotesi di lavoro:
-          riportare i coniugi separati nel domicilio dello Stato-nazione;
-          produrre la nuova sintesi a livello globale.

Per Bauman, la prima alternativa è la “meno promettente” perché i problemi sono ormai globali. E traggono linfa vitale dalla globalizzazione. La seconda riecheggia la soluzione <avanti a sinistra> che anche Habermas suggerisce (completare subito, con una fase costituente sostenuta da un ampio dibattito europeo, l’Unione Politica con le messe in comune che comporta nel segno di una solidarietà ben intesa). La prima forse quella <indietro a destra> suggerita da Panebianco, da ultimo (ricondurre ad accordi flessibili e commerciali, tra individualità anche sotto-statali, il necessario coordinamento non-politico ma funzionale). Oppure quella <indietro a sinistra> proposta da Streeck (riportare il primato della politica e della società democratica nel solo luogo in cui fino ad ora si è espresso: nello Stato Nazione, ricostruendo le linee essenziali del compromesso novecentesco).


La differenza è essenziale. Io credo che, nell’attuale situazione di rischio, comunque vivano le ragioni per stare insieme, ma –per trovarle- bisogna andare molto oltre le ragioni meramente economiche. Quello europeo è un vincolo di destino e culturale profondo; una comunanza che affonda nella condivisione di una storia e di una fratellanza che viene dall’eredità romana e dalla matrice cristiana. Nasce dall'avere uno sguardo fondamentalmente simile, pur nella diversità; una vicinanza essenziale. Avere, per così dire, eroi e santi in comune. 
Dire questo, vorrei fosse chiaro, non si estende alla protezione e difesa dell'Euro. Che è solo uno strumento, in alcuni sensi un'arma (e in molti un’arma rivolta contro i più deboli). Ed è anche un equivoco. Io non credo che l'eventuale suo abbandono porti necessariamente al fallimento del progetto di Unione e al precipitare nel rancore dei popoli europei, come teme Habermas. Pur con l’immenso rispetto che nutro, da moltissimi anni, per il suo pensiero e la sua coerenza, molto dipenderebbe da come succede. 
In un certo senso (in questo la tragicità dell’attuale situazione) non recedere dall'Euro in modo ordinato potrebbe portare alla tragedia, se la corda continua a tendersi. Di questa opinione –con significative differenze- sono ad esempio: Zingales, Sarrazin, Pica, Sapir, Streeck, Scharpf, Sinn, Bagnai.

Del resto, traspare persino in questo libro di Bauman, certo non amico di una politica di potenza, c’è un fondo tematizzato sempre frettolosamente e dotato dello statuto di un presupposto a priori (come tale spesso semi-invisibile ai parlanti): l’Europa può competere per un ruolo nel mondo solo insieme. In alcune accezioni ciò significa <può aspirare a dominarlo>, in altre <può orientarlo e influenzarlo con l’esempio>.



Su questi temi credo che dovremmo aprire una ampia discussione democratica, nei Parlamenti e nella società, sul destino comune dell'Europa. E dovremmo convocare in tempi rapidi un’Assemblea Costituente, i cui lavori siano aperti alla discussione pubblica con i potenti strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, per riscrivere radicalmente i Trattati e trovare un’anima adatta ai nuovi tempi.

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