Il grande
sociologo polacco Zygmund Bauman, eleva in questo piccolo libricino
collettaneo, nel quale il saggio più lungo è il suo, un atto di accusa verso la
“globalizzazione negativa”, che produce come effetto secondario uno spettro che si aggira per l’umanità:
la paura individuale di fallire, di essere abbandonato al freddo ed al buio.
Le nostre
società sono ormai completamente “aperte”, ma invece di lasciar prevalere (come
suggeriva “il profeta” del post
precedente) la capacità di farsi valere, una sorta di orgogliosa sfida, questa caratteristica è
diventata per quasi tutti un destino, una sventura, una vulnerabilità. L’incapacità di conoscere e
controllare il proprio futuro.
La globalizzazione
negativa implica che nessun paese, o piccolo gruppo, può con i suoi soli mezzi
garantire la propria sicurezza e quella dei suoi cittadini. Ma comporta anche
effetti più personali; come l’individualismo, l’affievolirsi dei legami umani e
“l’inaridirsi della solidarietà”.
Il motivo, per
Bauman, è che “nella sua forma attuale, puramente negativa, la globalizzazione
è un processo parassitario e predatorio, che si nutre della forza succhiata dai
corpi degli Stati-nazione e dei loro sudditi” (p.5). La stessa società resta
esposta a forze rapaci che nessuno controlla e verso le quali lo Stato non può
garantire protezione. Per questo motivo entro le nostre società aperte, si
annida un demone: la paura.
Insicurezza, incertezza, impotenza; si tratta di sentimenti insopportabili.
Secondo quanto
opportunamente ricorda Bauman, il potere si è sollevato ed è fuggito al
controllo dello Stato Nazione, e quindi della politica che è ormai senza
strumenti, costretta ad inseguire una emergenza dopo l’altra. Impotente e
ridicola, per reazione chiusa in piccoli fortini dove, a stento, riesce a
garantire se stessa (e da qualche tempo neppure ciò).
Una delle
conseguenze più frequentemente ricordate è che le politiche di assicurazione
contro le sventure prodotte sugli individui dalla società, sono abbandonate, o
fortemente ridotte. Ciò implica che ora sono i singoli individui che devono
ideare, cercare, adottare soluzioni attraverso azioni solitarie, “potendo
contare su strumenti e risorse palesemente inadeguati all’impresa” (p. 21).
Questo messaggio, inviato indifferentemente a ricchi e poveri, che prescrive una <maggiore
flessibilità> come unica cura standard contro malesseri del tutto diversi,
provoca in coloro che hanno dotazioni inadeguate il risultato di aumentare
l’insicurezza, l’angoscia e la paura.
Ma c’è di più:
“precludono la possibilità di una sicurezza esistenziale basata su fondamenta
collettive e perciò non offrono nessun incentivo ad azioni di solidarietà, al
contrario incoraggiano i destinatari del messaggio a concentrarsi sulla propria
sopravvivenza individuale in stile <ciascuno per sé, e al diavolo gli
altri>, in un mondo incurabilmente frammentato e atomizzato, e quindi sempre
più incerto e imprevedibile”.
La protezione (e
non la redistribuzione) era il nucleo centrale dello <Stato sociale>,
dato che questa aveva una base di gran lunga più ampia. Averla progressivamente
abbandonato è la colpa, storica, della sinistra socialdemocratica europea,
nella generazione dei Mitterrand,
Blair, Schroeder. Una pavidità, di fronte alla pressione dello spirito del
tempo che oggi politici altrettanto incerti come Hollande,
al prezzo del disastro
della sinistra francese di fronte alla sfida di Le Pen.
Un allontanamento
dalla propria missione, inseguendo un sogno interclassista e post-ideologico
che rischia di scivolare, inavvertito, nel sostegno alla classe ed all'ideologia avversa, che rende necessario in
qualche modo la protezione entro i confortevoli rifugi dorati della
tecnocrazia.
Alcune élite,
soprattutto ma non solo europee, sembrano avere dimenticato di fronte alla
minaccia ed alla promessa della liberalizzazione delle “forze animali” dei
mercati (che si presentano nelle stanze del potere negli abiti da 5.000 euro
dei consulenti delle banche) il ruolo di diga della democrazia (soprattutto, ma
non solo, nella sua dimensione deliberativa). Un esempio lo abbiamo visto in Padoa-Schioppa,
incapace di inquadrare il fatto che ci sia un nesso sistematico e strutturale
nell’incapacità/mancanza di volontà di “governare a sufficienza” la
globalizzazione e nel fatto di “consentirla”. Alla sua frase, dei primi anni
novanta, “il conto che la globalizzazione ci presenta è per non averla
governata a sufficienza, non per averla consentita”, occorrerebbe rispondere
che “il conto” ci viene presentato dalla globalizzazione proprio perché
“consentirla” disarma chi dovrebbe governarla. La globalizzazione non è,
infatti, altro che l’insieme di norme e regolamenti, di rapporti di forza, di
convenienze e di volontà dominanti la scena mondiale. Come avevamo già scritto:
il punto è che la globalizzazione viene “consentita” per un insieme di motivi
(tra i quali importare deflazione tramite le merci, per compensare l’espansione
monetaria necessaria per compensare un calo degli investimenti strutturale,
contemporaneamente disciplinando i lavoratori –esponendoli al rischio della
disoccupazione e del lavoro precario- e recuperando margini industriali) che
non hanno nulla di naturale. Si tratta di motivi tecnici e politici. La
globalizzazione è, infatti, sostanzialmente un sistema sociale di governo dalle
imponenti dimensioni geostrategiche e distributive, a suo modo geniale; uno schema essenziale di ripartizione del potere.
Un modo di renderlo invisibile, ma più forte.
L’unico trionfo
visibile, del tutto plateale, del nostro tempo è infatti quello della finanza.
Essa è diventata ormai inafferrabile e potentissima, sviluppa un potere
selvaggio ed irresponsabile al tempo; la cui abissalità “a spaziale” collide
con il territoriale. E dunque con il principio del potere situato, ancorato,
rivestito di bastioni, che per secoli aveva invece prevalso.
Il primo senso
in cui ciò succede è la fuga dalla tassazione, il secondo dalla
capitalizzazione fissa. Dal diventare cemento e ferro, ossa e muscoli. Il
frutto di ciò è la deindustrializzazione, la delocalizzazione ed il
decentramento, ma anche il successo delle merci immateriali, dei brevetti, dei
diritti immateriali, delle informazioni e del “design”, dei codici e dei
marchi; di tutti quei fattori distintivi e simboli di “valore” che possono
essere scambiati e spostati con un “clic” e la velocità di un attimo. Che non
sono trattenibili dalle maglie bucate di uno stato fiscale e di diritto rimasto
al novecento.
Bisogna, ormai,
distinguere tra due popoli:
-
quello apolide e mobilissimo, che conta qualche milione
di individui e riesce a maneggiare la materia delle nuvole con cui è fatto oggi
il denaro-potere;
-
quello terroso, fatto di ossa piantate nella sabbia e
recintate, che conta qualche miliardo di individui e non può andare da nessuna
parte.
Il primo non ha
paura, non ne ha del resto ragione. Il secondo coltiva il disincanto, la solitudine e la
rabbia.
Questo insieme
di problemi, con i fenomeni di separazione sociale, di enclosure, con le aree
di rarificazione territoriale e di densificazione selettiva che caratterizzano
il nostro tempo (come si ricava anche dalla lettura di Moretti)
lascia un compito essenziale, per Bauman: “cercare
di tornare a coniugare potere e politica” (p.47). Da questo compito, che la
generazione dei politici degli anni novanta ci ha lasciato irrisolto (e anche
poco visto), dipende il futuro.
Sono in vista
due ipotesi di lavoro:
-
riportare i coniugi separati nel domicilio dello
Stato-nazione;
-
produrre la nuova sintesi a livello globale.
Per Bauman, la
prima alternativa è la “meno promettente” perché i problemi sono ormai globali.
E traggono linfa vitale dalla globalizzazione. La seconda riecheggia la
soluzione <avanti a sinistra>
che anche Habermas
suggerisce (completare subito, con una fase costituente sostenuta da un ampio
dibattito europeo, l’Unione Politica con le messe in comune che comporta nel
segno di una solidarietà ben intesa). La prima forse quella <indietro a destra> suggerita da Panebianco,
da ultimo (ricondurre ad accordi flessibili e commerciali, tra individualità
anche sotto-statali, il necessario coordinamento non-politico ma funzionale).
Oppure quella <indietro a sinistra>
proposta da Streeck
(riportare il primato della politica e della società democratica nel solo luogo
in cui fino ad ora si è espresso: nello Stato Nazione, ricostruendo le linee
essenziali del compromesso novecentesco).
La differenza è
essenziale. Io credo che, nell’attuale situazione di rischio, comunque vivano le
ragioni per stare insieme, ma –per trovarle- bisogna andare molto oltre le
ragioni meramente economiche. Quello europeo è un vincolo di destino e
culturale profondo; una comunanza che affonda nella condivisione di una storia
e di una fratellanza che viene dall’eredità romana e dalla matrice cristiana.
Nasce dall'avere uno sguardo fondamentalmente simile, pur nella diversità; una
vicinanza essenziale. Avere, per così dire, eroi e santi in comune.
Dire questo,
vorrei fosse chiaro, non si estende alla protezione e difesa dell'Euro. Che è
solo uno strumento, in alcuni sensi un'arma
(e in molti un’arma rivolta contro
i più deboli). Ed è anche un equivoco.
Io non credo che l'eventuale suo abbandono porti necessariamente al fallimento
del progetto di Unione e al precipitare nel rancore dei popoli europei, come
teme Habermas. Pur con l’immenso rispetto che nutro, da moltissimi anni, per il
suo pensiero e la sua coerenza, molto dipenderebbe da come succede.
In un certo
senso (in questo la tragicità dell’attuale situazione) non recedere dall'Euro
in modo ordinato potrebbe portare alla tragedia, se la corda continua a
tendersi. Di questa opinione –con significative differenze- sono ad
esempio: Zingales,
Sarrazin,
Pica, Sapir,
Streeck,
Scharpf,
Sinn,
Bagnai.
Del resto, traspare persino in questo libro di Bauman, certo non amico di una politica di potenza, c’è un fondo tematizzato sempre frettolosamente e dotato dello statuto di un presupposto a priori (come tale spesso semi-invisibile ai parlanti): l’Europa può competere per un ruolo nel mondo solo insieme. In alcune accezioni ciò significa <può aspirare a dominarlo>, in altre <può orientarlo e influenzarlo con l’esempio>.
Su questi temi credo che dovremmo aprire una ampia discussione democratica, nei Parlamenti e nella società, sul destino comune dell'Europa. E dovremmo convocare in tempi rapidi un’Assemblea Costituente, i cui lavori siano aperti alla discussione pubblica con i potenti strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, per riscrivere radicalmente i Trattati e trovare un’anima adatta ai nuovi tempi.
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