E’ in corso la
conversione del DL 91 2014 nel Parlamento
Italiano, il Decreto del 24 giugno interviene sulla materia energetica in
cinque articoli tra i quali spiccano il 24 ed il 26. Nel primo è istituito un
meccanismo per ribaltare parte dei costi “di sistema” anche sull’energia
autoprodotta da fonte rinnovabile e direttamente consumata sul posto senza
impegnare la rete. Si tratta di costi che i consumatori di energia devono
sopportare, lo ricordo, per compensare i fallimenti di mercato e le esternalità
conseguenti che provocano consumando energia che ha determinato emissioni di
inquinanti e alterazioni climatiche nella sua produzione e trasporto.
Questa posizione
muove da un argomento pragmatico per
travolgere un criterio di principio,
istituito in ogni fonte normativa primaria e secondaria di settore. Ma quale è
l’ “argomento pragmatico”? Vale la pena prestarvi attenzione, perché le grandi
trasformazioni si presentano sulla scena nella moneta di piccolo taglio
quotidiana, e nella stessa veste si presentano le resistenze ed i conflitti.
L’argomento è che se prendesse piede la
pratica di distaccare quota sempre maggiore dei propri consumi elettrici dal
servizio della rete elettrica nazionale, il costo caricato sui consumatori
connessi e relativo al sostegno previsto alla generazione da rinnovabili (per
il 2014 stimato dal GSE in 13,6 Mld) si ripartirebbe su sempre meno kWh
distribuiti. Salirebbe, dunque, in termini relativi per l’utente connesso e con
ciò lo incentiverebbe a sconnettersi. Nel tempo questa dinamica sarebbe
autorafforzante e potrebbe determinare una decisa accelerazione della pratica
dell’autoconsumo.
Benissimo! Direbbero molti, la Strategia di Lisbona non prevedeva tra gli
obiettivi strategici europei l’indipendenza energetica? E noi non importiamo al
momento ca. l’80% delle risorse energetiche dall’estero? Non ci aiuterebbe, in
particolare, a contenere il nostro rischio
energetico?
Il neo Presidente della Commissione Europea,
Juncker, non ha ribadito lo stesso concetto, ponendolo come una delle due
priorità strategiche dell’Unione nel prossimo periodo? Insieme, ci torniamo
alla fine, agli investimenti per la crescita?
La nuova Comunicazione per gli Aiuti di Stato per
l’Ambiente, non ribadisce gli stessi concetti?
Malissimo! Dicono alcuni, ogni kWh che
non è ritirato dalla rete, non solo non la usa ma non è neppure prodotto e
venduto da una delle costosissime ed efficientissime nuove centrali a ciclo
combinato che le nostre aziende energetiche (ma anche quelle europee, che negli
anni novanta e zero sono venute ad investire in Italia decine di miliardi)
hanno realizzato e che ora sono tristemente spente.
Soccorre anche
l’altro articolo. Il 26, in
cui con un atto praticamente senza precedenti sono ridotte ex post, ad
investimenti già completati, le tariffe previste dai contratti stipulati con lo
Stato e fisse per venti anni. Se a seguito di una legittima procedura prevista
dalla legge (e da Decreti Attuativi) una società privata realizza, su progetto
approvato, un’infrastruttura di servizio di pubblica utilità con proprie
risorse a fronte di una tariffa garantita per un periodo prefissato in grado di
coprire i costi d’investimento, si aspetta che il contratto sia rispettato.
Alcuni esempi? Autostrade, impianti di depurazione, acquedotti, impianti di
gestione rifiuti.
Ma nel settore
energetico, evidentemente, questo non vale. Qui ogni kWh che mi produco dal
sole, evidentemente “spegne” un kWh prodotto da gas o carbone. La cosa, dunque,
“spegne” anche le società colossali che di questo vivono. Questo è il conflitto
essenziale che la retorica tende a nascondere. Il
conflitto tra un’industria uscente, ma ancora enormemente potente, ed una
industria entrante, molto più distribuita e per ora debole.
Ora allarghiamo lo sguardo, di che
parliamo, che succede altrove e in che contesto si sta giocando questa vicenda?
Riguardo al
primo termine, prendiamo il Rapporto
mensile di Terna di giugno 2014, la richiesta di energia elettrica, in
Italia, a giugno è calata rispetto all’anno precedente di quasi l’1%,
portandosi a 25,9 TWh, anche la potenza massima richiesta è calata in pari
grado portandosi a 51 GWh. Di questo consumo meno della metà (12 TWh) è stato
coperto da termoelettrico (che include anche le biomasse e i rifiuti, per cui
probabilmente da gas e carbone ca. 10) mentre ca. 11 sono stati coperti da
rinnovabili (6 da idroelettrico, ca. 1 da eolico e quasi 3 da fotovoltaico).
Altri 3 TWh sono stati importati. Considerando il primo semestre del 2014
l’energia richiesta ha visto un calo al termoelettrico di un enorme 10%
rispetto all’anno passato (nel quale era già calata, come fa da anni) e un
incremento dell’8% del FV (malgrado non ci siano più incentivi da un anno) e
del 11% dell’idroelettrico (mentre è calato l’eolico).
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| TERNA Consumi Italia 2010-14 |
Dal grafico
Terna si vede il calo dei consumi negli ultimi anni. Come per ogni modifica di
uno status quo questa è una buona notizia per alcuni (tra cui l’ambiente) ma
pessima per altri.
Dall’audizione
del GSE (Gestore Servizi Energetici)
del 3 luglio 2014 si ricava, invece, che il costo degli oneri
dell’incentivazione ammonta nel 2014
a 13,6 Mld, in crescita rispetto al 2012 (11,7) e 2012
(9,7) in parte a causa del calo di valore dell’energia elettrica. Dal 2012,
infatti, la forbice tra le risorse erogate, in base alle cd. Tariffe
Onnicomprensive (che ritirano tutta l’energia a prezzo fisso per poi rivenderla
sul mercato al prezzo spuntato sullo stesso), e quelle effettivamente prelevate
in bolletta (al netto, appunto, delle somme recuperate sul mercato rivendendo
l’energia) si sta chiudendo. L’energia è rivenduta ad un prezzo sempre più
basso. Ciò capita per la convergenza di due fattori: la minore richiesta e la
maggiore incidenza delle rinnovabili (vendute con priorità a prezzo nullo).
Ma
dall’audizione si ricava anche una proiezione di costo per il solo Fotovoltaico
superiore ai 200 kW (oggetto dell’intervento ex art. 26) dalla quale si legge
che oggi incide in bolletta per 4,1 Mld e che nel 2030 inciderà per 3.7 Mld per
poi andare ad annullarsi nell’arco di due anni. Dopo l’intervento inciderà per
3,5 (facendo una media sulla forchetta di stima che indicano) e nel 2033 per
3,3 andando ad annullarsi poi negli stessi due anni. Bisogna notare una cosa:
il costo non è indicizzato, mentre i 4,1 Mld sono “moneta 2014” , anche i 3,7 del 2030
sono nella stessa moneta. Dunque se la
BCE avesse successo nel riportare (diciamo entro due anni)
l’inflazione al 2% avremmo un costo reale su moneta 2030 inferiore del 25%.
Mentre se l’inflazione, dopo un periodo di due anni, salisse al 3% perderebbero
il 34% e se salisse al 5% (“ipotesi
Krugman”, cioè modello di contrasto alla “Stagnazione Secolare”) perderebbe
ca. la metà. In termini di potere di acquisto gli incentivi, insomma, si
ridurranno comunque nel tempo da un minimo del 25% al massimo prevedibile del
50%.
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| Germania domanda energia |
Ma allarghiamo un altro poco (penultima volta): che succede in Germania nel settore energetico?
Da una rivista
specializzata apprendiamo che nei 100 giorni che sono passati dall’aprile 2014
per tre quarti di essi l’energia elettrica è stata venduta a meno di 4
centesimi a kWh, mentre in Francia il prezzo è addirittura di 2 centesimi (il
che spiega le importazioni in Italia). Dall’articolo si apprende che la Francia il 9 luglio ha
impegnato una potenza diretta all’esportazione che è arrivata fino a 10 GW, con
prezzi che erano la metà di quelli tedeschi. Una cosa simile
in Inghilterra, dove i prezzi hanno perso il 40% in un anno. Ed ovviamente in
Italia, dove sono calati del 30% ca, portandosi dalle parti del 4,5 centesimi
(non se ne è accorto quasi nessuno? <Questa
è la domanda giusta> diceva il protagonista, morto, di un film di
qualche anno fa).
E, ancora in
Germania, come sta evolvendo la potenza disponibile? Nel grafico troviamo la
domanda negli ultimi dieci anni e la sua copertura da fonti nazionali. La progressiva
uscita dal nucleare, in questo momento sta favorendo una relativa ripresa di
combustibili “sporchi”, ma più economici, come la lignite ed il carbone entro
lo spazio di mercato costantemente calante del “carico residuo” (cioè di quella
richiesta di energia che residua dopo che le rinnovabili sono state
utilizzate). Come si vede le rinnovabili sono cresciute (come in Italia
ripagate in bolletta) da 46 TWh a 152 TWh in dieci anni, mentre il nucleare è
sceso da 165 TWh a 97, e le altre fonti sono più o meno stabili (salvo il
carbone che ha perso 20 TWh). La lignite è leggermente salita dal 2010.
La previsione, a
meno la UE
implementi un sistema ETS più efficace o un’altra forma di tassazione della CO2
emessa (spostando in favore del gas naturale il vantaggio competitivo) è che
fino al 2023 si potrebbe avere una compressione molto forte di tutte le fonti
fossili ed un forte incremento della generazione da rinnovabili (da 152 TWh a
255 TWh) che arriverebbero a ca. il 50% della domanda, con una perdita meno
pronunciata della lignite.
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| Germania proiezione 2023 |
Come si vede se
questo trend continua il sistema elettrico europeo va verso un modello di
remunerazione basato su un canone fisso per gestire la rete (e qualche riserva
di potenza) più un prezzo per l’alimentazione nei picchi, in cui la rete
“chiede” più energia della base a prezzo marginale zero (la base di generazione
delle rinnovabili). L’azione condotta con
il DL 91 cerca di contrastare questa trasformazione.
Adesso mi vorrei
chiedere se contrastare disperatamente questa trasformazione, anche al prezzo
di tradire gli impegni e portare in sofferenza tecnica buona parte degli
investimenti che cittadini ed imprese in buona fede hanno fatto negli ultimi
anni (osservando questa irresistibile trasformazione in atto e le norme con
gran evidenza presentate che la supportavano), è sostenibile in questa
particolare congiuntura. Anche al prezzo di farsi scrivere dal governo inglese
questa lettera
praticamente senza precedenti?
Quale è il
problema principale che l’Europa (ma in realtà il mondo) ha davanti in questa
fase che non vuole passare? In termini di congiuntura la risposta è semplice
(in termini più profondi no, e questo blog ne è espressione): un eccesso di debito privato in stato di
sofferenza e una carenza di investimenti causata da troppi capitali in cerca d’investimenti
a basso rischio ed alta remunerazione. La carenza di investimenti nell’economia
“reale” disponibili, che soddisfino i requisiti di redditività e rischiosità,
tende ad abbassare i tassi e spinge per contrasto le banche centrali a
politiche ultrapermissive permanenti. In Europa, l’incomprensione della natura
stessa della crisi come crisi di debito privato e di fiducia, insieme ad una
concettualizzazione del tutto errata della natura
del denaro (ed a una profonda divergenza di interessi tra creditori e
debitori, sia entro gli Stati sia tra i sistemi economici concorrenti)
distrugge costantemente le forze produttive ed umane dei paesi in difficoltà,
determinando un generale clima deflattivo nel quale altissima disoccupazione,
insufficiente impiego delle infrastrutture, e progressivo degrado del merito di
credito rende sempre meno sostenibile le piramidi debitore. Questa è la ragione
per cui, in assenza d’investimenti privati, e di anticiclici investimenti
pubblici anche a causa delle politiche di austerità, il debito continua ad
aumentare (il nostro record è della settima a scorsa) malgrado (anzi, a causa)
dei continui mal intesi risparmi di spesa.
Nella
disperazione di chi ormai non ha più carte, la BCE all’inizio di
giugno, ha promosso un nuovo pacchetto di stimoli non convenzionale il cui
scopo centrale è di migliorare le condizioni patrimoniali e reddituali del
sistema bancario, nella speranza che aumenti l’erogazione di prestiti per
investimenti alla cosiddetta “economia reale”. Una classica “politica
dell’offerta” da accompagnare, secondo il Presidente Draghi, in alcune
recenti esternazioni con politiche competitive nazionali, magari sotto
controllo Europeo.
Da ultimo, evidentemente consapevole che
una determinante non secondaria della crisi è la carenza di investimenti
pubblici e privati il neo Presidente
della Commissione, Juncker, nel suo discorso di insediamento ha annunciato
un programma triennale di investimenti in finanza di progetto (mobilitando,
quindi risorse private a fronte di remunerazione e tariffe predefinite) per 300
miliardi di euro.
Tralasciando il
giudizio su tale impostazione, vorrei rimarcare che nel quadro di uno sforzo
coordinato e disperato per incoraggiare le banche a concedere prestiti, il
mercato a richiederli e a ridurre le sofferenze (che recenti stime di Sabine
Lautenschläger ora nel Board della BCE valutano al 25% dei prestiti) il Governo
Italiano ottiene in un sol colpo i seguenti risultati:
-
ricolloca tutti
gli investimenti nella categoria “medi e grandi impianti” FV, ca 8.000
posizioni per una cifra che potrebbe essere stimata in 25 miliardi di euro
(11.000 MW al costo di investimento medio di 2,5 Ml/MW), tra i crediti in sofferenza;
-
lo fa proprio un
paio di mesi prima della conclusione della ricognizione della BCE
finalizzata alla creazione dell’Unione Bancaria, che porterà richieste di
ricapitalizzazione già ingenti a carico del sistema creditizio italiano (se un
credito ulteriore va in sofferenza tecnica devono salire gli accantonamenti di
capitale), con il risultato certo di esasperarle;
-
colpisce la
fiducia nella capacità di mantenere gli impegni contrattuali nella finanza
di progetto (che, in fondo, di questo si tratta) proprio mentre sta partendo un
nuovo ciclo di investimenti europei che cerca di mobilitarla. Ciclo di
investimenti, lo voglio sottolineare, nel quale siamo di fatto in concorrenza
con gli altri paesi per attrarli (tra qualche anno lamenteremo che “non
sappiamo spendere” i soldi europei perché i bandi in finanza di progetto
saranno andati deserti, o saranno stati vinti da investitori di scarsa qualità,
mentre all’estero saranno stati un successo);
-
poiché almeno la metà di questi investimenti sono stati
fatti con capitali esteri, che sono stati attratti dal paese in una fase di
congiuntura e capacità attrattiva molto debole, il Governo comunica con questa azione ai Fondi di Investimento stranieri che
l’Italia non ha bisogno dei loro soldi, e che quando arrivano non lascerà che
siano remunerati.
Come si legge
dalla lettera dell’Ambasciatore Inglese, la risposta è più che ovvia: non li
porteranno più sulle opere pubbliche a tariffa italiane. La prossima volta che lo Stato italiano ha bisogno di fare un impianto
di depurazione sarà bene che trovi le risorse dalle tasse degli italiani.
Nel generale
imbarazzo per quello che è evidentemente un grave passo falso, figlio di
improvvisazione e demagogia,
un Viceministro che dovrebbe capire di economia contemporanea, e sinora non
ascrivibile al novero dei rivoluzionari, come Claudio De Vincenti, ha affermato in pubblico che <l'Italia vuole essere sempre più un Paese
che attrae investimenti produttivi e non investimenti speculativi, investimenti
che vengano a produrre e a prosperare nel Paese>. Ora, occorre capirsi,
perché la differenza tra una frase demagogica ed una posizione correttamente
argomentata è nella sua fondatezza e nel tasso di emotività. L’affermazione del
Viceministro è puramente emotiva, gli investimenti effettuati in Italia per
costruire impianti produttivi rivolti a generare energia da fonte rinnovabile d’interesse
pubblico, sono esattamente “produrre e prosperare nel paese”. Se in alcune
strette finestre, il fotovoltaico (ma ad ogni taglia, ovviamente) ha
prodotto ritorni sul capitale molto alti (paragonabili con l’investimento
immobiliare in fase espansiva) ciò dipende dal calo repentino dei costi di
istallazione a fronte di un calo meno pronto degli incentivi. Si tratta, in un
certo senso, di un errore tecnico del
Ministero dello Sviluppo Economico (cioè dell’amministrazione dalla quale parla
De Vincenti) e non degli operatori.
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| Italia 2008-14 Costi di investimento fotovoltaico industriale e incentivi |
Chiamare
“speculatori” tutti coloro i quali hanno investito secondo le norme vigenti,
solo perché la remunerazione dell’investimento, per chi è riuscito a cogliere
l’attimo, era superiore al 10%, nel contesto di una economia aperta e di totale
libertà di movimento dei capitali è del
tutto irresponsabile. A tal punto irresponsabile da lasciare aperto il
sospetto che si voglia coprire un diverso conflitto.
L’economia nella
quale il Ministro De Vincenti opera, e che non risulta affatto voglia cambiare,
è controllata da flussi di capitale liberi di muoversi, senza alcun attrito
normativo, tecnologico o fisico, per singoli decimali di rendimento.
Trasmettere ad un simile mercato il messaggio che un prossimo governo può
decidere di considerare “speculativo” il loro investimento dopo che è completato, e quindi decidere politicamente quale è il
rendimento accettabile, significa paralizzarlo per sempre. La posizione di De
Vincenti potrebbe farci scoprire che non c’è <niente di peggio di
un’economia della crescita che non cresce>, o, come diceva Joan Robinson che
<di peggio dall’essere sfruttati dal capitale c’è solo il non esserlo>.
La semplice
realtà dei fatti è che nessun fondo di investimento, o banca straniera, ma
anche fondo o banca italiana (dato che possono benissimo decidere di prestare i
loro soldi in Germania, come del resto
fanno) da ora in poi investirà in un progetto a tariffa regolata. I fondi
stranieri non lo potranno peraltro più
fare per Statuto, dopo aver assorbito perdite e aver fatto causa (che
vinceranno, ma questo è un altro discorso) allo Stato Italiano.
Ora vorrei fare una semplice domanda:
come mai un austero professore universitario, per tutta la sua carriera
professionale e amministrativa ascrivibile al novero dei prudenti gestori del
sistema neoliberale nel quale viviamo e non dei pericolosi rivoluzionari,
improvvisamente e solo su questo tema diventa un nemico acerrimo dei mercati
finanziari?
Solo su questo tema decide di fare la
rivoluzione? Di scavalcare a sinistra Serge Latouche e Joan Robinson? E lo
decide, guarda caso, colpendo solo una specifica industria, non finanziaria;
non chiudendo le frontiere ai flussi di capitali “caldi” (come li chiamava
Keynes), istituendo controlli e divieti all’esportazione dei capitali, al loro
flusso e improvviso deflusso, oppure imponendo limiti alla cessione degli
assett (ad esempio proibendo di rivenderli prima di un certo numero di anni), o
introducendo qualcun'altra delle misure di repressione pur necessarie e
probabilmente opportune.
Io sono per la
riduzione della libertà dei flussi finanziari, che comportano gravi rischi e
squilibri senza restituire reale crescita sostenibile; ma questa è una Grande Politica che andrebbe compiuta
insieme da tutta l’Unione Europea (ed in parte è in effetti in movimento) per
le giuste ragioni. Se la vogliamo fare solo in Italia, per elementari ragioni
tecniche e di logica, bisogna prima uscire dall’Euro, denunciare il Trattato di
Maastricht, e tutti quelli successivi nessuno escluso, chiudere le frontiere
(in primis finanziarie), ripristinare l’assoluta sovranità monetaria, convertire
crediti e debiti, congelare gli assett, e via dicendo.
Usarla questo
grande, complesso e pericoloso tema, solo per colpire retroattivamente un
settore che sta creando dei problemi alla big industry dell’energia è solo demagogia.
Ciò che serve al
paese è altro: bisogna portare i conflitti sopra il tappeto, metterli al centro
del tavolo, soppesare pro e contro delle diverse opzioni, mettere il presente a
confronto con il futuro, guardare in faccia i problemi e discuterne. Un governo
serio, di fronte a nodi così complessi, convocherebbe una Conferenza dell’Energia e della Conversione Ambientale, e non
procederebbe a colpi di Decreti Legge scritti in fretta ed altrettanto in
fretta pensati.





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