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sabato 19 luglio 2014

Energia, ambiente, demagogia e conflitti sotto il tappeto.


E’ in corso la conversione del DL 91 2014 nel Parlamento Italiano, il Decreto del 24 giugno interviene sulla materia energetica in cinque articoli tra i quali spiccano il 24 ed il 26. Nel primo è istituito un meccanismo per ribaltare parte dei costi “di sistema” anche sull’energia autoprodotta da fonte rinnovabile e direttamente consumata sul posto senza impegnare la rete. Si tratta di costi che i consumatori di energia devono sopportare, lo ricordo, per compensare i fallimenti di mercato e le esternalità conseguenti che provocano consumando energia che ha determinato emissioni di inquinanti e alterazioni climatiche nella sua produzione e trasporto.
Questa posizione muove da un argomento pragmatico per travolgere un criterio di principio, istituito in ogni fonte normativa primaria e secondaria di settore. Ma quale è l’ “argomento pragmatico”? Vale la pena prestarvi attenzione, perché le grandi trasformazioni si presentano sulla scena nella moneta di piccolo taglio quotidiana, e nella stessa veste si presentano le resistenze ed i conflitti.

L’argomento è che se prendesse piede la pratica di distaccare quota sempre maggiore dei propri consumi elettrici dal servizio della rete elettrica nazionale, il costo caricato sui consumatori connessi e relativo al sostegno previsto alla generazione da rinnovabili (per il 2014 stimato dal GSE in 13,6 Mld) si ripartirebbe su sempre meno kWh distribuiti. Salirebbe, dunque, in termini relativi per l’utente connesso e con ciò lo incentiverebbe a sconnettersi. Nel tempo questa dinamica sarebbe autorafforzante e potrebbe determinare una decisa accelerazione della pratica dell’autoconsumo.

Benissimo! Direbbero molti, la Strategia di Lisbona non prevedeva tra gli obiettivi strategici europei l’indipendenza energetica? E noi non importiamo al momento ca. l’80% delle risorse energetiche dall’estero? Non ci aiuterebbe, in particolare, a contenere il nostro rischio energetico?
Il neo Presidente della Commissione Europea, Juncker, non ha ribadito lo stesso concetto, ponendolo come una delle due priorità strategiche dell’Unione nel prossimo periodo? Insieme, ci torniamo alla fine, agli investimenti per la crescita?
La nuova Comunicazione per gli Aiuti di Stato per l’Ambiente, non ribadisce gli stessi concetti?

Malissimo! Dicono alcuni, ogni kWh che non è ritirato dalla rete, non solo non la usa ma non è neppure prodotto e venduto da una delle costosissime ed efficientissime nuove centrali a ciclo combinato che le nostre aziende energetiche (ma anche quelle europee, che negli anni novanta e zero sono venute ad investire in Italia decine di miliardi) hanno realizzato e che ora sono tristemente spente.

Soccorre anche l’altro articolo. Il 26, in cui con un atto praticamente senza precedenti sono ridotte ex post, ad investimenti già completati, le tariffe previste dai contratti stipulati con lo Stato e fisse per venti anni. Se a seguito di una legittima procedura prevista dalla legge (e da Decreti Attuativi) una società privata realizza, su progetto approvato, un’infrastruttura di servizio di pubblica utilità con proprie risorse a fronte di una tariffa garantita per un periodo prefissato in grado di coprire i costi d’investimento, si aspetta che il contratto sia rispettato. Alcuni esempi? Autostrade, impianti di depurazione, acquedotti, impianti di gestione rifiuti.
Ma nel settore energetico, evidentemente, questo non vale. Qui ogni kWh che mi produco dal sole, evidentemente “spegne” un kWh prodotto da gas o carbone. La cosa, dunque, “spegne” anche le società colossali che di questo vivono. Questo è il conflitto essenziale che la retorica tende a nascondere. Il conflitto tra un’industria uscente, ma ancora enormemente potente, ed una industria entrante, molto più distribuita e per ora debole.

Ora allarghiamo lo sguardo, di che parliamo, che succede altrove e in che contesto si sta giocando questa vicenda?
Riguardo al primo termine, prendiamo il Rapporto mensile di Terna di giugno 2014, la richiesta di energia elettrica, in Italia, a giugno è calata rispetto all’anno precedente di quasi l’1%, portandosi a 25,9 TWh, anche la potenza massima richiesta è calata in pari grado portandosi a 51 GWh. Di questo consumo meno della metà (12 TWh) è stato coperto da termoelettrico (che include anche le biomasse e i rifiuti, per cui probabilmente da gas e carbone ca. 10) mentre ca. 11 sono stati coperti da rinnovabili (6 da idroelettrico, ca. 1 da eolico e quasi 3 da fotovoltaico). Altri 3 TWh sono stati importati. Considerando il primo semestre del 2014 l’energia richiesta ha visto un calo al termoelettrico di un enorme 10% rispetto all’anno passato (nel quale era già calata, come fa da anni) e un incremento dell’8% del FV (malgrado non ci siano più incentivi da un anno) e del 11% dell’idroelettrico (mentre è calato l’eolico).

TERNA Consumi Italia 2010-14

Dal grafico Terna si vede il calo dei consumi negli ultimi anni. Come per ogni modifica di uno status quo questa è una buona notizia per alcuni (tra cui l’ambiente) ma pessima per altri.

Dall’audizione del GSE (Gestore Servizi Energetici) del 3 luglio 2014 si ricava, invece, che il costo degli oneri dell’incentivazione ammonta nel 2014 a 13,6 Mld, in crescita rispetto al 2012 (11,7) e 2012 (9,7) in parte a causa del calo di valore dell’energia elettrica. Dal 2012, infatti, la forbice tra le risorse erogate, in base alle cd. Tariffe Onnicomprensive (che ritirano tutta l’energia a prezzo fisso per poi rivenderla sul mercato al prezzo spuntato sullo stesso), e quelle effettivamente prelevate in bolletta (al netto, appunto, delle somme recuperate sul mercato rivendendo l’energia) si sta chiudendo. L’energia è rivenduta ad un prezzo sempre più basso. Ciò capita per la convergenza di due fattori: la minore richiesta e la maggiore incidenza delle rinnovabili (vendute con priorità a prezzo nullo).
Ma dall’audizione si ricava anche una proiezione di costo per il solo Fotovoltaico superiore ai 200 kW (oggetto dell’intervento ex art. 26) dalla quale si legge che oggi incide in bolletta per 4,1 Mld e che nel 2030 inciderà per 3.7 Mld per poi andare ad annullarsi nell’arco di due anni. Dopo l’intervento inciderà per 3,5 (facendo una media sulla forchetta di stima che indicano) e nel 2033 per 3,3 andando ad annullarsi poi negli stessi due anni. Bisogna notare una cosa: il costo non è indicizzato, mentre i 4,1 Mld sono “moneta 2014”, anche i 3,7 del 2030 sono nella stessa moneta. Dunque se la BCE avesse successo nel riportare (diciamo entro due anni) l’inflazione al 2% avremmo un costo reale su moneta 2030 inferiore del 25%. Mentre se l’inflazione, dopo un periodo di due anni, salisse al 3% perderebbero il 34% e se salisse al 5% (“ipotesi Krugman”, cioè modello di contrasto alla “Stagnazione Secolare”) perderebbe ca. la metà. In termini di potere di acquisto gli incentivi, insomma, si ridurranno comunque nel tempo da un minimo del 25% al massimo prevedibile del 50%.  

Germania domanda energia
Ma allarghiamo un altro poco (penultima volta): che succede in Germania nel settore energetico? Da una rivista specializzata apprendiamo che nei 100 giorni che sono passati dall’aprile 2014 per tre quarti di essi l’energia elettrica è stata venduta a meno di 4 centesimi a kWh, mentre in Francia il prezzo è addirittura di 2 centesimi (il che spiega le importazioni in Italia). Dall’articolo si apprende che la Francia il 9 luglio ha impegnato una potenza diretta all’esportazione che è arrivata fino a 10 GW, con prezzi che erano la metà di quelli tedeschi. Una cosa simile in Inghilterra, dove i prezzi hanno perso il 40% in un anno. Ed ovviamente in Italia, dove sono calati del 30% ca, portandosi dalle parti del 4,5 centesimi (non se ne è accorto quasi nessuno? <Questa è la domanda giusta> diceva il protagonista, morto, di un film di qualche anno fa).

E, ancora in Germania, come sta evolvendo la potenza disponibile? Nel grafico troviamo la domanda negli ultimi dieci anni e la sua copertura da fonti nazionali. La progressiva uscita dal nucleare, in questo momento sta favorendo una relativa ripresa di combustibili “sporchi”, ma più economici, come la lignite ed il carbone entro lo spazio di mercato costantemente calante del “carico residuo” (cioè di quella richiesta di energia che residua dopo che le rinnovabili sono state utilizzate). Come si vede le rinnovabili sono cresciute (come in Italia ripagate in bolletta) da 46 TWh a 152 TWh in dieci anni, mentre il nucleare è sceso da 165 TWh a 97, e le altre fonti sono più o meno stabili (salvo il carbone che ha perso 20 TWh). La lignite è leggermente salita dal 2010.
La previsione, a meno la UE implementi un sistema ETS più efficace o un’altra forma di tassazione della CO2 emessa (spostando in favore del gas naturale il vantaggio competitivo) è che fino al 2023 si potrebbe avere una compressione molto forte di tutte le fonti fossili ed un forte incremento della generazione da rinnovabili (da 152 TWh a 255 TWh) che arriverebbero a ca. il 50% della domanda, con una perdita meno pronunciata della lignite.

Germania proiezione 2023

Come si vede se questo trend continua il sistema elettrico europeo va verso un modello di remunerazione basato su un canone fisso per gestire la rete (e qualche riserva di potenza) più un prezzo per l’alimentazione nei picchi, in cui la rete “chiede” più energia della base a prezzo marginale zero (la base di generazione delle rinnovabili). L’azione condotta con il DL 91 cerca di contrastare questa trasformazione.


Adesso mi vorrei chiedere se contrastare disperatamente questa trasformazione, anche al prezzo di tradire gli impegni e portare in sofferenza tecnica buona parte degli investimenti che cittadini ed imprese in buona fede hanno fatto negli ultimi anni (osservando questa irresistibile trasformazione in atto e le norme con gran evidenza presentate che la supportavano), è sostenibile in questa particolare congiuntura. Anche al prezzo di farsi scrivere dal governo inglese questa lettera praticamente senza precedenti?
Quale è il problema principale che l’Europa (ma in realtà il mondo) ha davanti in questa fase che non vuole passare? In termini di congiuntura la risposta è semplice (in termini più profondi no, e questo blog ne è espressione): un eccesso di debito privato in stato di sofferenza e una carenza di investimenti causata da troppi capitali in cerca d’investimenti a basso rischio ed alta remunerazione. La carenza di investimenti nell’economia “reale” disponibili, che soddisfino i requisiti di redditività e rischiosità, tende ad abbassare i tassi e spinge per contrasto le banche centrali a politiche ultrapermissive permanenti. In Europa, l’incomprensione della natura stessa della crisi come crisi di debito privato e di fiducia, insieme ad una concettualizzazione del tutto errata della natura del denaro (ed a una profonda divergenza di interessi tra creditori e debitori, sia entro gli Stati sia tra i sistemi economici concorrenti) distrugge costantemente le forze produttive ed umane dei paesi in difficoltà, determinando un generale clima deflattivo nel quale altissima disoccupazione, insufficiente impiego delle infrastrutture, e progressivo degrado del merito di credito rende sempre meno sostenibile le piramidi debitore. Questa è la ragione per cui, in assenza d’investimenti privati, e di anticiclici investimenti pubblici anche a causa delle politiche di austerità, il debito continua ad aumentare (il nostro record è della settima a scorsa) malgrado (anzi, a causa) dei continui mal intesi risparmi di spesa.
Nella disperazione di chi ormai non ha più carte, la BCE all’inizio di giugno, ha promosso un nuovo pacchetto di stimoli non convenzionale il cui scopo centrale è di migliorare le condizioni patrimoniali e reddituali del sistema bancario, nella speranza che aumenti l’erogazione di prestiti per investimenti alla cosiddetta “economia reale”. Una classica “politica dell’offerta” da accompagnare, secondo il Presidente Draghi, in alcune recenti esternazioni con politiche competitive nazionali, magari sotto controllo Europeo.
Da ultimo, evidentemente consapevole che una determinante non secondaria della crisi è la carenza di investimenti pubblici e privati il neo Presidente della Commissione, Juncker, nel suo discorso di insediamento ha annunciato un programma triennale di investimenti in finanza di progetto (mobilitando, quindi risorse private a fronte di remunerazione e tariffe predefinite) per 300 miliardi di euro.

Tralasciando il giudizio su tale impostazione, vorrei rimarcare che nel quadro di uno sforzo coordinato e disperato per incoraggiare le banche a concedere prestiti, il mercato a richiederli e a ridurre le sofferenze (che recenti stime di Sabine Lautenschläger ora nel Board della BCE valutano al 25% dei prestiti) il Governo Italiano ottiene in un sol colpo i seguenti risultati:
-          ricolloca tutti gli investimenti nella categoria “medi e grandi impianti” FV, ca 8.000 posizioni per una cifra che potrebbe essere stimata in 25 miliardi di euro (11.000 MW al costo di investimento medio di 2,5 Ml/MW), tra i crediti in sofferenza;
-          lo fa proprio un paio di mesi prima della conclusione della ricognizione della BCE finalizzata alla creazione dell’Unione Bancaria, che porterà richieste di ricapitalizzazione già ingenti a carico del sistema creditizio italiano (se un credito ulteriore va in sofferenza tecnica devono salire gli accantonamenti di capitale), con il risultato certo di esasperarle;
-          colpisce la fiducia nella capacità di mantenere gli impegni contrattuali nella finanza di progetto (che, in fondo, di questo si tratta) proprio mentre sta partendo un nuovo ciclo di investimenti europei che cerca di mobilitarla. Ciclo di investimenti, lo voglio sottolineare, nel quale siamo di fatto in concorrenza con gli altri paesi per attrarli (tra qualche anno lamenteremo che “non sappiamo spendere” i soldi europei perché i bandi in finanza di progetto saranno andati deserti, o saranno stati vinti da investitori di scarsa qualità, mentre all’estero saranno stati un successo);
-          poiché almeno la metà di questi investimenti sono stati fatti con capitali esteri, che sono stati attratti dal paese in una fase di congiuntura e capacità attrattiva molto debole, il Governo comunica con questa azione ai Fondi di Investimento stranieri che l’Italia non ha bisogno dei loro soldi, e che quando arrivano non lascerà che siano remunerati.

Come si legge dalla lettera dell’Ambasciatore Inglese, la risposta è più che ovvia: non li porteranno più sulle opere pubbliche a tariffa italiane. La prossima volta che lo Stato italiano ha bisogno di fare un impianto di depurazione sarà bene che trovi le risorse dalle tasse degli italiani.


Nel generale imbarazzo per quello che è evidentemente un grave passo falso, figlio di improvvisazione e demagogia, un Viceministro che dovrebbe capire di economia contemporanea, e sinora non ascrivibile al novero dei rivoluzionari, come Claudio De Vincenti, ha affermato in pubblico che <l'Italia vuole essere sempre più un Paese che attrae investimenti produttivi e non investimenti speculativi, investimenti che vengano a produrre e a prosperare nel Paese>. Ora, occorre capirsi, perché la differenza tra una frase demagogica ed una posizione correttamente argomentata è nella sua fondatezza e nel tasso di emotività. L’affermazione del Viceministro è puramente emotiva, gli investimenti effettuati in Italia per costruire impianti produttivi rivolti a generare energia da fonte rinnovabile d’interesse pubblico, sono esattamente “produrre e prosperare nel paese”. Se in alcune strette finestre, il fotovoltaico (ma ad ogni taglia, ovviamente) ha prodotto ritorni sul capitale molto alti (paragonabili con l’investimento immobiliare in fase espansiva) ciò dipende dal calo repentino dei costi di istallazione a fronte di un calo meno pronto degli incentivi. Si tratta, in un certo senso, di un errore tecnico del Ministero dello Sviluppo Economico (cioè dell’amministrazione dalla quale parla De Vincenti) e non degli operatori.
Italia 2008-14 Costi di investimento fotovoltaico industriale e incentivi


Chiamare “speculatori” tutti coloro i quali hanno investito secondo le norme vigenti, solo perché la remunerazione dell’investimento, per chi è riuscito a cogliere l’attimo, era superiore al 10%, nel contesto di una economia aperta e di totale libertà di movimento dei capitali è del tutto irresponsabile. A tal punto irresponsabile da lasciare aperto il sospetto che si voglia coprire un diverso conflitto.

L’economia nella quale il Ministro De Vincenti opera, e che non risulta affatto voglia cambiare, è controllata da flussi di capitale liberi di muoversi, senza alcun attrito normativo, tecnologico o fisico, per singoli decimali di rendimento. Trasmettere ad un simile mercato il messaggio che un prossimo governo può decidere di considerare “speculativo” il loro investimento dopo che è completato, e quindi decidere politicamente quale è il rendimento accettabile, significa paralizzarlo per sempre. La posizione di De Vincenti potrebbe farci scoprire che non c’è <niente di peggio di un’economia della crescita che non cresce>, o, come diceva Joan Robinson che <di peggio dall’essere sfruttati dal capitale c’è solo il non esserlo>.
La semplice realtà dei fatti è che nessun fondo di investimento, o banca straniera, ma anche fondo o banca italiana (dato che possono benissimo decidere di prestare i loro soldi in Germania, come del resto fanno) da ora in poi investirà in un progetto a tariffa regolata. I fondi stranieri non lo potranno  peraltro più fare per Statuto, dopo aver assorbito perdite e aver fatto causa (che vinceranno, ma questo è un altro discorso) allo Stato Italiano.

Ora vorrei fare una semplice domanda: come mai un austero professore universitario, per tutta la sua carriera professionale e amministrativa ascrivibile al novero dei prudenti gestori del sistema neoliberale nel quale viviamo e non dei pericolosi rivoluzionari, improvvisamente e solo su questo tema diventa un nemico acerrimo dei mercati finanziari?
Solo su questo tema decide di fare la rivoluzione? Di scavalcare a sinistra Serge Latouche e Joan Robinson? E lo decide, guarda caso, colpendo solo una specifica industria, non finanziaria; non chiudendo le frontiere ai flussi di capitali “caldi” (come li chiamava Keynes), istituendo controlli e divieti all’esportazione dei capitali, al loro flusso e improvviso deflusso, oppure imponendo limiti alla cessione degli assett (ad esempio proibendo di rivenderli prima di un certo numero di anni), o introducendo qualcun'altra delle misure di repressione pur necessarie e probabilmente opportune.
Io sono per la riduzione della libertà dei flussi finanziari, che comportano gravi rischi e squilibri senza restituire reale crescita sostenibile; ma questa è una Grande Politica che andrebbe compiuta insieme da tutta l’Unione Europea (ed in parte è in effetti in movimento) per le giuste ragioni. Se la vogliamo fare solo in Italia, per elementari ragioni tecniche e di logica, bisogna prima uscire dall’Euro, denunciare il Trattato di Maastricht, e tutti quelli successivi nessuno escluso, chiudere le frontiere (in primis finanziarie), ripristinare l’assoluta sovranità monetaria, convertire crediti e debiti, congelare gli assett, e via dicendo.

Usarla questo grande, complesso e pericoloso tema, solo per colpire retroattivamente un settore che sta creando dei problemi alla big industry dell’energia è solo demagogia.



Ciò che serve al paese è altro: bisogna portare i conflitti sopra il tappeto, metterli al centro del tavolo, soppesare pro e contro delle diverse opzioni, mettere il presente a confronto con il futuro, guardare in faccia i problemi e discuterne. Un governo serio, di fronte a nodi così complessi, convocherebbe una Conferenza dell’Energia e della Conversione Ambientale, e non procederebbe a colpi di Decreti Legge scritti in fretta ed altrettanto in fretta pensati.


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