Articolo
su The Economist di Ra (uno dei loro
blogger), sul tema dell’ineguaglianza. L’articolo, in uno dei templi del
pensiero liberista, è consigliato su Twitter da Dani Rodrik, ed in effetti
assume una posizione singolare, attaccando abbastanza apertamente Tyler Cowen
che sul New York Times ha scritto
una colonna sull’ineguaglianza sostenendo che il fatto (riconosciuto anche da
Milanovic) che le differenze di reddito siano in aumento nei paesi OCSE (ma
anche Cina ed India) mentre sono in calo nella media mondiale, sia da valutare
con maggiore attenzione. In particolare Cowen sostiene che questo fatto derivi
dal commercio internazionale.
Dunque lo stesso
fattore ha ridotto “drasticamente” la povertà in alcuni paesi mentre ha “tenuto
premuto il salario in alcune parti della classe media americana”. Ancora più
rilevante, la crescita cinese, per Cowen, ha “probabilmente sollevato i redditi
dell’1% negli Stati Uniti” attraverso l’aumento del valore azionario delle
società che si sono giovate dell’incremento delle esportazioni.
Il punto di
Cowen è che questi sviluppi “non sono di buon auspicio” per gli Stati Uniti (ovviamente,
vale anche per l’Europa), ma che questo è, a suo parere, “un punto di vista
strettamente nazionalista”. Da quello cosmopolita, l’aumento dei redditi e
della prosperità mondiale, è una buona cosa.
Dunque, ci dice
l’autore, sotto il dolce mantello dell’egualitarismo si nasconde un arcigno
nazionalismo. Il vero egualitarista dovrebbe “seguire l’inclinazione degli
economisti e cercare di promuovere politiche di massimizzazione della
ricchezza, anche se significa preoccuparsi di meno della disuguaglianza all’interno
di una singola nazione”. Dunque bisogna avere più fiducia: il capitalismo e la
crescita economica “stanno continuando il loro ruolo storico di equalizzatori”,
i “più grandi e più efficaci mai conosciuti”.
Il commento di The Economist vede “alcuni seri problemi”
in questa tesi (peraltro abbastanza classica) che odora di tattica retorica, chi
si oppone all’ineguaglianza (come “Occupy Wall Street”) non si oppongono al
commercio (ancora), ma alle oscure pratiche di distribuzione della ricchezza
finanziaria, e fiscale; agli aiuti alle grandi banche; allo strapotere delle
lobby, che vanificano il principio democratico sostituendolo con il principio,
più antico, “un dollaro, un voto”. Non viene richiesta la chiusura delle
frontiere, o l’incremento delle tariffe doganali, ma la regolamentazione
finanziaria, tasse più alte per i ricchi, più soldi per la sicurezza e gli
investimenti.
Secondo Ra,
insomma, Cowen “ha la coda di paglia”, ciò che teme è la ridistribuzione
interna e per evitarla avanza il dubbio che possa distruggere ricchezza,
minacciando la prosperità globale. Ma i due presupposti secondo i quali la
presunta espansione di ricchezza mondiale andrebbe comunque a vantaggio anche
della classe media indebolita in occidente sono fallaci: il primo è che si
servono meglio i poveri massimizzando la ricchezza della nazione, il secondo è
che la redistribuzione intenzionale renderebbe necessariamente l’economia più
povera. Una strana circolarità logica è all’opera in questo (antico) argomento:
<se si vuole redistribuire il più possibile è necessario non farlo per
potenziare le risorse disponibili alla redistribuzione> (ma se poi non lo
faccio? Aspetto il paradiso?).
Il blog del
giornale liberista chiama “tenui” questi presupposti. Non li considera di
destra (e questa affermazione è singolare), ma li considera soggetti a maggiore
attenzione.
Il problema (e
qui comincia a vedersi il tono ideologico della testata) è che c’è un effetto
secondario della redistribuzione che va salvaguardato: “fornisce
un'assicurazione contro la dislocazione economica e, pertanto, ammorbidisce la
resistenza alla globalizzazione”. In altre parole, come mostra la storia
delle fasi precedenti di globalizzazione, “la redistribuzione è per le
democrazie il prezzo pagare per la globalizzazione”.
Infatti la
riduzione delle barriere al commercio genera profitti netti, ma quei guadagni a
volte sono distribuiti in modo molto diseguale. In conseguenza, se i
guadagni sono concentrati e non è prevista alcuna redistribuzione, la
maggioranza al voto potrebbe anche concludere che l'apertura è una proposta
perdente. Infatti lo è per loro.
L’argomento di Cowen finge di dimenticare ciò, e inquadra le economie occidentali come se fossero enti di beneficienza, contenti
di sacrificarsi in favore dei poveri dall’altra parte del mondo. Gli elettori dovrebbero
essere felici di impoverirsi, e vedere i propri figli non potersi permettere i
livelli di benessere, istruzione e salute, di cui hanno goduto loro, in favore
dei contadini cinesi che si spostano dalle risaie dei nord alle fabbriche del
sud. Qualunque economista dovrebbe trovare assurda questa posizione.
Il blogger,
insomma, chiede a Cowen <che cosa,
esattamente, stai chiedendo?>. Di far prevalere la governance economica
globale sull’interesse personale e sociale della maggioranza della popolazione
dei paesi Ocse? In altre parole, di “sostituire la democrazia con la regola
cosmopolita delle élite”?.
Il pezzo di
Cowen sembra, in altre parole, l’espressione delle “preoccupazioni
plutocratiche, nascondendole dietro il mantello più dolce dell’egualitarismo”
in chiave mondiale.
Mangiate questo!

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