Pagine

lunedì 21 luglio 2014

Ra, “Che mangino cosmopolitismo!”


Articolo su The Economist di Ra (uno dei loro blogger), sul tema dell’ineguaglianza. L’articolo, in uno dei templi del pensiero liberista, è consigliato su Twitter da Dani Rodrik, ed in effetti assume una posizione singolare, attaccando abbastanza apertamente Tyler Cowen che sul New York Times ha scritto una colonna sull’ineguaglianza sostenendo che il fatto (riconosciuto anche da Milanovic) che le differenze di reddito siano in aumento nei paesi OCSE (ma anche Cina ed India) mentre sono in calo nella media mondiale, sia da valutare con maggiore attenzione. In particolare Cowen sostiene che questo fatto derivi dal commercio internazionale.
Dunque lo stesso fattore ha ridotto “drasticamente” la povertà in alcuni paesi mentre ha “tenuto premuto il salario in alcune parti della classe media americana”. Ancora più rilevante, la crescita cinese, per Cowen, ha “probabilmente sollevato i redditi dell’1% negli Stati Uniti” attraverso l’aumento del valore azionario delle società che si sono giovate dell’incremento delle esportazioni.
Il punto di Cowen è che questi sviluppi “non sono di buon auspicio” per gli Stati Uniti (ovviamente, vale anche per l’Europa), ma che questo è, a suo parere, “un punto di vista strettamente nazionalista”. Da quello cosmopolita, l’aumento dei redditi e della prosperità mondiale, è una buona cosa.
Dunque, ci dice l’autore, sotto il dolce mantello dell’egualitarismo si nasconde un arcigno nazionalismo. Il vero egualitarista dovrebbe “seguire l’inclinazione degli economisti e cercare di promuovere politiche di massimizzazione della ricchezza, anche se significa preoccuparsi di meno della disuguaglianza all’interno di una singola nazione”. Dunque bisogna avere più fiducia: il capitalismo e la crescita economica “stanno continuando il loro ruolo storico di equalizzatori”, i “più grandi e più efficaci mai conosciuti”.


Il commento di The Economist vede “alcuni seri problemi” in questa tesi (peraltro abbastanza classica) che odora di tattica retorica, chi si oppone all’ineguaglianza (come “Occupy Wall Street”) non si oppongono al commercio (ancora), ma alle oscure pratiche di distribuzione della ricchezza finanziaria, e fiscale; agli aiuti alle grandi banche; allo strapotere delle lobby, che vanificano il principio democratico sostituendolo con il principio, più antico, “un dollaro, un voto”. Non viene richiesta la chiusura delle frontiere, o l’incremento delle tariffe doganali, ma la regolamentazione finanziaria, tasse più alte per i ricchi, più soldi per la sicurezza e gli investimenti.

Secondo Ra, insomma, Cowen “ha la coda di paglia”, ciò che teme è la ridistribuzione interna e per evitarla avanza il dubbio che possa distruggere ricchezza, minacciando la prosperità globale. Ma i due presupposti secondo i quali la presunta espansione di ricchezza mondiale andrebbe comunque a vantaggio anche della classe media indebolita in occidente sono fallaci: il primo è che si servono meglio i poveri massimizzando la ricchezza della nazione, il secondo è che la redistribuzione intenzionale renderebbe necessariamente l’economia più povera. Una strana circolarità logica è all’opera in questo (antico) argomento: <se si vuole redistribuire il più possibile è necessario non farlo per potenziare le risorse disponibili alla redistribuzione> (ma se poi non lo faccio? Aspetto il paradiso?).
Il blog del giornale liberista chiama “tenui” questi presupposti. Non li considera di destra (e questa affermazione è singolare), ma li considera soggetti a maggiore attenzione.


Il problema (e qui comincia a vedersi il tono ideologico della testata) è che c’è un effetto secondario della redistribuzione che va salvaguardato: “fornisce un'assicurazione contro la dislocazione economica e, pertanto, ammorbidisce la resistenza alla globalizzazione”. In altre parole, come mostra la storia delle fasi precedenti di globalizzazione, “la redistribuzione è per le democrazie il prezzo pagare per la globalizzazione”.
Infatti la riduzione delle barriere al commercio genera profitti netti, ma quei guadagni a volte sono distribuiti in modo molto diseguale. In conseguenza, se i guadagni sono concentrati e non è prevista alcuna redistribuzione, la maggioranza al voto potrebbe anche concludere che l'apertura è una proposta perdente. Infatti lo è per loro.
L’argomento di Cowen finge di dimenticare ciò, e inquadra le economie occidentali come se fossero enti di beneficienza, contenti di sacrificarsi in favore dei poveri dall’altra parte del mondo. Gli elettori dovrebbero essere felici di impoverirsi, e vedere i propri figli non potersi permettere i livelli di benessere, istruzione e salute, di cui hanno goduto loro, in favore dei contadini cinesi che si spostano dalle risaie dei nord alle fabbriche del sud. Qualunque economista dovrebbe trovare assurda questa posizione.

Il blogger, insomma, chiede a Cowen <che cosa, esattamente, stai chiedendo?>. Di far prevalere la governance economica globale sull’interesse personale e sociale della maggioranza della popolazione dei paesi Ocse? In altre parole, di “sostituire la democrazia con la regola cosmopolita delle élite”?.
Il pezzo di Cowen sembra, in altre parole, l’espressione delle “preoccupazioni plutocratiche, nascondendole dietro il mantello più dolce dell’egualitarismo” in chiave mondiale.

Mangiate questo!



Nessun commento:

Posta un commento