Infuria da molti
anni il dibattito sulla spesa pubblica, che sarebbe da ridurre “senza se e
senza ma”, e sull’austerità, che è presentata come saggia, prudente e senza
alternative. Quando si va un poco più in profondità però si rivela che
l’austerità serve uno scopo, che vorrei chiamare “politico”, ma potrebbe anche
essere qualificato come morale, disciplinare
gli organismi eletti ed i cittadini con essi. Costringerli, cioè, a non
chiedere più servizi, più protezione, un ambiente più salubre, maggiore salute,
un sostegno di fronte ai rischi della vita, etc.. rendendosi conto che le
risorse disponibili non bastano. Cioè
che tutte queste cose sono belle, ci dicono, ma non ce le possiamo permettere, perché i mercati sono pronti a
punire chi avesse il cuore tenero. In un mondo che non è complessivamente mai
stato così ricco, in cui la capacità produttiva non è mai stata così
sovrabbondante, in cui il potere della tecnologia non è mai stato così determinante,
non ci sono risorse per garantire una vita dignitosa ad almeno un terzo della
popolazione. Questo risultato non si può più ottenere attraverso l’azione
collettiva intenzionale, attraverso l’azione della politica democratica.
Resta allora la
strada della deflazione competitiva;
resta la speranza che qualche altra parte del mondo sia più generosa e non si
protegga dalle nostre aziende. Resta la speranza di poter sottrarre lo sviluppo,
che non creiamo, in casa degli altri. Utilizzare la loro “domanda interna”
(cioè la capacità di spesa e gli acquisti di beni e di servizi dei loro
cittadini) per vendergli prodotti e servizi che i nostri cittadini non hanno
capacità di assorbire.
Aprendo un
piccolo inciso su questa logica “esteroflessa”, praticata da decenni dalla
Germania e da essa proposta a tutta l’Europa, farei notare che avere
strutturalmente e permanentemente un surplus delle partite economiche con l’estero
di 280 miliardi di Euro, significa in sostanza che i cittadini tedeschi tutti
consumano (includendo gli investimenti in patria) meno di quel che il paese
produce. Una parte della produzione resta non impiegata o investita in Germania
e va a tradursi in capitali finanziari in cerca di impieghi all’estero. Il
sistema genera un surplus, essenzialmente profitti di attività industriali o
finanziarie, che non contribuisce al benessere della nazione, ma resta
accantonato nelle capienti cassaforti della finanza internazionale.
Ciò che si
chiede a tutti è di avere strutturalmente un sistema in cui si consuma meno di
quel che si produce, si estraggono profitti dalla produzione (cioè dal capitale
e dal lavoro impiegato, i cosiddetti “fattori produttivi”) e questi non si reinvestono,
né collettivamente né individualmente, per spostarli sul sistema finanziario a-territoriale
e fiscalmente irresponsabile. Sistema che va ovviamente tenuto liquido e libero
di muoversi come un carico nella carena di una nave.
Questa logica
irresponsabile, che porterà per certo al ribaltamento della nave al primo
incidente esterno, è disegnata a specifica misura e vantaggio dei titolari del
capitale “mobile”, che è preordinato a massimizzare.
Restando dentro
questo sistema logico non ci sono più molte alternative, in effetti: bisogna
produrre di più a minor prezzo, e certo non si può ottenere abbassando il
saggio di profitto (altrimenti “i mercati” reagirebbero non comprando i
titoli), dunque resta solo la strada di aumentare l’efficienza a parità di input,
e la via più semplice è di abbassare i salari e per questo aumentare la
disoccupazione. In questo modo la sofferenza sociale, e l’elevato numero di
disoccupati, produrrà una pressione al ribasso dei prezzi e questa rafforzerà
la competitività di prezzo. Le merci a minore prezzo della concorrenza potranno
essere vendute all’estero (dato che i cittadini interni, i cui salari sono
stati annullati o ridotti non sono in grado di acquistarle), i profitti saranno
accumulati e spostati all’estero (o in prodotti finanziari sconnessi del tutto
dall’economia reale, e dunque letteralmente in nessun luogo). Non saranno reinvestiti
nell’economia del paese, altrimenti questo farebbe risalire i salari ed i
prezzi, vanificando il vantaggio competitivo.
Questo schema è,
in altre parole, strutturalmente deflattivo dal punto di vista del sistema economico
locale, strutturalmente espansivo dal punto di vista dell’accumulazione
finanziaria.
Un piano chiaro,
che ha un problema: non funziona e non ce
lo possiamo permettere. Per chi vive nella nave con il carico mobile, e non
dispone di una scialuppa di salvataggio di prima classe, questo sistema è una
promessa di naufragio e di morte.
Anche la
imminente decisione sull’azione di espansione finanziaria, che la BCE è
invitata da più parti a compiere per l’autunno, entra in pieno in questo
quadro. Perché la stessa cosa si può fare per scopi molto diversi. Soccorre allora
nell’inquadrare in modo diverso questi temi un interessante articolo
sul blog di France Coppola circa le
relazioni tra “l’espansione quantitativa” (QE) e la politica fiscale degli
Stati. L’articolo parte da un paper di Johnston e Pugh del Dipartimento Giuridico dell'Università di Sheffield nel quale è discussa
la legittimità e l'efficacia del QE e dei suoi parenti, tra cui l’OMT della BCE,
cui fu legato il famoso “faremo qualsiasi cosa” di Draghi (che fermò la fase
più acuta della crisi). Il documento fa soprattutto riferimento alla sentenza
della Corte costituzionale tedesca che dichiarò
l’OMT equivalente al finanziamento monetario dei deficit pubblici e pertanto illegittimo.
Come ricordiamo la
Corte Tedesca rinviò la parte esecutiva della sua decisione
alla Corte di Giustizia Europea, che
deve ancora fornire il suo giudizio in questa materia – e si prevede dissentirà
–; il punto è che abbastanza evidentemente a causa di questa sentenza (cioè per
non sfidare frontalmente le autorità tedesche e mettere in grave imbarazzo lo
stesso Governo), come dice la
Coppola , la BCE
sta facendo del suo meglio per evitare di emettere QE a titolo definitivo, “molto
probabilmente a causa di dubbi sulla sua legittimità”.
In effetti,
anche se la BCE
ha formalmente dichiarato che a suo parere il QE è legale, non è affatto chiaro
se sia vero. Così l'Università di Sheffield ha provato a verificare la
legalità sia dell’OMT e sia del QE rispetto al Trattato di Lisbona, risultando alla fine concorde con la Corte costituzionale tedesca; l’OMT
effettivamente equivale al finanziamento monetario dei governi e lo stesso vale
per il QE. Entrambi sono quindi tecnicamente illegali ai sensi
dell'articolo 123 del Trattato di Lisbona che recita
così (all'articolo 123
del Trattato di Lisbona):
1. Gli scoperti di conto o qualsiasi
altra forma di facilitazione creditizia da parte della Banca Centrale Europea o
da parte delle Banche Centrali degli Stati membri, a favore di istituzioni,
organi o organismi dell'Unione, delle amministrazioni statali, regionali, enti
pubblici locali o di altri, di altri organismi di diritto pubblico o di imprese
pubbliche degli Stati membri sono vietate, così come l'acquisto diretto presso
di essi da parte della Banca Centrale Europea o delle Banche Centrali Nazionali
di titoli di debito.
2. Il paragrafo 1 non si applica agli
enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell'offerta di riserve
da parte delle Banche Centrali, devono ricevere lo stesso trattamento dalle Banche
Centrali Nazionali e dalla Banca Centrale Europea degli enti creditizi privati.
E’ il caso di
notare che il Regno Unito (data la sua migliore gestione della trattiva di
entrata nel sistema di Maastricht) si giova di una restrizione
specifica sull'applicabilità
del paragrafo 1 grazie alla quale può continuare a utilizzare il Tesoro nei “modi
e mezzi” esistenti, concedendo anche eventualmente lo scoperto presso la Banca d'Inghilterra:
Ma secondo la
visione di Johnston & Pugh questo peraltro non esclude il Regno Unito dal divieto generale del finanziamento
monetario dei disavanzi di bilancio di cui all'articolo 123. Le “vie e mezzi” sullo
scoperto è stata del resto usata l'ultima volta nel 2008, al culmine della crisi
finanziaria e poi mai più. La questione è quindi se anche la Banca d'Inghilterra con il suo forte
programma QE (gli altri due sono stati quelli della FED e quello della BOJ) ha
violato il divieto di finanziamento monetario al quale il Regno Unito è
soggetto firmatario del Trattato di
Lisbona. I ricercatori di Sheffield pensano che sia così.
Le ragioni non
sono semplici: gli acquisti da parte delle Banche Centrali del debito diretto
del proprio governo nel mercato dei capitali non sono direttamente vietati ai
sensi del Trattato di Lisbona. In
effetti non possono esserlo, perché sarebbe come vietare il principale
meccanismo che le Banche Centrali dell'UE hanno storicamente utilizzato per
controllare l'inflazione, vale a dire operazioni di mercato aperto (vendite e
acquisti di debito pubblico) per mantenere i tassi di interesse a un livello
target. Questo meccanismo è attualmente in sospeso, a causa della presenza
di riserve in eccesso nel sistema bancario, ma questo non significa che non
potrà mai essere riutilizzato in futuro. Ma il QE coinvolge anche gli
acquisti di debito pubblico sul mercato secondario, è facile quindi vederlo
come operazioni di mercato aperto semplicemente su una scala molto più
grande.
Ma la cosa
importante è che la ricerca citata dalla Coppola individua un fraintendimento
della natura e lo scopo del QE; quando il debito pubblico è acquistato in
un programma di QE, lo scopo diretto è controllare il prezzo di mercato di quel
debito. Tramite il programma la Banca
Centrale definisce il prezzo del debito pubblico. Questo vale in
entrambi i programmi QE limitati, come la Banca d'Inghilterra, e senza limiti, come quelli
negli Stati Uniti, Giappone e Svizzera.
Se ciò non
avviene, e i governi sono costretti a finanziarsi sui mercati dei capitali
piuttosto che ottenere un finanziamento dalla Banca Centrale, la cosa comporta
una stringente “disciplina fiscale”. Infatti se i governi aumentano la
spesa i mercati dei capitali spingono verso l'alto il costo del denaro,
costringendoli di fatto o a tagliare le spese o ad aumentare le tasse. Un
meccanismo semplice ed esplicitamente ricercato tramite il famoso “divorzio”
tra Banche Centrali e Politica (cioè tramite la ricerca dell’indipendenza tra
Banche Centrali e democrazia).
Ma se la Banca Centrale fissa invece il
prezzo limite del debito pubblico, dichiarandosi pronta ad acquistarne in
quantità illimitata, in conseguenza non vi è alcuna disciplina esterna sul governo. La disciplina
può venire allora solo per vie interne (cioè tramite la democrazia, quindi le
elezioni). Questa è quella che chiamerei “sindrome del mercato dittatore” che
egemonizza le scienze economiche. Infatti la cosa è descritta normalmente come
libertà da parte del Governo di “emettere tanto debito quanto si vuole con la
certezza che ci sarà sempre un acquirente”. In questo contesto la parola “libertà”
(come tutte polisemica) assume la connotazione di arbitrio o libertinaggio. Cioè
neutralizzazione di quello “sciopero del compratore” che è visto positivamente
dal pensiero liberista come forma di controllo dell’arbitrio; il compratore è l’unico sovrano riconoscibile nell’assetto
economico contemporaneo. Questo sovrano (nella forma meno impersonale delle
banche creditrici) ha –ad esempio- causato l’esplosione del prezzo del debito e
i rendimenti a picco in Grecia. L’effetto annuncio della BCE, pur senza
farlo ha surrogato questo effetto, ed è riuscito a far scendere i rendimenti
dei titoli italiani e spagnoli, permettendo naturalmente ai relativi governi di
mantenere alti livelli di debito senza timore di default.
Ancora oggi si
vede l’effetto pratico di questo meccanismo: la crescita italiana, come abbiamo
letto, è ferma ad un misero 0,4% (scenderà ancora) e quindi apre uno
sbilanciamento rispetto allo 0,8% programmato. Dato che il rapporto deficit/Pil
è un parametro da rispettare (il famoso 3%), se il Pil cresce meno il deficit
deve scendere. Il Ministro Padoan stima una necessità di riduzione di spesa, o
di nuove tasse, per 4 Mld per l’autunno. Ma spera di evitarla per l’effetto
positivo della riduzione dei tassi (non solo determinata, per la verità, dalla
BCE) che consentirà di risparmiare dai ca. 90 Mld all’anno di spesa per
interessi una simile somma.
Dunque si crea
esattamente l’effetto indicato dalla Coppola: la riduzione dei tassi di
remunerazione dei prestiti assunti dallo Stato determina una liberazione di
risorse che può essere utilizzata per non ridurre la spesa.
Mi fermo un attimo
sull’esempio: che sta succedendo in effetti? Che il cumulo totale dei beni e
servizi prodotti in Italia (e venduti sia in Italia sia all’estero) non sta
crescendo abbastanza, la spesa complessiva dello Stato è di poco superiore alle
entrate (circa di una cinquantina di miliardi), e questo deficit è vicino o
superiore ad essere il 3% del PIL Italiano. Se si abbassano i tassi si riduce
la spesa per interessi e questo significa che ca. 3 Mld di euro, provenienti
dalle tasse, non vengono più dagli italiani pagati ai detentori del nostro
debito, restando disponibili ad altri usi. Tra questi la riduzione del debito,
gli investimenti, la spesa corrente, la riduzione delle tasse. Quale scegliere
è una decisione politica con forti implicazioni distributive.
Il punto,
sollevato dagli autori e dalla Coppola è che la BCE ha deciso questa azione allo scopo di salvare
l’Euro (e dunque se stessa), ma nel farlo (anzi, per farlo) ha indubbiamente aiutato i governi di quei paesi. In
effetti in questo senso il QE è una forma di finanziamento monetario dei
disavanzi pubblici anche se gli acquisti sono fatti da investitori e banche,
non direttamente dai governi. Sostanzialmente equivale ad una linea di
credito della Banca Centrale illimitata che viola il divieto di mettere a
disposizione scoperti di conto corrente e linee di credito ai governi.
Questa
considerazione solleva un ulteriore interessante problema: la Coppola ci ricorda che c'è
stato un grande dibattito su come esattamente QE “reflaziona” l'economia. Una
ipotesi è che il QE influenzi l'economia attraverso “effetti di portafoglio”
(sostituisce però una risorsa sicura con un altra e dunque non ha alcun effetto
sulla domanda aggregata); la seconda è che agisca tramite la soppressione del
premio a termine (che è molto basso comunque); la terza, tramite l’aumento
della liquidità sui mercati finanziari (una ipotesi dubbia, perché il QE
contribuisce contemporaneamente alla scarsità di garanzie); oppure attraverso
l’aumento dei prestiti bancari (ma i prestiti bancari sono rimasti stagnanti o
in diminuzione); ancora, tramite l'aumento degli investimenti delle imprese (ma
gli acquisti di azioni, a causa dei bassi costi di finanziamento, non sono gli
investimenti).
Sembra esserci
un punto di relativa convergenza nel dibattito sull’ipotesi che il QE supporti
i prezzi degli asset in crisi, ma la sua efficacia come stimolo economico a
lungo termine è invece discutibile.
Nel testo di Johnston
& Pugh è avanzata allora l’ipotesi di lavoro che sia stata fondamentalmente
giudicata male la natura del QE. Questo ha piccoli effetti monetari, ma in
realtà è essenzialmente uno strumento
fiscale; utilizza cioè la capacità della Banca Centrale per cercare di
controllare i prezzi di mercato allo scopo di consentire ai governi di prendere
ancora in prestito e spendere senza subire il danno della perdita di fiducia. Neutralizza, in altre parole, la “sovranità
dell’investitore”.
Se questo è
l’effetto principale (ed è del resto evidente), ne consegue una cosa di
primaria importanza: il QE funziona solo quando la politica di bilancio è
espansiva. Se, al contrario, come in Europa e in diversi altri paesi essa
è restrittiva non serve.
Se si riguarda
la storia in questo modo molte cose vanno a posto: il Giappone ha di gran lunga
il più alto rapporto debito / pil al mondo, ma ha costi di finanziamento molto
bassi. In parte la cosa si spiega per il fatto che i giapponesi sono
risparmiatori diligenti, e investono gran parte dei loro risparmi nel debito
pubblico, oppure con il fatto che gli investitori sono abitudinari e tendono a
ritirarsi in tradizionali “paradisi sicuri” come lo yen giapponese e JGBs
quando le cose si fanno difficili. Ma c’è un’altra spiegazione: il
Giappone ha fatto QE molto più a lungo di qualsiasi altro paese. La volontà
storica della Banca Centrale di intervenire nel mercato ogni volta che è
necessario per controllare il prezzo del debito giapponese è il motivo per cui
il rendimento JGB rimane così basso, nonostante il livello molto elevato del rapporto
debito / PIL e la scarsa crescita economica.
C’è un problema:
il QE, secondo la Coppola ,
nei suoi effetti puramente monetari è anche “altamente regressivo”, in quanto
l’espansione fiscale condotta in questo modo induce il denaro ad andare dalla
parte sbagliata. In altre parole i maggiori beneficiari dei programmi di QE
sono i ricchi; il valore delle attività quando le Banche Centrali intervengono
in questo modo cresce in modo troppo sostenuto a causa di “effetti di
sostituzione” e si creano delle “bolle” speculative
Anche per questa
ragione, se il governo utilizza la soppressione da parte della Banca Centrale dei
rendimenti obbligazionari come un'opportunità per bloccare su tassi debitori su
livelli bassi per il futuro, e con ciò finanziare un programma di espansione
fiscale, ottiene un risultato sia efficace sia più equo. Se non riescono a
farlo il QE può solo intervenire sull'economia attraverso canali monetari che
sono sia moralmente discutibili sia di dubbia efficacia.
In altre parole, quando i governi usano il
QE come copertura per continuare con “un’austerità fiscale sconsiderata”, in
realtà trasferiscono solo la ricchezza dai poveri ai ricchi, quando lo
utilizzano per favorire un’espansione fiscale possono ottenere l’effetto
contrario. Gli effetti monetari deboli del QE potrebbero compensare questo
effetto in una certa misura, ma l'idea che il QE può completamente annullare
gli effetti nocivi di un contemporaneo inasprimento fiscale in tempi di crisi
economica non è supportata da prove secondo la Coppola. La conclusione
di Johnston & Pugh è che questa politica viola sicuramente l’art. 123 del
TFUE e che questa cosa può essere tenuta sotto controllo solo fino a che non se
ne parla. “Significa anche che
probabilmente, la politica monetaria è al di fuori dello stato di diritto”.
E’ una cosa
interessante, il QE e l’OMT sono effettivamente illegali ai sensi dei Trattati
europei, ma per ragioni politiche nessuno potrà mai ammetterlo. Questa è
la ragione di fondo per la quale nel dibattito, ostinatamente, si porta avanti
una rigida separazione del tutto artificiale della politica monetaria da quella
fiscale; producendo delle giustificazioni solo monetarie per il QE, insistendo
dogmaticamente con la pretesa che le Banche Centrali siano indipendenti, e con
quella che la Coppola chiama la “farsa della disciplina fiscale”.
Ma le cose sono invece
semplici e forti: la Banca Centrale
deve necessariamente “monetizzare il debito, perché l'alternativa è il default
del debito sovrano e il crollo della moneta”; in altre parole se la BCE non agisce e perde
credibilità e distrugge la moneta Euro (“è spazzatura”). Allora è in corsa,
a causa dei vincoli legali, “un’elaborata sciarada” il cui unico obiettivo è
preservare la credibilità della BCE e quindi dell’Euro.
Infatti quando
le Banche Centrali monetizzano il debito pubblico è l'elettorato, non il
mercato, che controlla la propensione dell'autorità fiscale a prendere in
prestito e spendere. Sia chiaro, non è una partita senza rischi: la
deformazione di questo meccanismo si presenta quando un governo eletto a fini
di tornaconto elettorale, acquisto di consenso, populismo e demagogia, utilizza
palesemente ed in modo evidente la monetizzazione del debito creata dalla Banca
Centrale come una scusa per tenere alto senza danno indebitamento e spesa; in
questo caso alla fine è la credibilità della Banca Centrale che viene distrutta.
Questa è la
forte ragione (aiutata da una lettura storica molto selettiva) per la quale si pretende
che il QE non finanzi il governo e i politici, e si cerca di convincere gli
elettori che la limitazione della capacità del governo di prendere in prestito
e spendere è nel loro interesse. A questo fine viene normalmente invocato
“il mostro dell'inflazione” per terrorizzare gli elettori ed indurli a votare
per politici favorevoli all’austerità; se questo non è sufficiente, allora si
chiamano in aiuto “i bond vigilantes” e gli spauracchi del debito
pubblico.
Si tratta di una
strategia terroristica che a tutta evidenza funziona: non solo sono gli
elettori di tutta Europa sono evidentemente convinti che l'austerità fiscale è
necessaria, anche quando sta danneggiando in modo chiaro le loro economie, sono
stati anche convinti che i governi eletti non sono idonei a gestire le finanze
pubbliche in modo responsabile e devono essere trattenuti e legati da non
eletti, burocrati irresponsabili con i loro programmi politici. Sono stati convinti a cedere la sovranità ai
mercati.
In questo modo è
però come se per evitare il rischio che un capitano avventurista porti la nave
sugli scogli, si decidesse di togliere elica e timone.
Ma la monetizzazione
del debito non dovrebbe essere neppure un esercizio di guida nascosta. Nel
loro paragrafo conclusivo, Johnston & Pugh chiedono un dibattito aperto sulla
monetizzazione a titolo definitivo per porre fine alla disastrosa spirale della
“austerità/deflazione del debito/debito più alto/più austerità”:
Abbiamo seri dubbi circa l'efficacia di QE
come un mezzo per reflazionare l'economia a seguito di una deflazione del
debito ...... L’aumento della spesa fiscale da parte dei governi avrebbe più
probabilità di essere efficace, ma la situazione è attualmente governata da una
convinzione che i governi devono perseguire l'austerità in modo che i loro
paesi possano sfuggire alla crisi. Siamo d'accordo con Adair Turner che è
giunto il tempo per una discussione significativa sul fatto che la finanza
monetaria offre un modo migliore per uscire dall'attuale malessere economico e,
in caso affermativo, bisognerebbe discutere su quale forma dovrebbe prendere.
Si
oppone a questa tesi l’artificiale timore di una iperinflazione in stile Weimar:
ma l'iperinflazione è sempre e ovunque una conseguenza di caos politico e della
perdita di fiducia. A condizione che la credibilità della Banca Centrale
si conservi la monetizzazione a titolo definitivo di eccessivi oneri del debito
pubblico avuti in eredità non deve significare iperinflazione. Secondo la
Coppola bisogna fare una distinzione: mentre a lungo termine una certa
disciplina fiscale e alcune riforme strutturali per migliorare efficacia e
produttività sono utili per evitare la tendenza del debito ad espandersi, una
monetizzazione una tantum degli oneri del debito della periferia dell'Eurozona
sarebbe fare molto per aiutare l'Europa dalla sua crisi apparentemente senza
fine.
Provando
ad andare oltre il testo della Coppola, questa monetizzazione, finalizzata a
garantire investimenti strutturali ad alto ritorno (in grado di migliorare
competitività, efficienza ed efficacia della struttura economica e sociale)
sono, ad esempio:
- I necessari ed urgenti interventi di messa in sicurezza
del territorio; penso alla sicurezza idrogeologica, alla gestione forestale e
naturalistica, al sistema dei parchi, alle bonifiche;
- L’assoluta necessità di investire in modo determinato
nella trasformazione energetica, e nella transizione da una economia fossile,
ad alto impatto ambientale e dipendenza, ad un’economia rinnovabile a basso
impatto ed alta indipendenza; garantire la transizione verso una economia
energetica diffusa, scalare, fortemente resiliente, diffusa verso il basso,
mobilitante.
- Strettamente
connesso al precedente è il grande tema dell’efficienza nell’uso delle
risorse; questa è la vera, unica, competitività che conta.
- Quarto settore strategico è la formazione e ricerca che
costituisce, nell’economia contemporanea un asse indispensabile e sul quale gli
investimenti andrebbero concentrati.
Tutte
queste azioni aumentano enormemente le potenzialità di crescita future,
impiegano in modo altamente produttivo le risorse inutilizzate e aumentano
sostenibilità ambientale e qualità della vita.
Viceversa
le spese rivolte a creare sacche di privilegio e orientate alla pura gestione,
spesso condotta con modalità clientelari e finalità di cattura di consenso,
andrebbero contenute entro termini sempre più stringenti. Ma a questo scopo
negli ultimi duemila anni è stata faticosamente messa a punto, con innumerevoli
scontri e sofferenze, una specifica tecnologia fondata sull’uso pubblico della
ragione ed il principio democratico. Volerla
sostituire con l’uso del potere muto del denaro e le decisioni egoistiche
individuali, cioè sul principio del
mercato, è letteralmente eversivo.
Si
tratta di una eversione alla quale siamo, ormai, tanto abituati da non vederla
neppure più.
Lo
stratagemma di Adam Smith, nelle condizioni della sua epoca, era diretto contro
il dispotismo delle aristocrazie ereditarie; oggi dove è il dispotismo?
Anche
se distinguere tra “spesa buona” e “cattiva” non è assolutamente semplice, ed
in qualche grado ogni spesa condivide alcune conseguenze di base (la prima è
che determina una distribuzione di risorse e un, più o meno pronunciato,
effetto di disseminazione e crescita; la seconda è che aumenta il potere dei
centri di spesa e con questi della politica che è in grado di controllarli), questo è un crinale essenziale: la
mancanza assoluta di fiducia nella democrazia, è un’altra faccia dello sforzo
di escludere i cittadini dal potere, concentrandolo di fatto nei titolari di
risorse economiche.
Ciò
che è in campo è quindi la scelta tra il principio <una testa un voto> e
quello opposto ed irriducibile <un euro un voto>.
Anche
attraverso la scelta dell’uso da fare dell’eventuale “monetizzazione” passa
questa linea di conflitto. Bisogna scegliere.




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