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sabato 26 luglio 2014

France Coppola, “Il Quantitative Easing e la politica fiscale”, quale la scelta? Austerità e conseguenze.

Infuria da molti anni il dibattito sulla spesa pubblica, che sarebbe da ridurre “senza se e senza ma”, e sull’austerità, che è presentata come saggia, prudente e senza alternative. Quando si va un poco più in profondità però si rivela che l’austerità serve uno scopo, che vorrei chiamare “politico”, ma potrebbe anche essere qualificato come morale, disciplinare gli organismi eletti ed i cittadini con essi. Costringerli, cioè, a non chiedere più servizi, più protezione, un ambiente più salubre, maggiore salute, un sostegno di fronte ai rischi della vita, etc.. rendendosi conto che le risorse disponibili non bastano. Cioè che tutte queste cose sono belle, ci dicono, ma non ce le possiamo permettere, perché i mercati sono pronti a punire chi avesse il cuore tenero. In un mondo che non è complessivamente mai stato così ricco, in cui la capacità produttiva non è mai stata così sovrabbondante, in cui il potere della tecnologia non è mai stato così determinante, non ci sono risorse per garantire una vita dignitosa ad almeno un terzo della popolazione. Questo risultato non si può più ottenere attraverso l’azione collettiva intenzionale, attraverso l’azione della politica democratica.
Resta allora la strada della deflazione competitiva; resta la speranza che qualche altra parte del mondo sia più generosa e non si protegga dalle nostre aziende. Resta la speranza di poter sottrarre lo sviluppo, che non creiamo, in casa degli altri. Utilizzare la loro “domanda interna” (cioè la capacità di spesa e gli acquisti di beni e di servizi dei loro cittadini) per vendergli prodotti e servizi che i nostri cittadini non hanno capacità di assorbire.

Aprendo un piccolo inciso su questa logica “esteroflessa”, praticata da decenni dalla Germania e da essa proposta a tutta l’Europa, farei notare che avere strutturalmente e permanentemente un surplus delle partite economiche con l’estero di 280 miliardi di Euro, significa in sostanza che i cittadini tedeschi tutti consumano (includendo gli investimenti in patria) meno di quel che il paese produce. Una parte della produzione resta non impiegata o investita in Germania e va a tradursi in capitali finanziari in cerca di impieghi all’estero. Il sistema genera un surplus, essenzialmente profitti di attività industriali o finanziarie, che non contribuisce al benessere della nazione, ma resta accantonato nelle capienti cassaforti della finanza internazionale.
Ciò che si chiede a tutti è di avere strutturalmente un sistema in cui si consuma meno di quel che si produce, si estraggono profitti dalla produzione (cioè dal capitale e dal lavoro impiegato, i cosiddetti “fattori produttivi”) e questi non si reinvestono, né collettivamente né individualmente, per spostarli sul sistema finanziario a-territoriale e fiscalmente irresponsabile. Sistema che va ovviamente tenuto liquido e libero di muoversi come un carico nella carena di una nave.
Questa logica irresponsabile, che porterà per certo al ribaltamento della nave al primo incidente esterno, è disegnata a specifica misura e vantaggio dei titolari del capitale “mobile”, che è preordinato a massimizzare.

Restando dentro questo sistema logico non ci sono più molte alternative, in effetti: bisogna produrre di più a minor prezzo, e certo non si può ottenere abbassando il saggio di profitto (altrimenti “i mercati” reagirebbero non comprando i titoli), dunque resta solo la strada di aumentare l’efficienza a parità di input, e la via più semplice è di abbassare i salari e per questo aumentare la disoccupazione. In questo modo la sofferenza sociale, e l’elevato numero di disoccupati, produrrà una pressione al ribasso dei prezzi e questa rafforzerà la competitività di prezzo. Le merci a minore prezzo della concorrenza potranno essere vendute all’estero (dato che i cittadini interni, i cui salari sono stati annullati o ridotti non sono in grado di acquistarle), i profitti saranno accumulati e spostati all’estero (o in prodotti finanziari sconnessi del tutto dall’economia reale, e dunque letteralmente in nessun luogo). Non saranno reinvestiti nell’economia del paese, altrimenti questo farebbe risalire i salari ed i prezzi, vanificando il vantaggio competitivo.
Questo schema è, in altre parole, strutturalmente deflattivo dal punto di vista del sistema economico locale, strutturalmente espansivo dal punto di vista dell’accumulazione finanziaria.

Un piano chiaro, che ha un problema: non funziona e non ce lo possiamo permettere. Per chi vive nella nave con il carico mobile, e non dispone di una scialuppa di salvataggio di prima classe, questo sistema è una promessa di naufragio e di morte.

Anche la imminente decisione sull’azione di espansione finanziaria, che la BCE è invitata da più parti a compiere per l’autunno, entra in pieno in questo quadro. Perché la stessa cosa si può fare per scopi molto diversi. Soccorre allora nell’inquadrare in modo diverso questi temi un interessante articolo sul blog di France Coppola circa le relazioni tra “l’espansione quantitativa” (QE) e la politica fiscale degli Stati. L’articolo parte da un paper  di Johnston e Pugh del Dipartimento Giuridico dell'Università di Sheffield nel quale è discussa la legittimità e l'efficacia del QE e dei suoi parenti, tra cui l’OMT della BCE, cui fu legato il famoso “faremo qualsiasi cosa” di Draghi (che fermò la fase più acuta della crisi). Il documento fa soprattutto riferimento alla sentenza della Corte costituzionale tedesca che dichiarò l’OMT equivalente al finanziamento monetario dei deficit pubblici e pertanto illegittimo.  Come ricordiamo la Corte Tedesca rinviò la parte esecutiva della sua decisione alla Corte di Giustizia Europea, che deve ancora fornire il suo giudizio in questa materia – e si prevede dissentirà –; il punto è che abbastanza evidentemente a causa di questa sentenza (cioè per non sfidare frontalmente le autorità tedesche e mettere in grave imbarazzo lo stesso Governo), come dice la Coppola, la BCE sta facendo del suo meglio per evitare di emettere QE a titolo definitivo, “molto probabilmente a causa di dubbi sulla sua legittimità”. 
In effetti, anche se la BCE ha formalmente dichiarato che a suo parere il QE è legale, non è affatto chiaro se sia vero. Così l'Università di Sheffield ha provato a verificare la legalità sia dell’OMT e sia del QE rispetto al Trattato di Lisbona, risultando alla fine concorde con la Corte costituzionale tedesca; l’OMT effettivamente equivale al finanziamento monetario dei governi e lo stesso vale per il QE. Entrambi sono quindi tecnicamente illegali ai sensi dell'articolo 123 del Trattato di Lisbona che recita così (all'articolo 123 del Trattato di Lisbona): 
1. Gli scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia da parte della Banca Centrale Europea o da parte delle Banche Centrali degli Stati membri, a favore di istituzioni, organi o organismi dell'Unione, delle amministrazioni statali, regionali, enti pubblici locali o di altri, di altri organismi di diritto pubblico o di imprese pubbliche degli Stati membri sono vietate, così come l'acquisto diretto presso di essi da parte della Banca Centrale Europea o delle Banche Centrali Nazionali di titoli di debito. 
2. Il paragrafo 1 non si applica agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell'offerta di riserve da parte delle Banche Centrali, devono ricevere lo stesso trattamento dalle Banche Centrali Nazionali e dalla Banca Centrale Europea degli enti creditizi privati. 


E’ il caso di notare che il Regno Unito (data la sua migliore gestione della trattiva di entrata nel sistema di Maastricht) si giova di una restrizione specifica sull'applicabilità del paragrafo 1 grazie alla quale può continuare a utilizzare il Tesoro nei “modi e mezzi” esistenti, concedendo anche eventualmente lo scoperto presso la Banca d'Inghilterra: 
10. In deroga all'articolo 123 del trattato sul funzionamento dell'Unione Europea e l'articolo 21.1 dello statuto, il governo del Regno Unito può mantenere la «Ways and Means» presso la Banca d'Inghilterra se e fintantoché il Regno Unito non adottare l'euro.
Ma secondo la visione di Johnston & Pugh questo peraltro non esclude il Regno Unito dal divieto generale del finanziamento monetario dei disavanzi di bilancio di cui all'articolo 123. Le “vie e mezzi” sullo scoperto è stata del resto usata l'ultima volta nel 2008, al culmine della crisi finanziaria e poi mai più. La questione è quindi se anche la Banca d'Inghilterra con il suo forte programma QE (gli altri due sono stati quelli della FED e quello della BOJ) ha violato il divieto di finanziamento monetario al quale il Regno Unito è soggetto firmatario del Trattato di Lisbona. I ricercatori di Sheffield pensano che sia così. 
Le ragioni non sono semplici: gli acquisti da parte delle Banche Centrali del debito diretto del proprio governo nel mercato dei capitali non sono direttamente vietati ai sensi del Trattato di Lisbona. In effetti non possono esserlo, perché sarebbe come vietare il principale meccanismo che le Banche Centrali dell'UE hanno storicamente utilizzato per controllare l'inflazione, vale a dire operazioni di mercato aperto (vendite e acquisti di debito pubblico) per mantenere i tassi di interesse a un livello target. Questo meccanismo è attualmente in sospeso, a causa della presenza di riserve in eccesso nel sistema bancario, ma questo non significa che non potrà mai essere riutilizzato in futuro. Ma il QE coinvolge anche gli acquisti di debito pubblico sul mercato secondario, è facile quindi vederlo come operazioni di mercato aperto semplicemente su una scala molto più grande. 

Ma la cosa importante è che la ricerca citata dalla Coppola individua un fraintendimento della natura e lo scopo del QE; quando il debito pubblico è acquistato in un programma di QE, lo scopo diretto è controllare il prezzo di mercato di quel debito. Tramite il programma la Banca Centrale definisce il prezzo del debito pubblico. Questo vale in entrambi i programmi QE limitati, come la Banca d'Inghilterra, e senza limiti, come quelli negli Stati Uniti, Giappone e Svizzera. 
Se ciò non avviene, e i governi sono costretti a finanziarsi sui mercati dei capitali piuttosto che ottenere un finanziamento dalla Banca Centrale, la cosa comporta una stringente “disciplina fiscale”. Infatti se i governi aumentano la spesa i mercati dei capitali spingono verso l'alto il costo del denaro, costringendoli di fatto o a tagliare le spese o ad aumentare le tasse. Un meccanismo semplice ed esplicitamente ricercato tramite il famoso “divorzio” tra Banche Centrali e Politica (cioè tramite la ricerca dell’indipendenza tra Banche Centrali e democrazia).

Ma se la Banca Centrale fissa invece il prezzo limite del debito pubblico, dichiarandosi pronta ad acquistarne in quantità illimitata, in conseguenza non vi è alcuna disciplina esterna sul governo. La disciplina può venire allora solo per vie interne (cioè tramite la democrazia, quindi le elezioni). Questa è quella che chiamerei “sindrome del mercato dittatore” che egemonizza le scienze economiche. Infatti la cosa è descritta normalmente come libertà da parte del Governo di “emettere tanto debito quanto si vuole con la certezza che ci sarà sempre un acquirente”. In questo contesto la parola “libertà” (come tutte polisemica) assume la connotazione di arbitrio o libertinaggio. Cioè neutralizzazione di quello “sciopero del compratore” che è visto positivamente dal pensiero liberista come forma di controllo dell’arbitrio; il compratore è l’unico sovrano riconoscibile nell’assetto economico contemporaneo. Questo sovrano (nella forma meno impersonale delle banche creditrici) ha –ad esempio- causato l’esplosione del prezzo del debito e i rendimenti a picco in Grecia. L’effetto annuncio della BCE, pur senza farlo ha surrogato questo effetto, ed è riuscito a far scendere i rendimenti dei titoli italiani e spagnoli, permettendo naturalmente ai relativi governi di mantenere alti livelli di debito senza timore di default. 

Ancora oggi si vede l’effetto pratico di questo meccanismo: la crescita italiana, come abbiamo letto, è ferma ad un misero 0,4% (scenderà ancora) e quindi apre uno sbilanciamento rispetto allo 0,8% programmato. Dato che il rapporto deficit/Pil è un parametro da rispettare (il famoso 3%), se il Pil cresce meno il deficit deve scendere. Il Ministro Padoan stima una necessità di riduzione di spesa, o di nuove tasse, per 4 Mld per l’autunno. Ma spera di evitarla per l’effetto positivo della riduzione dei tassi (non solo determinata, per la verità, dalla BCE) che consentirà di risparmiare dai ca. 90 Mld all’anno di spesa per interessi una simile somma.
Dunque si crea esattamente l’effetto indicato dalla Coppola: la riduzione dei tassi di remunerazione dei prestiti assunti dallo Stato determina una liberazione di risorse che può essere utilizzata per non ridurre la spesa.

Mi fermo un attimo sull’esempio: che sta succedendo in effetti? Che il cumulo totale dei beni e servizi prodotti in Italia (e venduti sia in Italia sia all’estero) non sta crescendo abbastanza, la spesa complessiva dello Stato è di poco superiore alle entrate (circa di una cinquantina di miliardi), e questo deficit è vicino o superiore ad essere il 3% del PIL Italiano. Se si abbassano i tassi si riduce la spesa per interessi e questo significa che ca. 3 Mld di euro, provenienti dalle tasse, non vengono più dagli italiani pagati ai detentori del nostro debito, restando disponibili ad altri usi. Tra questi la riduzione del debito, gli investimenti, la spesa corrente, la riduzione delle tasse. Quale scegliere è una decisione politica con forti implicazioni distributive.

Il punto, sollevato dagli autori e dalla Coppola è che la BCE ha deciso questa azione allo scopo di salvare l’Euro (e dunque se stessa), ma nel farlo (anzi, per farlo) ha indubbiamente aiutato i governi di quei paesi. In effetti in questo senso il QE è una forma di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici anche se gli acquisti sono fatti da investitori e banche, non direttamente dai governi. Sostanzialmente equivale ad una linea di credito della Banca Centrale illimitata che viola il divieto di mettere a disposizione scoperti di conto corrente e linee di credito ai governi. 
Questa considerazione solleva un ulteriore interessante problema: la Coppola ci ricorda che c'è stato un grande dibattito su come esattamente QE “reflaziona” l'economia. Una ipotesi è che il QE influenzi l'economia attraverso “effetti di portafoglio” (sostituisce però una risorsa sicura con un altra e dunque non ha alcun effetto sulla domanda aggregata); la seconda è che agisca tramite la soppressione del premio a termine (che è molto basso comunque); la terza, tramite l’aumento della liquidità sui mercati finanziari (una ipotesi dubbia, perché il QE contribuisce contemporaneamente alla scarsità di garanzie); oppure attraverso l’aumento dei prestiti bancari (ma i prestiti bancari sono rimasti stagnanti o in diminuzione); ancora, tramite l'aumento degli investimenti delle imprese (ma gli acquisti di azioni, a causa dei bassi costi di finanziamento, non sono gli investimenti). 
Sembra esserci un punto di relativa convergenza nel dibattito sull’ipotesi che il QE supporti i prezzi degli asset in crisi, ma la sua efficacia come stimolo economico a lungo termine è invece discutibile. 
Nel testo di Johnston & Pugh è avanzata allora l’ipotesi di lavoro che sia stata fondamentalmente giudicata male la natura del QE. Questo ha piccoli effetti monetari, ma in realtà è essenzialmente uno strumento fiscale; utilizza cioè la capacità della Banca Centrale per cercare di controllare i prezzi di mercato allo scopo di consentire ai governi di prendere ancora in prestito e spendere senza subire il danno della perdita di fiducia. Neutralizza, in altre parole, la “sovranità dell’investitore”.

Se questo è l’effetto principale (ed è del resto evidente), ne consegue una cosa di primaria importanza: il QE funziona solo quando la politica di bilancio è espansiva. Se, al contrario, come in Europa e in diversi altri paesi essa è restrittiva non serve

Se si riguarda la storia in questo modo molte cose vanno a posto: il Giappone ha di gran lunga il più alto rapporto debito / pil al mondo, ma ha costi di finanziamento molto bassi. In parte la cosa si spiega per il fatto che i giapponesi sono risparmiatori diligenti, e investono gran parte dei loro risparmi nel debito pubblico, oppure con il fatto che gli investitori sono abitudinari e tendono a ritirarsi in tradizionali “paradisi sicuri” come lo yen giapponese e JGBs quando le cose si fanno difficili. Ma c’è un’altra spiegazione: il Giappone ha fatto QE molto più a lungo di qualsiasi altro paese. La volontà storica della Banca Centrale di intervenire nel mercato ogni volta che è necessario per controllare il prezzo del debito giapponese è il motivo per cui il rendimento JGB rimane così basso, nonostante il livello molto elevato del rapporto debito / PIL e la scarsa crescita economica. 
C’è un problema: il QE, secondo la Coppola, nei suoi effetti puramente monetari è anche “altamente regressivo”, in quanto l’espansione fiscale condotta in questo modo induce il denaro ad andare dalla parte sbagliata. In altre parole i maggiori beneficiari dei programmi di QE sono i ricchi; il valore delle attività quando le Banche Centrali intervengono in questo modo cresce in modo troppo sostenuto a causa di “effetti di sostituzione” e si creano delle “bolle” speculative
Anche per questa ragione, se il governo utilizza la soppressione da parte della Banca Centrale dei rendimenti obbligazionari come un'opportunità per bloccare su tassi debitori su livelli bassi per il futuro, e con ciò finanziare un programma di espansione fiscale, ottiene un risultato sia efficace sia più equo. Se non riescono a farlo il QE può solo intervenire sull'economia attraverso canali monetari che sono sia moralmente discutibili sia di dubbia efficacia. 
In altre parole, quando i governi usano il QE come copertura per continuare con “un’austerità fiscale sconsiderata”, in realtà trasferiscono solo la ricchezza dai poveri ai ricchi, quando lo utilizzano per favorire un’espansione fiscale possono ottenere l’effetto contrario. Gli effetti monetari deboli del QE potrebbero compensare questo effetto in una certa misura, ma l'idea che il QE può completamente annullare gli effetti nocivi di un contemporaneo inasprimento fiscale in tempi di crisi economica non è supportata da prove secondo la Coppola. La conclusione di Johnston & Pugh è che questa politica viola sicuramente l’art. 123 del TFUE e che questa cosa può essere tenuta sotto controllo solo fino a che non se ne parla. “Significa anche che probabilmente, la politica monetaria è al di fuori dello stato di diritto”.
E’ una cosa interessante, il QE e l’OMT sono effettivamente illegali ai sensi dei Trattati europei, ma per ragioni politiche nessuno potrà mai ammetterlo. Questa è la ragione di fondo per la quale nel dibattito, ostinatamente, si porta avanti una rigida separazione del tutto artificiale della politica monetaria da quella fiscale; producendo delle giustificazioni solo monetarie per il QE, insistendo dogmaticamente con la pretesa che le Banche Centrali siano indipendenti, e con quella che la Coppola chiama la “farsa della disciplina fiscale”. 

Ma le cose sono invece semplici e forti: la Banca Centrale deve necessariamente “monetizzare il debito, perché l'alternativa è il default del debito sovrano e il crollo della moneta”; in altre parole se la BCE non agisce e perde credibilità e distrugge la moneta Euro (“è spazzatura”). Allora è in corsa, a causa dei vincoli legali, “un’elaborata sciarada” il cui unico obiettivo è preservare la credibilità della BCE e quindi dell’Euro. 
Infatti quando le Banche Centrali monetizzano il debito pubblico è l'elettorato, non il mercato, che controlla la propensione dell'autorità fiscale a prendere in prestito e spendere. Sia chiaro, non è una partita senza rischi: la deformazione di questo meccanismo si presenta quando un governo eletto a fini di tornaconto elettorale, acquisto di consenso, populismo e demagogia, utilizza palesemente ed in modo evidente la monetizzazione del debito creata dalla Banca Centrale come una scusa per tenere alto senza danno indebitamento e spesa; in questo caso alla fine è la credibilità della Banca Centrale che viene distrutta. 
Questa è la forte ragione (aiutata da una lettura storica molto selettiva) per la quale si pretende che il QE non finanzi il governo e i politici, e si cerca di convincere gli elettori che la limitazione della capacità del governo di prendere in prestito e spendere è nel loro interesse. A questo fine viene normalmente invocato “il mostro dell'inflazione” per terrorizzare gli elettori ed indurli a votare per politici favorevoli all’austerità; se questo non è sufficiente, allora si chiamano in aiuto “i bond vigilantes” e gli spauracchi del debito pubblico. 
Si tratta di una strategia terroristica che a tutta evidenza funziona: non solo sono gli elettori di tutta Europa sono evidentemente convinti che l'austerità fiscale è necessaria, anche quando sta danneggiando in modo chiaro le loro economie, sono stati anche convinti che i governi eletti non sono idonei a gestire le finanze pubbliche in modo responsabile e devono essere trattenuti e legati da non eletti, burocrati irresponsabili con i loro programmi politici. Sono stati convinti a cedere la sovranità ai mercati. 
In questo modo è però come se per evitare il rischio che un capitano avventurista porti la nave sugli scogli, si decidesse di togliere elica e timone.

La Coppola denuncia questo come una “spaventosa erosione della democrazia”. 

Ma la monetizzazione del debito non dovrebbe essere neppure un esercizio di guida nascosta. Nel loro paragrafo conclusivo, Johnston & Pugh chiedono un dibattito aperto sulla monetizzazione a titolo definitivo per porre fine alla disastrosa spirale della “austerità/deflazione del debito/debito più alto/più austerità”:
Abbiamo seri dubbi circa l'efficacia di QE come un mezzo per reflazionare l'economia a seguito di una deflazione del debito ...... L’aumento della spesa fiscale da parte dei governi avrebbe più probabilità di essere efficace, ma la situazione è attualmente governata da una convinzione che i governi devono perseguire l'austerità in modo che i loro paesi possano sfuggire alla crisi. Siamo d'accordo con Adair Turner che è giunto il tempo per una discussione significativa sul fatto che la finanza monetaria offre un modo migliore per uscire dall'attuale malessere economico e, in caso affermativo, bisognerebbe discutere su quale forma dovrebbe prendere.

Si oppone a questa tesi l’artificiale timore di una iperinflazione in stile Weimar: ma l'iperinflazione è sempre e ovunque una conseguenza di caos politico e della perdita di fiducia. A condizione che la credibilità della Banca Centrale si conservi la monetizzazione a titolo definitivo di eccessivi oneri del debito pubblico avuti in eredità non deve significare iperinflazione. Secondo la Coppola bisogna fare una distinzione: mentre a lungo termine una certa disciplina fiscale e alcune riforme strutturali per migliorare efficacia e produttività sono utili per evitare la tendenza del debito ad espandersi, una monetizzazione una tantum degli oneri del debito della periferia dell'Eurozona sarebbe fare molto per aiutare l'Europa dalla sua crisi apparentemente senza fine. 

Provando ad andare oltre il testo della Coppola, questa monetizzazione, finalizzata a garantire investimenti strutturali ad alto ritorno (in grado di migliorare competitività, efficienza ed efficacia della struttura economica e sociale) sono, ad esempio:
-     I necessari ed urgenti interventi di messa in sicurezza del territorio; penso alla sicurezza idrogeologica, alla gestione forestale e naturalistica, al sistema dei parchi, alle bonifiche;
-   L’assoluta necessità di investire in modo determinato nella trasformazione energetica, e nella transizione da una economia fossile, ad alto impatto ambientale e dipendenza, ad un’economia rinnovabile a basso impatto ed alta indipendenza; garantire la transizione verso una economia energetica diffusa, scalare, fortemente resiliente, diffusa verso il basso, mobilitante.
-     Strettamente  connesso al precedente è il grande tema dell’efficienza nell’uso delle risorse; questa è la vera, unica, competitività che conta.
-  Quarto settore strategico è la formazione e ricerca che costituisce, nell’economia contemporanea un asse indispensabile e sul quale gli investimenti andrebbero concentrati.

Tutte queste azioni aumentano enormemente le potenzialità di crescita future, impiegano in modo altamente produttivo le risorse inutilizzate e aumentano sostenibilità ambientale e qualità della vita.
Viceversa le spese rivolte a creare sacche di privilegio e orientate alla pura gestione, spesso condotta con modalità clientelari e finalità di cattura di consenso, andrebbero contenute entro termini sempre più stringenti. Ma a questo scopo negli ultimi duemila anni è stata faticosamente messa a punto, con innumerevoli scontri e sofferenze, una specifica tecnologia fondata sull’uso pubblico della ragione ed il principio democratico. Volerla sostituire con l’uso del potere muto del denaro e le decisioni egoistiche individuali, cioè sul principio del mercato, è letteralmente eversivo.
Si tratta di una eversione alla quale siamo, ormai, tanto abituati da non vederla neppure più.
Lo stratagemma di Adam Smith, nelle condizioni della sua epoca, era diretto contro il dispotismo delle aristocrazie ereditarie; oggi dove è il dispotismo?

Anche se distinguere tra “spesa buona” e “cattiva” non è assolutamente semplice, ed in qualche grado ogni spesa condivide alcune conseguenze di base (la prima è che determina una distribuzione di risorse e un, più o meno pronunciato, effetto di disseminazione e crescita; la seconda è che aumenta il potere dei centri di spesa e con questi della politica che è in grado di controllarli), questo è un crinale essenziale: la mancanza assoluta di fiducia nella democrazia, è un’altra faccia dello sforzo di escludere i cittadini dal potere, concentrandolo di fatto nei titolari di risorse economiche.
Ciò che è in campo è quindi la scelta tra il principio <una testa un voto> e quello opposto ed irriducibile <un euro un voto>.


Anche attraverso la scelta dell’uso da fare dell’eventuale “monetizzazione” passa questa linea di conflitto. Bisogna scegliere.

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