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lunedì 28 luglio 2014

La seconda guerra fredda e le sue conseguenze.


Abbastanza silenziosamente qualcosa di potenzialmente storico sta succedendo nel mondo, nel mezzo dell’irrisolta transizione in corso del sistema economico e sociale mondiale che chiamiamo “crisi economica” i debiti che l’occidente ha contratto con il popolo Russo per effetto della gestione errata della crisi degli anni novanta da parte del FMI ritornano a complicare ancora una volta i piani di egemonia occidentale. Questo sconvolgimento strategico muove a partire dalla crisi ucraina, la cui incerta gestione ha ormai portato ad una effettiva guerra civile per procura, condotta da una parte da un esercito regolare, dietro le quinte presumibilmente sostenuto economicamente dall’occidente, e dall’altra da milizie fortemente innervate da quadri di comando e logistica Russa, oltre che da sofisticate armi che attraversano una frontiera ormai virtuale. Una crisi che ha prodotto al momento oltre 1.000 morti.
Una di queste sofisticate armi ha presumibilmente abbattuto l’aereo della Malaysia Airline, mandandolo a far compagnia a decine di aerei ed elicotteri dell’esercito ucraino.

Questo è il punto di svolta della crisi, ormai siamo sull’orlo della decisiva escalation da guerra per procura a scontro diretto, sia pure condotto con le armi non convenzionali dell’economia e della finanza.

Al fine di comprendere meglio di cosa stiamo parlando rileggeremo un recente articolo di Evans-Pritchard, che riporta il punto di vista inglese, e un pezzo sul blog di Branko Milanovic, ma anche qualche post da Rassegna Est e qualche nostro vecchio post sulla nascita della UE.
La situazione “sul campo” (con ciò intendendo quello del confronto militare e quello, altrettanto decisivo, del gioco delle ritorsioni economiche) non potrebbe essere più grave. Chi pensa nella sola dimensione dell’interesse economico a breve termine, e dunque valorizza le indubbie interconnessioni economiche e i reciproci interessi cliente-fornitore, evidenziati nel pezzo di Rassegna Est,  può essere indotto a ritenere che la crisi rientrerà facilmente ma potrebbe sbagliare di grosso.
In questo nodo convergono, infatti, molti fili: da una parte si tratta di un episodio di uno scontro che parte dalla fine della prima guerra fredda, anzi –come acutamente sottolinea Milanovic- precisamente dal modo in cui questa è finita. In questa direzione si incontrano rancori e memorie di dolore e sofferenza da parte Russa e paura da parte Europea (in particolare dell’Est). Aggrava questa dimensione del ricordo e del rancore la gestione ideologica della crisi del 1998 che si potrebbe leggere tramite il Capitolo quinto <Chi ha perso la Russia?> del bel libro di Joseph Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, del 2002.
Il secondo filo è la partita tra USA e Unione Europea, che sovrintese sia alla formazione della stessa UE (nel cruciale biennio 1989-91) sia all’allargamento ad Est che dal punto di vista economico e sociale resterebbe altrimenti incomprensibile nelle sue modalità e dimensione.

Lo sfondo è dunque l’eterna volontà di affermazione e di prevalere, la decisione di chiudere la partita avviata con la dissoluzione dell’impero sovietico. Questa volontà ha segno ovviamente opposto sulle due frontiere.

I materiali con i quali si pratica questo scontro sono la carne ed il sangue delle milizie armate e delle popolazioni civili prese ad ostaggio (incluse quelle nell’aereo), ma anche l’interdipendenza economica (che sarà bene riguardare), quella delle materie prime e quella finanziaria.
La guerra finanziaria è forse quella più importante nelle condizioni attuali: si lega con lo scontro di riaggiustamento in corso negli organi internazionali di governance della globalizzazione, l’ONU, il FMI, la Banca Mondiale, il WTO. Si tratta di pilastri del controllo occidentale del mondo (nella formula entra da tempo il Giappone) per i quali l’alleanza tra Cina, Russia e India è potenzialmente devastante. A me pare che la Russia porti in dote a tale alleanza potenziale (che in ogni meeting internazionale si rinsalda di più) una essenziale “carta”: la potenza militare e nucleare, insieme al diritto di veto che si aggiunge a quello cinese. E si lega al tentativo in corso di sostituire il dollaro come moneta di scambio internazionale; in altre parole, con il tentativo di far finire il dopoguerra.

Quest’orizzonte potrebbe forse spiegare l’improvvisa determinazione americana, sia nella gestione della Piazza Maidan Nezalezhnosti e poi nell’appoggio al cambio di regime Ucraino (vissuto, forse non a torto, dai Russi come un’ingerenza e un episodio di guerra interposta), sia nella successiva reazione alla crisi dell’aereo civile (in mezzo si trova l’efficace reazione Russa nella questione della Crimea). E’ in corso quindi una vera controffensiva occidentale (condotta anche con le armi dell’intelligence e persino con ritorsioni personali su oligarchi russi vicini a Putin) che vedremo probabilmente dispiegarsi nelle prossime settimane.

Andando con più ordine le sanzioni europee (cosiddette “Tier III”), se fossero imposte, completerebbero il cordone sanitario intorno alle istituzioni finanziarie russe, come ricorda Evans-Pritchard si sentono già gli effetti della sola minaccia: i rendimenti delle obbligazioni a 10 anni sono salite al 9,15%, il costo delle assicurazioni contro l’ipotesi di default (CDS) è arrivato a 225, salendo di 17 punti; l’indice azionario è sceso al minimo. L’insieme di queste tre cose mette sotto pressione il sistema bancario russo e, insieme alle sanzioni, potrebbe portare ad una fuga di capitali di proporzione enorme. Malgrado ciò ormai la decisione sembra sostanzialmente presa: Gran Bretagna e Germania, come Olanda, Svezia, Danimarca e Polonia sembrano decise, la stessa Francia non si oppone più e i paesi dell’Est sembrano essersi convinti.
Quale sarà la reazione Russa? Questa è la domanda cruciale, infatti l’attacco colpirà sia il debito russo, sia il patrimonio delle principali banche, sia la capacità di finanziare le cruciali perforazioni dell’Artico per la ricerca dello shale di Bazhenov che è considerato essenziale per sostituire le declinanti riserve di petrolio russe (si parla di 750 miliardi di $ in venti anni). Si tratta, in altre parole, di un colpo mortale. L’economia Russa è molto fragile e fortemente dipendente dalle esportazioni energetiche che sono calanti e fortemente dipendenti dai clienti europei. Quello tra l’Europa e la Russia è, insomma, un legame cliente-venditore particolarmente delicato. Il gas russo è venduto in Europa al prezzo dell’equivalente in petrolio al prezzo di 60 $/bar, non molto redditizio; né una soluzione è la vendita alla Cina (presumibilmente ancora più in basso) anche perché le riserve attuali, stimate in 478 miliardi di $, non lasciano molta speranza. Per comprendere l’entità del problema bisogna confrontarlo con il PIL russo (ca 2.000 miliardi di dollari) e con i debiti in valuta estera di aziende, banche ed enti pubblici (stimati in 721 miliardi di dollari).
Malgrado il rischio cruciale che corre l’economia russa, con singole aziende indebitate per decine di miliardi di dollari, il governo Russo non cede sul punto della crisi ucraina. Evans-Pritchard ricorda che dopo il disastro della Malaysia Airlines ancora altri venti aerei ed elicotteri ucraini sono stati abbattuti, come interi convogli di armi pesanti sono confluite oltre la frontiera.
La battaglia di Donetsk, in queste condizioni, si rivela come uno scontro simbolico che i Russi non possono perdere. Per l’opinione pubblica interna si è di fronte ad un complotto.

Questa lettura viene molto rafforzata dal punto di vista di Milanovic che parla di “seconda guerra fredda” e ne vede le radici nella fine della “prima” guerra fredda, conclusa con la dissoluzione dell’Urss. Cosa ha provocato la caduta del comunismo sovietico? Una prima lettura vede il fallimento del modello sovietico nel consentire la crescita (in calo dagli anni sessanta), favorire l’innovazione tecnologica e la libertà personale ed imprenditoriale.  Sarebbe stato il desiderio di libertà politica e di accesso ai beni di consumo a determinare il crollo di consenso e il disfacimento.
In questa ottica hanno vinto tutti, Reagan e Gorbaciov, i cittadini. Le radici illuministe del socialismo hanno fatto il resto: se il liberalismo multi-partitico è più efficace, perché non adottarlo alla fine?
Il racconto alternativo di Milanovic è più semplice e brutale. Alla fine era uno scontro tra due superpotenze ed una ha vinto. Il resto è abbellimento ideologico.
Il problema è che i due racconti hanno implicazioni diverse: se la Russia ha perso dovrebbe accettare di diventare un “protettorato morbido” (Milanovic dice “come l’Italia”). L’estensione della Nato e la relativa indipendenza in politica estera ne sono conseguenze. Se, invece, ha vinto sul comunismo ed è parimenti libera può rivendicare il suo ruolo non subalterno. Dovrebbe almeno avere libertà di azione nella sua area di influenza, con le sue ex-colonie; almeno entro la Comunità degli Stati Indipendenti.
Chi legge il primo schema, la vittoria e dominazione dell’occidente, troverà assurda la pretesa di continuare ad influenzare l’Ucraina della Russia. Dal punto di vista Russo, però, percepire che l’occidente li vede come permanentemente sconfitti coltiva il risentimento e il risorgere del nazionalismo. Queste sono le forze politiche dominanti che Putin a suo modo interpreta.
Anche il ricordo degli anni di Eltsin, con le politiche draconiane imposte dai Piani di Salvataggio del FMI, la “recessione di transizione”, gli oligarchi e i loro eserciti privati, i redditi dimezzati, i risparmi evaporati in pochissimi anni, la disoccupazione, una depressione più profonda di quella americana degli anni trenta, tre volte più profonda di quella greca di oggi e durata sei anni (1990-96) non aiuta a considerare in modo benigno l’occidente. Se passare alla democrazia ed all’occidente significa perdere il lavoro, metà dei salari, cinque anni di attesa di vita, aumentare alcolismo, criminalità e suicidi, si potrebbe dire che assomiglia abbastanza ad una sconfitta militare.
Anche la disgregazione dell’Urss non si spiega bene nello schema “vittoria della democrazia”, mentre è molto chiaro in quello “sconfitta”.

Prendiamo adesso, per capire meglio cosa è in campo in questo nodo, il punto di vista Europeo, e per capirlo ritorniamo al dibattito sulla ratifica del Trattato di Maastricht nel Parlamento Italiano nel 1992. Il 28 ottobre 1992, nel Parlamento Italiano impegnato nella ratifica del Trattato che istituirà l’Unione Europea, Ugo Intini dirà, a chi gli oppone che il Trattato mette l’Italia in una condizione di eccessiva debolezza nei confronti della Germania, che il quadro geopolitico nel quale si compie la scelta è quello di uno “scontro sotterraneo tra gli Stati Uniti, da tempo in sofferenza per crisi di identità e di ruolo, e attori semiglobali come Germania e Giappone”, in via di “conquistare per via pacifica e commerciale gli obiettivi perseguiti per via militare nella seconda guerra mondiale”. L’obiettivo, secondo Intini, della Germania è di “penetrare economicamente come nel burro nell’ex Unione Sovietica e nel sud-est asiatico”. La cosa si poneva dunque in termini semplici (o tali apparivano all’esponente socialista) la Germania voleva sfondare ad Est, i paesi europei volevano essere associati e per tale via controllare la strapotente nazione centrale e per questo il Trattato, negoziato di corsa doveva essere siglato. La <fortezza europea> doveva rispondere allo sforzo degli Stati Uniti di sfruttare la caduta sovietica del ’89-91 e guadagnare per sé un’assoluta centralità.
Ancora il 29 ottobre, nella giornata conclusiva di quella  determinante seduta, il Ministro degli Esteri, Colombo, testimonierà del clima nel quale si compie la nascita dell’Unione Europea: nel primo biennio dopo i fatti del 1989, dal riconoscimento di Solidarnosc alle rivoluzioni in Polonia, Cecoslovacchia, alla caduta del muro in Germania Est, si sviluppa un negoziato fortemente cooperativo intorno alla unificazione tedesca del 1990 e alla dissoluzione dell’Urss del 1991. Per Colombo nei due anni più importanti degli ultimi cinquanta, la preoccupazione delle segreterie europee era di garantire coesione e stabilità e di candidare l’Unione Europea a diventare attore primario (in affiancamento e parziale sostituzione agli USA) dell’assorbimento dei paesi ex socialisti nell’economia di mercato. In quegli anni l’enormità del compito, e le notevoli tensioni soggiacenti all’impresa, consigliavano di condurla in modo cooperativo con il contributo attivo di tutti. Ma già nella dichiarazione durante il vertice franco-tedesco del 1989 si manifestarono subito tensioni tra una posizione che spingeva verso l’integrazione politica (il Ministro dell’economia francese, in particolare) ed una (la Bundesbank) che spingeva prima sulla convergenza economica. Tuttavia man mano che il pericolo si allontana, procedendo nel 1990 e 91, e l’annessione della Germania dell’Est diventa un fatto compiuto (e, cosa anche più importante, la potenziale minaccia dell’URSS scompare con il fallito golpe), “si è assistito alla ripresa dell’antico modello di negoziato, basato sul dare e non dare, cedere e non cedere sovranità, fare e non fare passi avanti”.


Occorre fare attenzione a queste premesse, perché vi si ritrovano tutte le aporie non risolte del presente, ed anche le tensioni che alimentano questa crisi.
L’Unione Europea è un progetto di pace, si dice spesso. E’ vero, ma anche di egemonia. Si tratta di un progetto di potenza ambiguamente condiviso tra il centro e la periferia europea. Ad un certo punto le élite europee (incluso ovviamente i socialisti europei) sono stati come ipnotizzati dai fari di una rinascente hybris centroeuropea che gli ha fatto balenare il “progetto” di affrancarsi dalla tutela degli Stati Uniti e diventare direttamente una potenza mondiale egemone. Questo è lo scambio che viene proposto alle élite europee (ed a tutti noi) dalla Germania; è, in altre parole, una versione macro dello scambio interno offerto agli “hartizzati” interni: accettare di essere soci di minoranza in una grande società egemone mondiale. Cioè di essere una “marca di confine” nell’impero centrale che recupera, finalmente, il suo posto nel mondo perso con la sconfitta del 1918. Un posto nel mondo in sostanza concepito nel gioco tradizionale dell’imperialismo europeo ma il cui avversario vero è chiaramente l’America. Ne abbiamo parlato qui e qui.


Andando alla conclusione, a me pare che anche in questo passaggio della storia si ripresenti sulla scena, appena nascosta da esili ragioni umanitarie, questa hybris: si vuole continuare a perseguire l’opportunità che si presentò improvvisa negli anni convulsi del disfacimento dell’impero sovietico, e della sua alleanza; un’opportunità che fu colta dall’unificazione tedesca e poi, via via accelerando, si iscrisse nel quadro della accresciuta competizione (tra imprese, capitali e modelli organizzativi) per i cuori e le menti di centinaia di milioni di cittadini europei dell’Est, e naturalmente per i loro mercati. Una competizione che per la prima volta vedeva l’Europa in vantaggio. Questo è il grande scenario che ha indotto l’accelerazione degli anni 1991-99 e che, a tappe forzate, ha portato alla creazione dell’Unione Europea, con il Trattato di Maastricht, poi all’introduzione dell’Euro, quindi negli anni successivi dal 2003 al 2007 al fallimento della Costituzione (e la riproposizione sotto mentite e minori spoglie del Trattato di Lisbona).
Sfortunatamente si è trattato di un processo di convergenza condotto con i soli mezzi dell’economia, cioè sotto il segno del dominio dell’economia sulla società e sulla politica. Nello scontro, costante in ogni politica pubblica complessa, tra diverse volontà e obiettivi compresenti ha prevalso cioè la forza degli spiriti animali, liberati dal subitaneo allargamento ad Est che aveva segnato gli anni novanta. Ha prevalso la capacità di colonizzazione del grande capitale finanziario, di grandi banche (che in quegli anni si allargano rapidamente verso Est, per occupare lo spazio improvvisamente libero ed intermediare i colossali flussi di capitali internazionali resi necessari per la ricostruzione e la trasformazione).

Alla fine la “guerra fredda” di cui parla Milanovic è scritta in questa decisione di potenza. Nella volontà di uniformare ed allineare il mondo con i mezzi dell’imperialismo economico della alta finanza e dei suoi ditkat. Ma più sostanzialmente, della sua meccanica.


Come reagirà, se lo farà, una Russia che ha visto negli ultimi venti anni alle sue frontiere schierarsi eserciti (finanziari) senza reagire ed ha costantemente perso terreno, accomodandosi come marca di confine della strapotente Europa Tedesca? Come reagirà oggi che le contraddizioni interne del progetto di unificazione imperiale manifestano i loro limiti? E l’Euro scricchiola sotto il peso delle sue molte difficili scelte?

Giunti a questo punto la crisi potrebbe prendere molte pieghe diverse, tra queste potrebbe vedersi anche una risposta sul piano energetico (più probabile all’inizio dell’inverno, per la verità); risposta che potrebbe prendere la forma di una restrizione dei flussi ed incremento dei prezzi, che sarebbe complessa da riassorbire nel medio termine.
Cambiando in parte discorso, anche queste difficilissime circostanze mostrano come l’indipendenza energetica e l’efficienza energetica siano dimensioni strategiche essenziali nel quadro di una politica non aggressiva, ma correttamente protettiva, dell’Unione Europea presa al suo meglio.


Chi non lo capisce, restando attardato su piccoli calcoli a breve termine è cieco.

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