Abbastanza
silenziosamente qualcosa di potenzialmente storico sta succedendo nel mondo, nel
mezzo dell’irrisolta transizione in corso del sistema economico e sociale
mondiale che chiamiamo “crisi economica” i debiti che l’occidente ha contratto con
il popolo Russo per effetto della gestione errata della crisi degli anni
novanta da parte del FMI ritornano a complicare ancora una volta i piani di
egemonia occidentale. Questo sconvolgimento strategico muove a partire dalla
crisi ucraina, la cui incerta gestione ha ormai portato ad una effettiva guerra
civile per procura, condotta da una parte da un esercito regolare, dietro le
quinte presumibilmente sostenuto economicamente dall’occidente, e dall’altra da
milizie fortemente innervate da quadri di comando e logistica Russa, oltre che
da sofisticate armi che attraversano una frontiera ormai virtuale. Una crisi
che ha prodotto al momento oltre 1.000 morti.
Una di queste
sofisticate armi ha presumibilmente abbattuto l’aereo della Malaysia Airline,
mandandolo a far compagnia a decine di aerei ed elicotteri dell’esercito
ucraino.
Questo è il
punto di svolta della crisi, ormai siamo sull’orlo della decisiva escalation da
guerra per procura a scontro diretto, sia pure condotto con le armi non
convenzionali dell’economia e della finanza.
Al fine di
comprendere meglio di cosa stiamo parlando rileggeremo un recente articolo
di Evans-Pritchard, che riporta il punto di vista inglese, e un pezzo sul blog
di Branko Milanovic, ma anche qualche
post da
Rassegna Est e qualche nostro vecchio
post sulla nascita della UE.
La situazione
“sul campo” (con ciò intendendo quello del confronto militare e quello,
altrettanto decisivo, del gioco delle ritorsioni economiche) non potrebbe
essere più grave. Chi pensa nella sola dimensione dell’interesse economico a
breve termine, e dunque valorizza le indubbie interconnessioni economiche e i
reciproci interessi cliente-fornitore, evidenziati nel pezzo di Rassegna Est, può essere indotto a ritenere che la crisi
rientrerà facilmente ma potrebbe sbagliare di grosso.
In questo nodo
convergono, infatti, molti fili: da una parte si tratta di un episodio di uno
scontro che parte dalla fine della prima guerra fredda, anzi –come acutamente
sottolinea Milanovic- precisamente dal
modo in cui questa è finita. In questa direzione si incontrano rancori e
memorie di dolore e sofferenza da parte Russa e paura da parte Europea (in
particolare dell’Est). Aggrava questa dimensione del ricordo e del rancore la
gestione ideologica della crisi del 1998 che si potrebbe leggere tramite il Capitolo
quinto <Chi ha perso la Russia?> del bel libro
di Joseph Stiglitz, La globalizzazione e
i suoi oppositori, del 2002.
Il secondo filo
è la partita tra USA e Unione Europea, che sovrintese sia alla formazione della
stessa UE (nel cruciale biennio 1989-91) sia all’allargamento ad Est che dal
punto di vista economico e sociale resterebbe altrimenti incomprensibile nelle
sue modalità e dimensione.
Lo sfondo è
dunque l’eterna volontà di affermazione e di prevalere, la decisione di chiudere
la partita avviata con la dissoluzione dell’impero sovietico. Questa volontà ha
segno ovviamente opposto sulle due frontiere.
I materiali con
i quali si pratica questo scontro sono la carne ed il sangue delle milizie
armate e delle popolazioni civili prese ad ostaggio (incluse quelle
nell’aereo), ma anche l’interdipendenza economica (che sarà bene riguardare),
quella delle materie prime e quella finanziaria.
La guerra
finanziaria è forse quella più importante nelle condizioni attuali: si lega con
lo scontro di riaggiustamento in corso negli organi internazionali di governance
della globalizzazione, l’ONU, il FMI, la Banca Mondiale, il WTO. Si tratta di
pilastri del controllo occidentale del mondo (nella formula entra da tempo il
Giappone) per i quali l’alleanza tra Cina, Russia e India è potenzialmente
devastante. A me pare che la
Russia porti in dote a tale alleanza potenziale (che in ogni
meeting internazionale si rinsalda di più) una essenziale “carta”: la potenza
militare e nucleare, insieme al diritto di veto che si aggiunge a quello cinese.
E si lega al tentativo in corso di sostituire il dollaro come moneta di scambio
internazionale; in altre parole, con il tentativo di far finire il dopoguerra.
Quest’orizzonte
potrebbe forse spiegare l’improvvisa determinazione americana, sia nella
gestione della Piazza Maidan Nezalezhnosti e poi nell’appoggio al cambio di regime
Ucraino (vissuto, forse non a torto, dai Russi come un’ingerenza e un episodio
di guerra interposta), sia nella successiva reazione alla crisi dell’aereo civile
(in mezzo si trova l’efficace reazione Russa nella questione della Crimea). E’
in corso quindi una vera controffensiva occidentale (condotta anche con le armi
dell’intelligence e persino con ritorsioni personali su oligarchi russi vicini
a Putin) che vedremo probabilmente dispiegarsi nelle prossime settimane.
Andando con più
ordine le sanzioni europee (cosiddette “Tier III”), se fossero imposte,
completerebbero il cordone sanitario intorno alle istituzioni finanziarie
russe, come ricorda Evans-Pritchard si sentono già gli effetti della sola
minaccia: i rendimenti delle obbligazioni a 10 anni sono salite al 9,15%, il costo
delle assicurazioni contro l’ipotesi di default (CDS) è arrivato a 225, salendo
di 17 punti; l’indice azionario è sceso al minimo. L’insieme di queste tre cose
mette sotto pressione il sistema bancario russo e, insieme alle sanzioni,
potrebbe portare ad una fuga di capitali di proporzione enorme. Malgrado ciò
ormai la decisione sembra sostanzialmente presa: Gran Bretagna e Germania, come
Olanda, Svezia, Danimarca e Polonia sembrano decise, la stessa Francia non si
oppone più e i paesi dell’Est sembrano essersi convinti.
Quale sarà la reazione Russa? Questa è
la domanda cruciale, infatti l’attacco colpirà sia il debito russo, sia il
patrimonio delle principali banche, sia la capacità di finanziare le cruciali perforazioni
dell’Artico per la ricerca dello shale di Bazhenov che è considerato essenziale
per sostituire le declinanti riserve di petrolio russe (si parla di 750
miliardi di $ in venti anni). Si tratta, in altre parole, di un colpo mortale. L’economia
Russa è molto fragile e fortemente dipendente dalle esportazioni energetiche
che sono calanti e fortemente dipendenti dai clienti europei. Quello tra l’Europa
e la Russia è, insomma, un legame cliente-venditore particolarmente delicato. Il
gas russo è venduto in Europa al prezzo dell’equivalente in petrolio al prezzo
di 60 $/bar, non molto redditizio; né una soluzione è la vendita alla Cina
(presumibilmente ancora più in basso) anche perché le riserve attuali, stimate
in 478 miliardi di $, non lasciano molta speranza. Per comprendere l’entità del
problema bisogna confrontarlo con il PIL russo (ca 2.000 miliardi di dollari) e
con i debiti in valuta estera di aziende, banche ed enti pubblici (stimati in
721 miliardi di dollari).
Malgrado il
rischio cruciale che corre l’economia russa, con singole aziende indebitate per
decine di miliardi di dollari, il governo Russo non cede sul punto della crisi
ucraina. Evans-Pritchard ricorda che dopo il disastro della Malaysia Airlines
ancora altri venti aerei ed elicotteri ucraini sono stati abbattuti, come
interi convogli di armi pesanti sono confluite oltre la frontiera.
La battaglia di
Donetsk, in queste condizioni, si rivela come uno scontro simbolico che i Russi
non possono perdere. Per l’opinione pubblica interna si è di fronte ad un
complotto.
Questa lettura
viene molto rafforzata dal punto di vista di Milanovic che parla di “seconda guerra fredda” e ne vede le radici
nella fine della “prima” guerra fredda, conclusa con la dissoluzione dell’Urss.
Cosa ha provocato la caduta del comunismo sovietico? Una prima lettura vede il
fallimento del modello sovietico nel consentire la crescita (in calo dagli anni
sessanta), favorire l’innovazione tecnologica e la libertà personale ed
imprenditoriale. Sarebbe stato il desiderio
di libertà politica e di accesso ai beni di consumo a determinare il crollo di
consenso e il disfacimento.
In questa ottica
hanno vinto tutti, Reagan e Gorbaciov, i cittadini. Le radici illuministe del
socialismo hanno fatto il resto: se il liberalismo multi-partitico è più efficace,
perché non adottarlo alla fine?
Il racconto
alternativo di Milanovic è più semplice e brutale. Alla fine era uno scontro
tra due superpotenze ed una ha vinto. Il resto è abbellimento ideologico.
Il problema è
che i due racconti hanno implicazioni diverse: se la Russia ha perso dovrebbe
accettare di diventare un “protettorato morbido” (Milanovic dice “come l’Italia”).
L’estensione della Nato e la relativa indipendenza in politica estera ne sono
conseguenze. Se, invece, ha vinto sul comunismo ed è parimenti libera può
rivendicare il suo ruolo non subalterno. Dovrebbe almeno avere libertà di
azione nella sua area di influenza, con le sue ex-colonie; almeno entro la Comunità degli Stati Indipendenti.
Chi legge il
primo schema, la vittoria e dominazione dell’occidente, troverà assurda la pretesa
di continuare ad influenzare l’Ucraina della Russia. Dal punto di vista Russo,
però, percepire che l’occidente li vede come permanentemente sconfitti coltiva
il risentimento e il risorgere del nazionalismo. Queste sono le forze politiche
dominanti che Putin a suo modo interpreta.
Anche il ricordo
degli anni di Eltsin, con le politiche draconiane imposte dai Piani di Salvataggio
del FMI, la “recessione di transizione”, gli oligarchi e i loro eserciti
privati, i redditi dimezzati, i risparmi evaporati in pochissimi anni, la disoccupazione,
una depressione più profonda di quella americana degli anni trenta, tre volte
più profonda di quella greca di oggi e durata sei anni (1990-96) non aiuta a
considerare in modo benigno l’occidente. Se passare alla democrazia ed all’occidente
significa perdere il lavoro, metà dei salari, cinque anni di attesa di vita,
aumentare alcolismo, criminalità e suicidi, si potrebbe dire che assomiglia
abbastanza ad una sconfitta militare.
Anche la
disgregazione dell’Urss non si spiega bene nello schema “vittoria della
democrazia”, mentre è molto chiaro in quello “sconfitta”.
Prendiamo
adesso, per capire meglio cosa è in campo in questo nodo, il punto di vista
Europeo, e per capirlo ritorniamo al dibattito sulla ratifica del Trattato di Maastricht nel Parlamento
Italiano nel 1992. Il 28 ottobre 1992, nel Parlamento Italiano impegnato nella
ratifica del Trattato che istituirà l’Unione Europea, Ugo Intini dirà,
a chi gli oppone che il Trattato mette l’Italia in una condizione di eccessiva
debolezza nei confronti della Germania, che il quadro geopolitico nel quale si compie
la scelta è quello di uno “scontro sotterraneo tra gli Stati Uniti, da tempo in
sofferenza per crisi di identità e di ruolo, e attori semiglobali come Germania
e Giappone”, in via di “conquistare per via pacifica e commerciale gli
obiettivi perseguiti per via militare nella seconda guerra mondiale”. L’obiettivo,
secondo Intini, della Germania è di “penetrare economicamente come nel burro
nell’ex Unione Sovietica e nel sud-est asiatico”. La cosa si poneva dunque in
termini semplici (o tali apparivano all’esponente socialista) la Germania
voleva sfondare ad Est, i paesi europei volevano essere associati e per tale
via controllare la strapotente nazione centrale e per questo il Trattato, negoziato
di corsa doveva essere siglato. La <fortezza europea> doveva rispondere allo
sforzo degli Stati Uniti di sfruttare la caduta sovietica del ’89-91 e
guadagnare per sé un’assoluta centralità.
Ancora il 29
ottobre, nella giornata conclusiva di quella determinante seduta, il Ministro degli Esteri,
Colombo, testimonierà del clima nel quale si compie la nascita dell’Unione Europea:
nel primo biennio dopo i fatti del 1989, dal riconoscimento di Solidarnosc alle
rivoluzioni in Polonia, Cecoslovacchia, alla caduta del muro in Germania Est,
si sviluppa un negoziato fortemente cooperativo intorno alla unificazione tedesca
del 1990 e alla dissoluzione dell’Urss del 1991. Per Colombo nei due anni più
importanti degli ultimi cinquanta, la preoccupazione delle segreterie europee
era di garantire coesione e stabilità e di candidare l’Unione Europea a
diventare attore primario (in affiancamento e parziale sostituzione agli USA)
dell’assorbimento dei paesi ex socialisti nell’economia di mercato. In quegli
anni l’enormità del compito, e le notevoli tensioni soggiacenti all’impresa,
consigliavano di condurla in modo cooperativo con il contributo attivo di
tutti. Ma già nella dichiarazione durante il
vertice franco-tedesco del 1989 si
manifestarono subito tensioni tra una posizione che spingeva verso
l’integrazione politica (il Ministro dell’economia francese, in particolare) ed
una (la Bundesbank) che spingeva prima sulla convergenza economica.
Tuttavia man mano che il pericolo si allontana, procedendo nel 1990 e 91, e
l’annessione della Germania dell’Est diventa un fatto compiuto (e, cosa anche
più importante, la potenziale minaccia dell’URSS scompare con il fallito
golpe), “si è assistito alla ripresa dell’antico modello di negoziato, basato
sul dare e non dare, cedere e non cedere sovranità, fare e non fare passi
avanti”.
Occorre fare
attenzione a queste premesse, perché vi si ritrovano tutte le aporie non
risolte del presente, ed anche le tensioni che alimentano questa crisi.
L’Unione Europea
è un progetto di pace, si dice spesso. E’
vero, ma anche di egemonia. Si tratta di un progetto di potenza ambiguamente condiviso tra il centro e la
periferia europea. Ad un certo punto le élite europee (incluso ovviamente i socialisti
europei) sono stati come ipnotizzati dai fari di una rinascente hybris
centroeuropea che gli ha fatto balenare il “progetto” di affrancarsi dalla
tutela degli Stati Uniti e diventare direttamente una potenza mondiale egemone.
Questo è lo scambio che viene proposto alle élite europee (ed a tutti noi)
dalla Germania; è, in altre parole, una versione macro dello scambio interno
offerto agli “hartizzati” interni: accettare di essere soci di minoranza
in una grande società egemone mondiale. Cioè di essere una “marca di confine”
nell’impero centrale che recupera, finalmente, il suo posto nel mondo perso con
la sconfitta del 1918. Un posto nel mondo in sostanza concepito nel gioco
tradizionale dell’imperialismo europeo ma il cui avversario vero è
chiaramente l’America. Ne abbiamo parlato qui
e qui.
Andando alla
conclusione, a me pare che anche in questo passaggio della storia si ripresenti
sulla scena, appena nascosta da esili ragioni umanitarie, questa hybris: si vuole continuare a perseguire
l’opportunità che si presentò improvvisa negli anni convulsi del disfacimento
dell’impero sovietico, e della sua alleanza; un’opportunità che fu colta
dall’unificazione tedesca e poi, via via accelerando, si iscrisse nel quadro
della accresciuta competizione (tra imprese, capitali e modelli organizzativi) per
i cuori e le menti di centinaia di milioni di cittadini europei dell’Est, e
naturalmente per i loro mercati. Una competizione che per la prima volta vedeva
l’Europa in vantaggio. Questo è il grande scenario che ha indotto
l’accelerazione degli anni 1991-99 e che, a tappe forzate, ha portato alla
creazione dell’Unione Europea, con il Trattato
di Maastricht, poi all’introduzione dell’Euro, quindi negli anni successivi dal 2003 al 2007 al fallimento
della Costituzione (e la
riproposizione sotto mentite e minori spoglie del Trattato di Lisbona).
Sfortunatamente si
è trattato di un processo di convergenza condotto con i soli mezzi dell’economia,
cioè sotto il segno del dominio dell’economia sulla società e sulla politica.
Nello scontro, costante in ogni politica pubblica complessa, tra diverse
volontà e obiettivi compresenti ha prevalso cioè la forza degli spiriti
animali, liberati dal subitaneo allargamento ad Est che aveva segnato gli anni
novanta. Ha prevalso la capacità di colonizzazione del grande capitale
finanziario, di grandi banche (che in quegli anni si allargano rapidamente
verso Est, per occupare lo spazio improvvisamente libero ed intermediare i
colossali flussi di capitali internazionali resi necessari per la ricostruzione
e la trasformazione).
Alla fine la “guerra fredda” di cui parla
Milanovic è scritta in questa decisione di potenza. Nella volontà di
uniformare ed allineare il mondo con i mezzi dell’imperialismo economico della
alta finanza e dei suoi ditkat. Ma più sostanzialmente, della sua meccanica.
Come reagirà, se
lo farà, una Russia che ha visto negli ultimi venti anni alle sue frontiere
schierarsi eserciti (finanziari) senza reagire ed ha costantemente perso
terreno, accomodandosi come marca di confine della strapotente Europa Tedesca? Come
reagirà oggi che le contraddizioni interne del progetto di unificazione imperiale
manifestano i loro limiti? E l’Euro scricchiola sotto il peso delle sue molte
difficili scelte?
Giunti a questo
punto la crisi potrebbe prendere molte pieghe diverse, tra queste potrebbe
vedersi anche una risposta sul piano energetico (più probabile all’inizio
dell’inverno, per la verità); risposta che potrebbe prendere la forma di una
restrizione dei flussi ed incremento dei prezzi, che sarebbe complessa da
riassorbire nel medio termine.
Cambiando in
parte discorso, anche queste difficilissime circostanze mostrano come l’indipendenza energetica e l’efficienza energetica siano dimensioni
strategiche essenziali nel quadro di una politica non aggressiva, ma correttamente
protettiva, dell’Unione Europea presa al suo meglio.
Chi non
lo capisce, restando attardato su piccoli calcoli a breve termine è cieco.
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