Questo blog è ospitato da un servizio
gratuito di Google. E’ comodo, ben integrato e grazioso (anche se sicuramente
ci sono validissime alternative); poi personalmente faccio uso di facebook, di
twitter, di linekin, di alcuni servizi cloud, etc… Mi piace e lo trovo utile.
Ognuno di questi servizi ha alle spalle grandi
organizzazioni e colossali concentrazioni di ricchezza. Sono tra le società più
capitalizzate al mondo, e appaiono a tutti come i vincenti predestinati nella
riarticolazione in corso delle modalità di produzione della società
contemporanea. La ragione è che si pongono al centro dello scambio di
informazioni (esplicite e soprattutto implicite) e delle relative relazioni umane. L’intuizione di Facebook è probabilmente stata che una
piattaforma facile (apparentemente con poche regole), disegnata sulle abitudini
dei parlanti avrebbe attratto su di sé le interazioni, dandogli uno spazio nel
quale potenziarsi. Un dispositivo capace di generare una nuova società, come la
piazza nella città greco-romana.
Ma come una piazza necessita di marmo e
di colonne, e di specifici edifici di servizio, come di istituzioni che
amplifichino e rendano produttive le interazioni che il dispositivo spaziale
attrae, così le piattaforme informatiche necessitano di progettazione,
manutenzione, assistenza e di uno scopo.
Qualche giorno fa ho pubblicato
l’opinione di Jaron Larnier e prossimamente posterò una lettura del suo ultimo
libro; la sua opinione è che il sistema è basato essenzialmente sullo
sfruttamento senza restituzione di valore al creatore di una miriade di
microcontenuti che sono sommati, resi significativi dall’immensa potenza del
“big data”. In un certo senso tutto il chiacchiericcio quotidiano che innerva
da sempre la società, istituisce rapporti e crea legami, determina senso comune
ed orienta i valori ed i comportamenti, identifica e crea individui, diventa “contenuto”
capace di avere senso e utilità attraverso l’aggregazione. Attraverso una
tecnologia che muove in questo millennio i primi passi maturi: la profilazione.
Come avevo scritto, questo è il punto
messo in evidenza da Larnier: il segreto del successo di Google Traslate,
di Facebook, di Amazon, di You Tube, è che tutti i contenuti che nelle loro mani diventano oro sono
regalati. Ogni video, frammento di conversazione, traduzione modificata
(scegliendo la parola più appropriata nella tendina a scorrimento), libro
selezionato o commentato, oggetto comprato, “like”, “retweet”, trasmette infatti
implicitamente informazioni che hanno un valore per chi le sa collegare.
La soluzione proposta dall’autore
americano è di istituire un sistema di tracciabilità per consentire che ogni
contenuto validato, per essere usato, sia fronteggiato da un micropagamento. A
suo parere questa potrebbe essere la base di una nuova classe media non più
impegnata nella produzione di beni o di servizi (che sono sempre più disintermediati
dalla tecnologia), ma di idee, schemi, valori guida, messaggi o
rappresentazioni.
Ora il Garante per la Privacy italiano (al quale vertice è stato a lungo
Rodotà) ha rotto gli indugi e, per primo in Europa, ha imposto a Google di
ottenere il consenso degli utenti se vuole trattenere, utilizzare nei suoi
algoritmi di profilazione, vendere o comunque impiegare a qualsiasi fine (il
più ovvio, ma temo non l’unico è la pubblicità) i dati raccolti attraverso Google,
GMail, You Tube, Google Maps, Google+, e via dicendo (incluso questo blog).
Il consenso esplicito degli utenti sarà
necessario e la casa dovrà spiegare come usa i dati, quando e per quanto tempo.
Il Garante
ha dato 18 mesi al gigante americano per adeguarsi, ma entro il 30 settembre
gli impone di proporre un Protocollo di Verifica, con i tempi di implementazione
e le modalità di controllo (che dovrà prevedere anche ispezioni in America,
nella sede ed ai server di Mountain View).
Il provvedimento n. 353 del 10 luglio
2014 è dunque una pietra miliare, conducendo forse il primo –e sicuramente il
più importante- contrattacco dei poteri nazionali di regolazione nei confronti
dei templi della modernità contemporanea. Quella assoluta libertà di disporre
dei beni pubblici attraverso il loro spostamento oltre le frontiere “bucherellate”
(come scrive Habermas) nazionali, che mette a grandissimo rischio la nostra
libertà. Un rischio che non è reso meno grande dall’essere poco evidente.
Che
male ci sarà, potrebbe dire qualcuno, dal ricevere
in anticipo il libro che ancora non ho deciso di comprare (e che magari non so
neppure di volere) con uno sconto a casa mia, magari previa ricezione di un sms
e tramite un drone che atterra nel mio balcone? Questo servizio, che sta per
essere brevettato da Amazon, mi impedisce di scoprire –chiacchierando con un
amico, o passeggiando nella libreria sotto casa- una nuova prospettiva che apre
il mio orizzonte. Mi impedisce di sorprendermi, di andare da un’altra parte, di
cambiare.
Che
male ci sarà, direbbe qualcuno, dal trovare a destra
del mio schermo di navigazione, o in basso nel televisore, delle proposte
commerciali così appropriate che potrebbero essere state fatte dal mio clone?
Che
male ci sarà, direbbe qualcuno, se il mio “social”
mi propone nuove amicizie, mi aiuta a trovare i luoghi “virtuali” in cui si
parla di ciò che mi interessa, mi rende facile non sentirmi solo. Sentirmi
utile.
Che
male ci sarà se dà senso alle nostre vite?
Che male, …
Che bene c’è nell’avere tutta l’intelligenza
del mondo, tutte le connessioni, tutte le informazioni, ogni sapere ed ogni
decisione in un solo punto? Che bene, nell’essere osservati, tutti, da un solo
occhio? Che bene nell’avere ogni flusso, ogni spostamento, sotto lo sguardo
della piazza?
Il provvedimento n. 353 del 10 luglio
2014 è una pietra miliare.





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