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martedì 15 luglio 2014

Ha-Joon Chang, “Cattivi samaritani. Il mito del libero mercato e l’economia mondiale”

  
Ha-Joon Chang è un economista coreano che insegna Economia dello Sviluppo in Inghilterra, a Cambridge ed in passato è stato consulente sia della Banca Mondiale, sia delle Nazioni Unite. In questo libro prende una decisa posizione contro la gestione della globalizzazione ed in particolare contro il mito ad essa centrale: quello che il libero mercato, senza protezioni, è sempre a vantaggio di tutti ed è il modo più efficiente di favorire la crescita.

Il libro – che è scritto nel 2007- è particolarmente focalizzato sullo sviluppo nei paesi di convergenza, ma praticamente ogni cosa che scrive si applica anche ai cosiddetti paesi sviluppati. La sua tesi in qualche modo centrale è che il libero commercio, senza alcuna protezione, è adatto solo a garantire che chi è più forte lo diventi di più e quindi che chi è più debole lo resti (anzi peggiori). In effetti è una conclusione in qualche modo ovvia, e ricca di esempi nel testo. Tutti i paesi del miracolo economico dell’est (a partire dalla nativa Corea) sono diventati forti, superando in molti casi la difficile trasformazione da economie con reddito procapite basso a medio ed a medio-alto (quella che la Cina sta cercando di fare adesso) solo proteggendosi dalla concorrenza insostenibile dei paesi già sviluppati e delle loro “agenti”, ed in particolare investendo e proteggendo le loro “aziende bambine”.
Ma questa non è un’idea orientale, e non è neppure un’idea novecentesca. Tutti i paesi che sono cresciuti e hanno superato sfide, dagli USA all’Inghilterra, lo hanno fatto.

Questa circostanza è nota, ma accuratamente ignorata. I principi del cosiddetto “libero mercato”, come la bassa inflazione, l’intervento minimo dello Stato, la libertà d’impresa privata, il libero scambio e l’apertura ai capitali stranieri, sono infatti fortemente voluti da quella che l’autore (che la conosce da dentro) chiama “una potente macchina propagandistica, un meccanismo finanziario-intellettuale sostenuto da denaro e potere”. Questa “potente macchina” cerca di far passare l’idea che tutta la crescita degli ultimi anni (la Corea ha moltiplicato per 14 il reddito pro-capite in cinquanta anni, viaggiando alla velocità media quattro volte superiore a quella Inglese storica) sia dipesa dall’applicazione di questi principi. Ma ciò che è successo, invece, è che l’economia è stata strettamente regolata; le imprese nuove furono protette con dazi, finanziamenti, informazioni, spionaggio, furto di proprietà intellettuale (cioè rifiuto di perseguirlo), aiuti dalle banche che erano tutte pubbliche, azione diretta di imprese pubbliche, controllo assoluto della valuta (fino alla pena di morte).

Allora come si spiega che questa predicazione del libero mercato sia così totale? La spiegazione di Chang è semplice, e non è nuova: Friederich List, nel 1841, disse che la Gran Bretagna, cresciuta attraverso politiche industriali aggressive, protezioni selettive, furto di tecnologie e brevetti, ed altro che vedremo, una volta raggiunta la supremazia “ha [semplicemente] dato un calcio alla scala”, in modo che nessuno la potesse raggiungere. Il libero commercio (imposto in vari modi) in posizione di vantaggio costringe infatti gli altri paesi a specializzarsi nei settori in cui non competono, quelli a basso valore aggiunto; lasciando alla furba potenza dominante tutti i mercati più redditizi.
Il meccanismo economico è semplice ed efficace. In condizioni di libera circolazione, e senza protezione la maggiore produttività di chi ha un maggiore grado di sviluppo è insostenibile per chi non lo ha. Dunque l’entrare in contatto senza protezioni lo mette fuori mercato e lo costringe ad applicare i propri fattori produttivi ai settori meno esposti. Ma si tratta di settori che, per il fatto di essere stati abbandonati o non scelti, sono sempre quelli meno redditivi. Lo squilibrio quindi si consolida.
L’autore chiama chi suggerisce queste strategie <cattivi samaritani>, perché si approfittano di chi è in difficoltà invece di aiutarli. Gli esempi, anche tratti dalla storia del liberalismo britannico a senso unico sono numerosi e convincenti.

D’altra parte la globalizzazione, a parere dell’autore, ha fallito su tutta la linea: nel favorire, cioè, la crescita, uguaglianza e stabilità. Dopo il 2008 l’ultima voce (la perdita di stabilità) incide anche sui paesi sviluppati, ma certamente era forte l’instabilità su quelli deboli anche nel primo decennio del nuovo millennio. L’uguaglianza è invece in declino ovunque. Ma anche la crescita negli anni novanta è calata rispetto a quella dei decenni precedenti, se si guarda il reddito pro capite. Ed ancora peggio se si guarda il reddito mediano.
Solo Hong Kong è l’eccezione, dove però ci sono condizioni particolarissime.

Una delle parti più interessanti del testo è nelle ricostruzioni, necessariamente rapide, della storia dello sviluppo economico dei paesi occidentali che è, come noto, piuttosto diversa dalla vulgata neoliberale, secondo la quale è stato il libero commercio a generare il vantaggio competitivo e  fargli prendere vantaggio. Il testo ricorda come, al contrario, nell’Inghilterra vittoriana le politiche del Primo Ministro Walpole (ben tratteggiate dal Piano per il Commercio Inglese di William Defoe), prevedessero accurate protezioni delle merci inglesi, spionaggio, attrazione dei migliori operai concorrenti (e all’epoca, bisogna notare, il know how non era incorporato nelle macchine e tanto meno nei brevetti o nei progetti, ma nelle persone che le sapevano far funzionare), restrizioni alle importazioni dei prodotti concorrenti. E’ solo quando raggiunse una solida posizione di predominio industriale che l’Inghilterra aprì i suoi mercati (imponendo, anche con la forza, l’apertura di quelli dei concorrenti, in modo da spazzare via la loro industria nascente e ancora debole).
In questa direzione va anche la politica coloniale, rivolta a far aprire i mercati ai prodotti verso i quali i locali erano più deboli. Una politica che contribuì non poco a provocare la defezione degli Stati Uniti. Il grande paese oltreoceano, subito dopo l’indipendenza avviò, attuando nel 1812-16 il Programma Hamilton del 1791 incentrato sul concetto di “industria bambina” da proteggere per consentirgli di crescere, una robusta politica protezionista con dazi fino al 40%. Sui dazi, che il sud voleva abbassare e il nord industriale alzare, si innescò anzi la prima crisi politica interna nel 1832. La Nullification Crisis fu risolta con un misto di concessione e minaccia dal Presidente, ma servì solo a rimandare l’appuntamento del conflitto tra l’economia del sud, basata sulla servitù e l’agricoltura da esportazione, e quella del nord, basata sul lavoro salariato libero e l’industria. Dopo la guerra civile i dazi restarono al 50% fino alla prima guerra mondiale. Anche dopo oscillarono dal 25% al 40% secondo i periodi. Ma qualcosa non quadra se questa economia, la più protezionista del mondo, era anche quella più forte come crescita.
Ed una cosa simile accadde, secondo l’autore, a Germania, Svezia, Francia, Finlandia, Austria, Giappone, Taiwan e Corea.

Naturalmente con tempi e miscele di protezione e incentivi diversi. Il punto fondamentale è che oltre allo stimolo a darsi da fare e competere occorrono anche le capacità di farlo. E per averle bisogna investire a lungo e farle crescere. Secondo il suo esempio, un bambino di sei anni se viene subito esposto al competitivo mondo del lavoro non potrà mai sviluppare attitudini complesse che richiedono decenni di studi.
La teoria del libero scambio (HOS) soffre di questo problema, presupponendo che la crescita relativa sia solo un effetto delle differenze dei fattori di produzione esistenti, e dunque suggerendo la loro piena mobilità, assume un punto di vista statico. Non consente la crescita ma solo la distribuzione delle forze secondo il rapporto vigente. Ciò che favorisce è la vittoria costantemente del più forte e il consolidamento di questa situazione.
Il passaggio da Gatt (che consentiva ad alcuni paesi protezioni, e garantì un’enorme crescita) al WTO (che impediva di proteggersi e ha rallentato la crescita praticamente di tutti) è in questa direzione (p.86). In effetti per Chang: “il segreto del successo è in un mix accorto di protezionismo e apertura” (p.95).
Parte di questa protezione è nella regolamentazione dell’investimento estero (ad esempio a lungo proibito in modo radicale in Finlandia) che genera flussi volatili, pro ciclici ed altamente pericolosi. Inoltre espone il paese alle strategie da free-rider delle multinazionali, che spostano tramite il sistema dei “prezzi ombra” intergruppo, i benefici che guadagnano sfruttando i beni pubblici locali (normalmente pagati dai contribuenti) nei paesi a minore impatto fiscale. Del resto non appare neppure vero che gli investimenti esteri siano credibilmente un motore di crescita. Al più è il contrario, quando c’è crescita arrivano gli investimenti a utilizzare la domanda interna che si è generata. In questo modo provocano un rafforzamento del ciclo ma anche una sua fragilità (dato che al boom può seguire un repentino boost, l’autore scrive prima del 2008 altrimenti avrebbe copiosi esempi anche in occidente, ma comunque non gli mancano nei pesi di convergenza).

Non manca, in questa serrata critica delle posizioni comuni del neo-liberalismo, l’attacco al primato dell’impresa privata su quella pubblica (p.125) e della proprietà intellettuale, cioè dell’eccessiva durata ed estensione dei brevetti che danneggia la distribuzione della conoscenza e si manifestano come “strumenti per estorcere il reddito” (Martin Wolf). (p.164)

Una delle parti più interessanti, comunque, nel lavoro di smontaggio del paradigma liberista applicato allo sviluppo locale che compie Chang è nella discussione sull’inflazione, o detto in altri termini, sulla stabilità dei prezzi. Uno dei dogmi più accuratamente difesi dal paradigma liberista imperante è che l’inflazione deve essere quanto più vicino possibile ad un numero molto basso (a lungo, in Europa è prevalsa la linea che quanto più vicina allo zero possibile e comunque inferiore al 2% dei Trattati, quanto meglio è). Chang, che scrive dall’Inghilterra e nel 2007, afferma che le cose non stanno così: l’inflazione non è quella forma di tassazione che sottrae una parte del reddito guadagnato con il lavoro come sosteneva Milton Friedman, e non influisce negativamente sullo sviluppo economico. Il ragionamento secondo il quale l’investimento, essenziale per la crescita, rifuggirebbe l’incertezza determinata dall’instabilità monetaria è parziale e soprattutto non considera i mezzi per raggiungerlo. Infatti per tenere sottocontrollo la moneta sostanzialmente la si raziona, e si contraggono le spese pubbliche per evitare di “vivere sopra i propri mezzi” (cioè di indebitarsi).
Ma negli anni sessanta e settanta, dice Chiang, il tasso d’inflazione brasiliano era al 42% all’anno, e il reddito procapite crebbe in termini reali del 4,2% all’anno (uno dei tassi più alti al mondo). Quando dopo il 1996 ha abbracciato la teoria neoliberale, l’inflazione è scesa al 7,2% e il tasso di crescita reale (cioè al netto dell’inflazione) al 1,3% all’anno. La Corea, quando cresceva al 7% all’anno, in termini di redditi pro capite, aveva un’inflazione del 20% all’anno che era più alta della maggioranza dei paesi consimili e simile a quella Argentina.
Intendiamoci, ci ricorda l’autore, l’iperinflazione (cioè sopra il 200%, il 300%) è effettivamente distruttiva, perché rende impossibile la pianificazione economica. Ma l’inflazione tra 1 e 3% di Stanley Fisher non ha invece ragioni puramente economiche (mentre ne ha diverse in termini distributivi). Persino William Easterly e Michael Bruno, ex Capo Economista della Banca Mondiale, hanno mostrato che al di sotto del 40% non ci sono dimostrabili correlazioni tra inflazione e crescita in negativo. Anzi, entro il 20% sembra che quanto più sia alta l’inflazione, quanto più salga la crescita.
L’inflazione sarebbe un effetto di dinamismo (se non una causa), e favorirebbe le attività economiche (forse in parte incoraggiando ad investire i soldi per non farli erodere). La cosa si può mettere in questi termini: un basso tasso di inflazione protegge i risparmi, ma le politiche necessarie per garantirla danneggiano il lavoro. Infatti si tratta di politiche di contrazione dell’attività economica, volte specificatamente a far calare la domanda di lavoro, aumentare la disoccupazione e per questa via ridurre i salari. Ciò retroagisce sull’attività economica per via di una contrazione della domanda.
Per i lavoratori, in particolare, mentre essa stabilizza i redditi presenti impedisce al contempo i futuri (e la loro crescita); mentre per chi non lavora ma vive di rendita (o di pensioni) è una benedizione. I renditieri non risentono dei danni al mondo del lavoro ma fruiscono del beneficio del clima deflazionistico o stabile.

Dunque una politica di stabilità dei prezzi ha vincitori e vinti. E che dire dei guardiani? Le Banche Centrali sono ovviamente orientate ai loro stakeholders, cioè al settore finanziario al quale sono legate in vario modo (anche biografico); dunque per l’autore le cose sono semplici, esse “implementano politiche a suo favore [del settore finanziario] anche a scapito dell’industria manifatturiera e dei lavoratori dipendenti”.
Vediamo meglio: dall’analisi tratteggiata, le politiche deflazionistiche, necessarie a garantire la stabilità dei prezzi, sono come una specie di camicia di contenimento (o meglio una di quelle fasciature strette che si facevano alle bambine in Cina per fargli venire i piedi piccoli); impediscono la crescita per paura che diluisca la ricchezza già accumulata, creandone di nuova. In effetti la stabilità è una politica per la rendita ed i patrimoni consolidati contro l’industria e i potenziali nuovi entranti. Una sorta di tassa sul dinamismo della società.
Uno degli effetti a breve termine, che la rende ben accetta dai proprietari del capitale industriale, è che disciplina i lavoratori, creando l’esercito di riserva di disoccupati che serve per tenere sotto pressione al ribasso i salari (e dunque al rialzo i profitti del capitale, ovviamente); ma si tratta d un ambiguo vantaggio, l’effetto a medio-lungo termine è che comprime anche la crescita industriale, che ha bisogno di un ambiente espansivo per rendere produttivi (e dunque possibili) gli investimenti. Come spesso succede con l’aggregazione di comportamenti individualmente razionali, ma egoisti, la composizione è controproducente.
Come noto la soluzione di questo dilemma, ma a breve termine, come si confà a tutte le miopi politiche liberiste (che prendono in parola il motto di Keynes: nel lungo periodo saremo tutti morti, e dunque non se ne occupano), è il mercantilismo. Si cerca un’espansione per via di cattura della domanda estera. A ciò, tra l’altro rendendo funzionale la deflazione.
E che succede se inizia una recessione ed esiste una struttura debitoria verso l’estero (tipicamente verso le banche occidentali, garantite dal FMI)? Che s’impongono politiche ancora più deflattive, con avanzi primari e alti tassi, per garantire che comunque i debiti siano pagati. Ricorda qualcosa? A me sì.

Dove cade il punto? Che queste politiche scontentano la grande maggioranza della popolazione. In fondo i finanzieri sono pochi, i renditieri comunque una piccola parte della popolazione (magari un 5%), i capitani d’industria ancora meno. Allora qui nasce l’ultimo elemento dell’equazione neoliberale: la democrazia va controllata. Uno dei nodi è rendere indipendenti dalla democrazia, cioè da chi non è nell’elenco di cui sopra, le Banche Centrali, in modo che possano rispondere solo agli interessi dei loro stakeholders (come nell’ottocento i governi rispondevano solo ai proprietari).
In altre parole, “mercato e democrazia sono in antitesi tra di loro” (p.203). Il rispettivo principio è infatti: conta una testa o un dollaro? La soluzione proposta dal pensiero neoliberale, anche in questo miope, è spoliticizzare la democrazia e screditare la politica.

Quale è, al fine, la lezione che questo interessante libro cerca di far notare? Che per lo sviluppo, nei paesi in convergenza (ma mi pare tanto anche per i paesi relativamente deboli, come il nostro, nei confronti di vicini e concorrenti più forti) “giocare” su un campo livellato è deleterio. Il campo di gioco livellato nel quale si confrontino a rugby una squadra femminile di dodicenni con la nazionale irlandese non è né equo né onesto. Se i giocatori sono diversi la competizione alla pari è sleale (p. 254). Detto in altro modo, la competizione aperta tra industrie a diverso livello di sviluppo e supportate da sistemi economici ed istituzionali (incluso l’ambiente creditizio e regolatorio) diversi, tende a schiacciare il più debole ed a espellerlo dai mercati più profittevoli. Dunque tende a schiacciare i fattori produttivi del paese debole e costringerli a ripiegare sui settori protetti, se ce ne sono, o su quelli nei quali è minore la concorrenza. Questi sono sempre quelli a minore valore aggiunto e/o produttività. La concorrenza, dunque, se non sostenuta induce ad una perdita di competitività e tende a consolidare le condizioni di squilibrio, o ad aumentarle.

Anche se questo libro è del 2007, questo è esattamente quel che è successo in Europa, ed in particolare in Italia, nei sette anni successivi. Basta guardare i numeri.

Lo stesso autore ha scritto anche “23 cose che non ti hanno mai detto del capitalismo” che è del 2010. Vedremo se trae qualche conclusione (anche se la crisi europea è stata a W e dunque la parte più “istruttiva” è del 2012-14). 

3 commenti:

  1. Grande questa recensione, arrivo qui da un collegamento di un altro sito e data la validità di quanto scritto presumo che ci siano altri collegamenti, ma qui non ci sono commenti... sarà perchè il sito è stranamente lento?

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  2. Non so, sinceramente. Ha avuto ca. 150 letture e nessun commento. Ma comunque ci sono sempre pochi commenti, ca 80 su ca 100.000 letture. Sarà colpa mia.

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  3. Libro molto interessante e consigliato a tutti, poiché grazie alla semplicità di linguaggio e alle numerose metafore che rendono ulteriormente chiara la spiegazio, è alla portata di tutti.

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