Ha-Joon Chang è un
economista coreano che insegna Economia
dello Sviluppo in Inghilterra, a Cambridge ed in passato è stato consulente
sia della Banca Mondiale, sia delle Nazioni Unite. In questo libro
prende una decisa posizione contro la gestione della globalizzazione ed in
particolare contro il mito ad essa centrale: quello che il libero mercato,
senza protezioni, è sempre a vantaggio di tutti ed è il modo più efficiente di
favorire la crescita.
Il libro – che è scritto
nel 2007- è particolarmente focalizzato sullo sviluppo nei paesi di
convergenza, ma praticamente ogni cosa che scrive si applica anche ai
cosiddetti paesi sviluppati. La sua tesi in qualche modo centrale è che il
libero commercio, senza alcuna protezione, è adatto solo a garantire che chi è
più forte lo diventi di più e quindi che chi è più debole lo resti (anzi
peggiori). In effetti è una conclusione in qualche modo ovvia, e ricca di
esempi nel testo. Tutti i paesi del miracolo economico dell’est (a partire
dalla nativa Corea) sono diventati forti, superando in molti casi la difficile
trasformazione da economie con reddito procapite basso a medio ed a medio-alto
(quella che la Cina
sta cercando di fare adesso) solo
proteggendosi dalla concorrenza insostenibile dei paesi già sviluppati e delle
loro “agenti”, ed in particolare investendo e proteggendo le loro “aziende bambine”.
Ma questa non è un’idea
orientale, e non è neppure un’idea novecentesca. Tutti i paesi che sono
cresciuti e hanno superato sfide, dagli USA all’Inghilterra, lo hanno fatto.
Questa circostanza è
nota, ma accuratamente ignorata. I principi del cosiddetto “libero mercato”,
come la bassa inflazione, l’intervento minimo dello Stato, la libertà d’impresa
privata, il libero scambio e l’apertura ai capitali stranieri, sono infatti fortemente
voluti da quella che l’autore (che la conosce da dentro) chiama “una potente
macchina propagandistica, un meccanismo finanziario-intellettuale sostenuto da
denaro e potere”. Questa “potente macchina” cerca di far passare l’idea che
tutta la crescita degli ultimi anni (la Corea ha moltiplicato per 14 il reddito
pro-capite in cinquanta anni, viaggiando alla velocità media quattro volte
superiore a quella Inglese storica) sia dipesa dall’applicazione di questi
principi. Ma ciò che è successo, invece,
è che l’economia è stata strettamente regolata; le imprese nuove furono
protette con dazi, finanziamenti, informazioni, spionaggio, furto di proprietà
intellettuale (cioè rifiuto di perseguirlo), aiuti dalle banche che erano tutte
pubbliche, azione diretta di imprese pubbliche, controllo assoluto della valuta
(fino alla pena di morte).
Allora come si spiega che questa predicazione del libero
mercato sia così totale? La spiegazione di Chang
è semplice, e non è nuova: Friederich
List, nel 1841, disse che la Gran Bretagna , cresciuta attraverso politiche
industriali aggressive, protezioni selettive, furto di tecnologie e brevetti,
ed altro che vedremo, una volta raggiunta la supremazia “ha [semplicemente] dato
un calcio alla scala”, in modo che nessuno la potesse raggiungere. Il libero
commercio (imposto in vari modi) in posizione di vantaggio costringe infatti
gli altri paesi a specializzarsi nei settori in cui non competono, quelli a
basso valore aggiunto; lasciando alla furba potenza dominante tutti i mercati
più redditizi.
Il meccanismo economico
è semplice ed efficace. In condizioni di libera circolazione, e senza
protezione la maggiore produttività di chi ha un maggiore grado di sviluppo è
insostenibile per chi non lo ha. Dunque l’entrare in contatto senza protezioni lo
mette fuori mercato e lo costringe ad applicare i propri fattori produttivi ai
settori meno esposti. Ma si tratta di settori che, per il fatto di essere stati
abbandonati o non scelti, sono sempre quelli meno redditivi. Lo squilibrio quindi
si consolida.
L’autore chiama chi
suggerisce queste strategie <cattivi samaritani>, perché si approfittano
di chi è in difficoltà invece di aiutarli.
Gli esempi, anche tratti dalla storia del liberalismo britannico a senso unico
sono numerosi e convincenti.
D’altra parte la
globalizzazione, a parere dell’autore, ha fallito su tutta la linea: nel
favorire, cioè, la crescita, uguaglianza e stabilità. Dopo il 2008 l’ultima
voce (la perdita di stabilità) incide anche sui paesi sviluppati, ma certamente
era forte l’instabilità su quelli deboli anche nel primo decennio del nuovo
millennio. L’uguaglianza è invece in declino ovunque. Ma anche la crescita
negli anni novanta è calata rispetto a quella dei decenni precedenti, se si
guarda il reddito pro capite. Ed ancora peggio se si guarda il reddito mediano.
Solo Hong Kong è
l’eccezione, dove però ci sono condizioni particolarissime.
Una delle parti più
interessanti del testo è nelle ricostruzioni, necessariamente rapide, della
storia dello sviluppo economico dei paesi occidentali che è, come noto,
piuttosto diversa dalla vulgata neoliberale, secondo la quale è stato il libero
commercio a generare il vantaggio competitivo e
fargli prendere vantaggio. Il testo ricorda come, al contrario, nell’Inghilterra
vittoriana le politiche del Primo Ministro Walpole (ben tratteggiate dal Piano per il Commercio Inglese di
William Defoe), prevedessero accurate protezioni delle merci inglesi,
spionaggio, attrazione dei migliori operai concorrenti (e all’epoca, bisogna
notare, il know how non era incorporato nelle macchine e tanto meno nei
brevetti o nei progetti, ma nelle persone
che le sapevano far funzionare), restrizioni alle importazioni dei prodotti
concorrenti. E’ solo quando raggiunse una solida posizione di predominio
industriale che l’Inghilterra aprì i suoi mercati (imponendo, anche con la
forza, l’apertura di quelli dei concorrenti, in modo da spazzare via la loro
industria nascente e ancora debole).
In questa direzione va
anche la politica coloniale, rivolta a far aprire i mercati ai prodotti verso i
quali i locali erano più deboli. Una politica che contribuì non poco a
provocare la defezione degli Stati Uniti. Il grande paese oltreoceano, subito
dopo l’indipendenza avviò, attuando nel 1812-16 il Programma Hamilton del 1791 incentrato
sul concetto di “industria bambina” da proteggere per consentirgli di crescere,
una robusta politica protezionista con dazi fino al 40%. Sui dazi, che il sud
voleva abbassare e il nord industriale alzare, si innescò anzi la prima crisi
politica interna nel 1832. La Nullification Crisis
fu risolta con un misto di concessione e minaccia dal Presidente, ma servì solo
a rimandare l’appuntamento del conflitto tra l’economia del sud, basata sulla
servitù e l’agricoltura da esportazione, e quella del nord, basata sul lavoro
salariato libero e l’industria. Dopo la guerra civile i dazi restarono al 50%
fino alla prima guerra mondiale. Anche dopo oscillarono dal 25% al 40% secondo
i periodi. Ma qualcosa non quadra se questa economia, la più protezionista del
mondo, era anche quella più forte come crescita.
Ed una cosa simile
accadde, secondo l’autore, a Germania, Svezia, Francia, Finlandia, Austria,
Giappone, Taiwan e Corea.
Naturalmente con tempi e
miscele di protezione e incentivi diversi. Il punto fondamentale è che oltre
allo stimolo a darsi da fare e competere occorrono anche le capacità di farlo. E
per averle bisogna investire a lungo e farle crescere. Secondo il suo esempio,
un bambino di sei anni se viene subito esposto al competitivo mondo del lavoro
non potrà mai sviluppare attitudini complesse che richiedono decenni di studi.
La teoria del libero
scambio (HOS) soffre di questo problema, presupponendo che la crescita relativa
sia solo un effetto delle differenze dei fattori di produzione esistenti, e
dunque suggerendo la loro piena mobilità, assume un punto di vista statico. Non
consente la crescita ma solo la distribuzione delle forze secondo il rapporto
vigente. Ciò che favorisce è la vittoria costantemente del più forte e il
consolidamento di questa situazione.
Il passaggio da Gatt
(che consentiva ad alcuni paesi protezioni, e garantì un’enorme crescita) al
WTO (che impediva di proteggersi e ha rallentato la crescita praticamente di
tutti) è in questa direzione (p.86). In effetti per Chang: “il segreto del
successo è in un mix accorto di protezionismo e apertura” (p.95).
Parte di questa
protezione è nella regolamentazione dell’investimento estero (ad esempio a
lungo proibito in modo radicale in Finlandia) che genera flussi volatili, pro
ciclici ed altamente pericolosi. Inoltre espone il paese alle strategie da
free-rider delle multinazionali, che spostano tramite il sistema dei “prezzi
ombra” intergruppo, i benefici che guadagnano sfruttando i beni pubblici locali
(normalmente pagati dai contribuenti) nei paesi a minore impatto fiscale. Del
resto non appare neppure vero che gli investimenti esteri siano credibilmente
un motore di crescita. Al più è il contrario, quando c’è crescita arrivano gli
investimenti a utilizzare la domanda interna che si è generata. In questo modo
provocano un rafforzamento del ciclo ma anche una sua fragilità (dato che al
boom può seguire un repentino boost, l’autore scrive prima del 2008 altrimenti
avrebbe copiosi esempi anche in occidente, ma comunque non gli mancano nei pesi
di convergenza).
Non manca, in questa serrata
critica delle posizioni comuni del neo-liberalismo, l’attacco al primato dell’impresa
privata su quella pubblica (p.125) e della proprietà intellettuale, cioè dell’eccessiva
durata ed estensione dei brevetti che danneggia la distribuzione della
conoscenza e si manifestano come “strumenti per estorcere il reddito” (Martin
Wolf). (p.164)
Una delle parti più
interessanti, comunque, nel lavoro di smontaggio del paradigma liberista
applicato allo sviluppo locale che compie Chang è nella discussione sull’inflazione, o detto in altri
termini, sulla stabilità dei prezzi. Uno
dei dogmi più accuratamente difesi dal paradigma liberista imperante è che l’inflazione
deve essere quanto più vicino possibile ad un numero molto basso (a lungo, in
Europa è prevalsa la linea che quanto più vicina allo zero possibile e comunque
inferiore al 2% dei Trattati, quanto meglio è). Chang, che scrive dall’Inghilterra
e nel 2007, afferma che le cose non stanno così: l’inflazione non è quella
forma di tassazione che sottrae una parte del reddito guadagnato con il lavoro
come sosteneva Milton
Friedman, e non influisce negativamente sullo sviluppo economico. Il
ragionamento secondo il quale l’investimento, essenziale per la crescita,
rifuggirebbe l’incertezza determinata dall’instabilità monetaria è parziale e
soprattutto non considera i mezzi per raggiungerlo. Infatti per tenere
sottocontrollo la moneta sostanzialmente la si raziona, e si contraggono le
spese pubbliche per evitare di “vivere sopra i propri mezzi” (cioè di indebitarsi).
Ma negli anni sessanta e
settanta, dice Chiang, il tasso d’inflazione brasiliano era al 42% all’anno, e
il reddito procapite crebbe in termini reali del 4,2% all’anno (uno dei tassi
più alti al mondo). Quando dopo il 1996 ha abbracciato la teoria neoliberale, l’inflazione
è scesa al 7,2% e il tasso di crescita reale (cioè al netto dell’inflazione) al
1,3% all’anno. La Corea ,
quando cresceva al 7% all’anno, in termini di redditi pro capite, aveva un’inflazione
del 20% all’anno che era più alta della maggioranza dei paesi consimili e
simile a quella Argentina.
Intendiamoci, ci ricorda
l’autore, l’iperinflazione (cioè sopra il 200%, il 300%) è effettivamente distruttiva,
perché rende impossibile la pianificazione economica. Ma l’inflazione tra 1 e
3% di Stanley Fisher non ha invece ragioni puramente economiche (mentre ne ha
diverse in termini distributivi). Persino William Easterly e Michael Bruno, ex
Capo Economista della Banca Mondiale, hanno mostrato che al di sotto del 40%
non ci sono dimostrabili correlazioni tra inflazione e crescita in negativo. Anzi,
entro il 20% sembra che quanto più sia alta l’inflazione, quanto più salga la
crescita.
L’inflazione sarebbe un
effetto di dinamismo (se non una causa), e favorirebbe le attività economiche (forse
in parte incoraggiando ad investire i soldi per non farli erodere). La cosa si
può mettere in questi termini: un basso tasso di inflazione protegge i
risparmi, ma le politiche necessarie per
garantirla danneggiano il lavoro. Infatti si tratta di politiche di
contrazione dell’attività economica, volte specificatamente a far calare la
domanda di lavoro, aumentare la disoccupazione e per questa via ridurre i
salari. Ciò retroagisce sull’attività economica per via di una contrazione
della domanda.
Per i lavoratori, in
particolare, mentre essa stabilizza i redditi presenti impedisce al contempo i
futuri (e la loro crescita); mentre per chi non lavora ma vive di rendita (o di
pensioni) è una benedizione. I renditieri non risentono dei danni al mondo del
lavoro ma fruiscono del beneficio del clima deflazionistico o stabile.
Dunque una politica di
stabilità dei prezzi ha vincitori e vinti.
E che dire dei guardiani? Le Banche
Centrali sono ovviamente orientate ai loro stakeholders, cioè al settore
finanziario al quale sono legate in vario modo (anche biografico); dunque per l’autore
le cose sono semplici, esse “implementano politiche a suo favore [del settore
finanziario] anche a scapito dell’industria manifatturiera e dei lavoratori
dipendenti”.
Vediamo meglio: dall’analisi
tratteggiata, le politiche deflazionistiche, necessarie a garantire la
stabilità dei prezzi, sono come una specie di camicia di contenimento (o meglio
una di quelle fasciature strette che si facevano alle bambine in Cina per
fargli venire i piedi piccoli); impediscono la crescita per paura che diluisca
la ricchezza già accumulata, creandone di nuova. In effetti la stabilità è una
politica per la rendita ed i patrimoni consolidati contro l’industria e i
potenziali nuovi entranti. Una sorta di tassa sul dinamismo della società.
Uno degli effetti a
breve termine, che la rende ben accetta dai proprietari del capitale
industriale, è che disciplina i lavoratori, creando l’esercito di riserva di
disoccupati che serve per tenere sotto pressione al ribasso i salari (e dunque
al rialzo i profitti del capitale, ovviamente); ma si tratta d un ambiguo
vantaggio, l’effetto a medio-lungo termine è che comprime anche la crescita
industriale, che ha bisogno di un ambiente espansivo per rendere produttivi (e
dunque possibili) gli investimenti. Come spesso succede con l’aggregazione di
comportamenti individualmente razionali, ma egoisti, la composizione è
controproducente.
Come noto la soluzione
di questo dilemma, ma a breve termine, come si confà a tutte le miopi politiche
liberiste (che prendono in parola il motto di Keynes: nel lungo periodo saremo
tutti morti, e dunque non se ne occupano), è il mercantilismo. Si cerca un’espansione per via di cattura della domanda
estera. A ciò, tra l’altro rendendo funzionale la deflazione.
E che succede se inizia
una recessione ed esiste una struttura debitoria verso l’estero (tipicamente
verso le banche occidentali, garantite dal FMI)? Che s’impongono politiche
ancora più deflattive, con avanzi primari e alti tassi, per garantire che
comunque i debiti siano pagati. Ricorda qualcosa? A me sì.
Dove cade il punto? Che
queste politiche scontentano la grande maggioranza della popolazione. In fondo
i finanzieri sono pochi, i renditieri comunque una piccola parte della popolazione
(magari un 5%), i capitani d’industria ancora meno. Allora qui nasce l’ultimo
elemento dell’equazione neoliberale: la
democrazia va controllata. Uno dei nodi è rendere indipendenti dalla
democrazia, cioè da chi non è nell’elenco di cui sopra, le Banche Centrali, in
modo che possano rispondere solo agli interessi dei loro stakeholders (come
nell’ottocento i governi rispondevano solo ai proprietari).
In
altre parole, “mercato e democrazia sono in antitesi tra di loro” (p.203). Il rispettivo
principio è infatti: conta una testa o un dollaro? La soluzione proposta dal
pensiero neoliberale, anche in questo miope, è spoliticizzare la democrazia e
screditare la politica.
Quale è, al fine, la
lezione che questo interessante libro cerca di far notare? Che per lo sviluppo,
nei paesi in convergenza (ma mi pare tanto anche per i paesi relativamente
deboli, come il nostro, nei confronti di vicini e concorrenti più forti) “giocare”
su un campo livellato è deleterio. Il campo di gioco livellato nel quale si
confrontino a rugby una squadra femminile di dodicenni con la nazionale
irlandese non è né equo né onesto. Se i giocatori sono diversi la competizione
alla pari è sleale (p. 254). Detto in altro modo, la competizione aperta tra
industrie a diverso livello di sviluppo e supportate da sistemi economici ed
istituzionali (incluso l’ambiente creditizio e regolatorio) diversi, tende a
schiacciare il più debole ed a espellerlo dai mercati più profittevoli. Dunque
tende a schiacciare i fattori produttivi del paese debole e costringerli a
ripiegare sui settori protetti, se ce ne sono, o su quelli nei quali è minore
la concorrenza. Questi sono sempre quelli a minore valore aggiunto e/o
produttività. La concorrenza, dunque, se non sostenuta induce ad una perdita di
competitività e tende a consolidare le condizioni di squilibrio, o ad
aumentarle.
Anche se questo libro è
del 2007, questo è esattamente quel che è successo in Europa, ed in particolare
in Italia, nei sette anni successivi. Basta
guardare i numeri.
Lo stesso autore ha
scritto anche “23 cose che non ti hanno mai
detto del capitalismo” che è del 2010. Vedremo se trae qualche conclusione
(anche se la crisi europea è stata a W e dunque la parte più “istruttiva” è del
2012-14).

Grande questa recensione, arrivo qui da un collegamento di un altro sito e data la validità di quanto scritto presumo che ci siano altri collegamenti, ma qui non ci sono commenti... sarà perchè il sito è stranamente lento?
RispondiEliminaNon so, sinceramente. Ha avuto ca. 150 letture e nessun commento. Ma comunque ci sono sempre pochi commenti, ca 80 su ca 100.000 letture. Sarà colpa mia.
RispondiEliminaLibro molto interessante e consigliato a tutti, poiché grazie alla semplicità di linguaggio e alle numerose metafore che rendono ulteriormente chiara la spiegazio, è alla portata di tutti.
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