Due libri che
non potrebbero essere più opposti, l’energico atto di accusa all’austerità ed
alla sua logica, proposto nel 2012 dal premio nobel americano Paul Krugman, in Fuori
da questa crisi, adesso! e l’altrettanto chiaro ed energico attacco
alla conduzione dell’Euro, da opposta posizione culturale e politica, condotto
dall’economista e finanziere Thilo Sarrazin nello stesso anno, con L’Europa
non ha bisogno dell’Euro.
Entrambi i libri
li abbiamo già letti e dunque possiamo darne per note le reciproche strutture
per concentrarci sulla prosa e la concatenazione di alcuni argomenti centrali.
Per leggere insieme ed in modo intrecciato alcune pagine esemplari.
Krugman parte
rileggendo un famosissimo brano di Keynes del 1930, in cui il grande
economista inglese qualifica la crisi come “un colossale sconquasso”, avendo
“perso il controllo di una macchina delicata di cui non conosciamo i
meccanismi. Il risultato è che le nostre possibilità di ricchezza potrebbero
andare sprecate per un po’ di tempo, forse anche a lungo”.
L’economia della
“grande moderazione” (il periodo ad egemonia liberista dal 1980 al 2008)
pensava invece, immodestamente, che i “meccanismi” fossero stati svelati e che
l’economia fortemente finanziarizzata ed interconnessa potesse procedere ad una
crescita costante e senza scosse, in modo indefinito.
Allora come
adesso si è presentato un ospite inatteso (da alcuni) e sicuramente
indesiderato: una catastrofe economica di enorme portata che ci ha fatto
perdere il controllo. E che, questo è forse il punto fondamentale nel quale le
diverse visioni si divaricano, “spreca” le nostre vite. Per dirlo con le parole
di Krugman “siamo diventati improvvisamente più poveri, ma né le nostre risorse
né le nostre conoscenze si sono indebolite”. Da dove viene questa improvvisa
povertà?
Ci guardiamo
intorno e ci accorgiamo che nulla funziona più come prima. E’ una sorta di
mistero, ma per Krugman, con Keynes, è in effetti abbastanza semplice: si
tratta di un problema di coordinamento, un problema tecnico. Non è un problema morale. Non è una
punizione per eccessi precedenti.
Krugman dice
precisamente questo (p.33) “nello schema generale delle cose, le cause della
nostra sofferenza sono relativamente banali e si potrebbero emendare
rapidamente e piuttosto facilmente se un numero sufficiente di leader
comprendesse certe realtà. Inoltre, per la stragrande maggioranza della gente
il processo di riaggiustamento dell’economia non sarebbe doloroso e non
comporterebbe sacrifici. Al contrario, mettere fine alla depressione sarebbe
un’esperienza rigenerante quasi per tutti, tranne per coloro che sono
politicamente, emotivamente e professionalmente coinvolti in dottrine
economiche fuorvianti”.
Naturalmente
queste “dottrine economiche fuorvianti” sono state influenti, hanno funzionato
benissimo per coloro i quali le hanno proposte e sostenute, e hanno costituito
una sorta di habitat per un’intera generazione politica e direttiva che ora
sopporterebbe il discredito. Politicamente è dunque molto difficile ammetterlo.
Alla fine la
disoccupazione è così alta e l’output economico è così basso per una ragione
semplicissima, per Krugman, “noi non spendiamo abbastanza”. E’ il crollo della
spesa in edilizia e per i consumi (gonfiati dalle spese nel ciclo edilizio e
dal credito facile al consumo, con redditi insufficienti da decenni) che ha
fatto contrarre gli investimenti nel sistema produttivo (perché chiedere
prestiti e investire quando nessuno compra?) e nel pubblico (precipitato in una
crisi fiscale).
Questa
spiegazione per alcuni è ovvia, per altri
sbagliata: la gente deve comunque spendere i suoi soldi in qualcosa, quindi
non può esserci carenza di domanda. Una delle conseguenze più importanti di
questa assunzione (nota come Legge
di Say) è che la spesa pubblica non è utile in quanto riduce
automaticamente una spesa privata (che è, secondo questa posizione, per
definizione più efficiente).
Insomma, la
crisi non esiste e non può esistere.
Sì dopo il
pizzicotto siete ancora svegli; vuol dire che vivente in questo 2014. La crisi
esiste, in effetti, e la domanda è calata ininterrottamente dal 2008. La massa
circolante di denaro è calata, anche se quella immessa nel sistema dalle Banche
Centrali non è mai stata più grande. Le politiche rivolte a favorire
l’industria finanziaria, regalandogli immense quantità di denaro (prestarlo a
tassi reali negativi significa regalarlo), si sono succedute anno dopo anno.
Eppure il credito si è contratto continuamente.
Che succede? Che nelle specifiche
condizioni presenti, con grandi rischi di insolvenza, poche occasioni di
investimento sicure, denaro ottenuto a saggi nulli, e inflazione completamente
ferma, è completamente razionale non mobilitare il denaro e non prestarlo. Ed è
razionale non chiederlo in prestito.
Per Krugman questo è il motore di tutto. Semplice ma
non facile, perché gli investimenti privati non partiranno da soli e per primi;
è un poco come quel film western in cui il pistolero bravissimo ma con un solo
colpo nella pistola, posto davanti ad una folla che lo vuole uccidere dice
<il primo che si muove morirà, il secondo mi ucciderà>. Nessun
imprenditore “muove” per primo per fare solo il bene del secondo.
Allora ci
sarebbe la politica monetaria, che però, ha sparato le sue cartucce, rivelatesi
bagnate. Quindi c’è la famigerata “spesa pubblica” (per investimenti
tipicamente). Che, si dice, farà crescere il debito pubblico “ipotecando il
futuro”. Su questo punto cruciale Krugman (p.166) ricorda che il debito
pubblico non è come il debito della mia famiglia verso la famiglia vicina. E’
del tutto diverso, e non è neppure un debito del presente con il futuro (non è
una macchina
del tempo). E’ un debito di una parte della società con l’altra attraverso lo Stato. E non dovrà mai
essere ripagato, basta tenerlo sotto controllo, continuando ad onorarlo,
accertandosi che cresca meno velocemente del cumulo di crescita economica ed
inflazione. In questo modo calerà da solo. Ogni passività deve infatti necessariamente
avere a fronte un’attività (e qui sorgono i problemi in Europa, o meglio i
conflitti di interesse tra “paesi creditori” e “paesi debitori”, come si troverà
a dire Sarrazin).
Ridimensionato
questo problema, e rifiutando di ragionare in modo moralistico, il nobel
americano ci dice in sostanza che nelle condizioni specifiche della crisi (con
vastissime risorse umane e tecniche inutilizzate) prendere in prestito dai
risparmiatori restii a prestare direttamente alle imprese, un poco di soldi per
mettere al lavoro chi non lo sta facendo, ha un “costo sociale” molto basso. Si
otterrà una ricomposizione del debito da privato (oggi in eccesso) a pubblico, cosa che attenuerà i problemi complessivi
dell’economia.
“La tesi secondo
la quale il debito non può curare il debito è totalmente infondata. Può
benissimo curarlo e l’alternativa è un periodo prolungato di instabilità
economica che rende in realtà di più difficile soluzione il problema del
debito” (p.169). L’alternativa è, insomma, il presente.
Che dice
Sarrazin? Che in Europa è all’opera uno scontro non solo tra un “modello
latino” ed uno “tedesco” di gestione dell’economia, ma anche tra uno stile
“anglosassone” di gestione della crisi ed uno nordico. Stabilità dei prezzi e
controllo dell’inflazione, nella concezione della FED, non sono l’unico
obiettivo né il principale. Nelle condizioni di crisi è più importante crescita
ed occupazione. E, soprattutto, secondo gli economisti anglosassoni c’è una
contraddizione tra volere inflazione sotto controllo e desiderare la presenza
nell’economia di denaro abbondante e a buon mercato.
Lo scontro è
quindi tra chi persegue questa idea (e vuole quindi che la BCE compri i titoli di Stato)
e chi vuole una politica “rigorosa ed indipendente”. (S., p.94). Che cosa fa
una simile politica? Sarrazin, a cui non manca la franchezza, lo dice
chiaramente un paio di pagine dopo, e riferendosi all’azione di Mario Draghi:
la politica monetaria è “utilizzata per disciplinare la politica finanziaria”
(p.99). In altre parole la Banca Centrale
raziona il denaro messo a disposizione, per impedire allo Stato di spendere e
di indebitarsi.
Esattamente il
contrario di quel che Krugman suggerisce. Questa “pressione esterna sulle
decisioni politiche” (cioè sulle decisioni democratiche) è quel che Draghi,
secondo Sarrazin, ha imparato negli anni novanta quando era Direttore Generale
del Ministero del Tesoro Italiano (dal 1991 al 2001).
Abbiamo, quindi, due visioni: nella
prima lo spreco immane di risorse umane e vite, e di capacità produttive,
determinato dall’eccesso di debito privato e dunque dalla somma di decisioni
individuali del tutto razionali (contrarre la spesa individuale), è da
risolvere a tutti i costi. La questione non è morale, non è di disciplina, è di
funzionamento. Una questione pratica.
Dall’altra parte
una posizione che si fatica a non qualificare come idealista (in senso
filosofico): il debito è una colpa che richiede una disciplina, chi l’ha
contratto deve espiare lentamente riassorbendolo tramite la contrazione e la
repressione (nella fattispecie monetaria). La “stabilità” non è altro che
questa priorità al rimborso dei debiti, che sono la parte “cattiva” del
contratto (che qualifica come “vincolo sociale di sottomissione, sostentamento
e tassazione”, p.187) come il credito è quella “buona”. L’economia, per
Sarrazin non è basata sul debito, ma sul risparmio. Dunque, si potrebbe dire,
sui “virtuosi” che disciplinano prima in sé e poi negli altri, sottomettendoli
alla propria regola, gli animi ed i desideri irregolari e turbolenti.
L’economia
anglosassone, fondata sulla piramide crescente dei debiti e l’espansione dei
consumi è contrapposta a quella tedesca, fondata sulla dilazione del desiderio,
l’accumulo dei risparmi e l’avanzo.



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