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giovedì 31 luglio 2014

Pagine: Paul Krugman e Thilo Sarrazin su debiti e crediti.


Due libri che non potrebbero essere più opposti, l’energico atto di accusa all’austerità ed alla sua logica, proposto nel 2012 dal premio nobel americano Paul Krugman, in Fuori da questa crisi, adesso! e l’altrettanto chiaro ed energico attacco alla conduzione dell’Euro, da opposta posizione culturale e politica, condotto dall’economista e finanziere Thilo Sarrazin nello stesso anno, con L’Europa non ha bisogno dell’Euro.
Entrambi i libri li abbiamo già letti e dunque possiamo darne per note le reciproche strutture per concentrarci sulla prosa e la concatenazione di alcuni argomenti centrali. Per leggere insieme ed in modo intrecciato alcune pagine esemplari.

Krugman parte rileggendo un famosissimo brano di Keynes del 1930, in cui il grande economista inglese qualifica la crisi come “un colossale sconquasso”, avendo “perso il controllo di una macchina delicata di cui non conosciamo i meccanismi. Il risultato è che le nostre possibilità di ricchezza potrebbero andare sprecate per un po’ di tempo, forse anche a lungo”.
L’economia della “grande moderazione” (il periodo ad egemonia liberista dal 1980 al 2008) pensava invece, immodestamente, che i “meccanismi” fossero stati svelati e che l’economia fortemente finanziarizzata ed interconnessa potesse procedere ad una crescita costante e senza scosse, in modo indefinito.
Allora come adesso si è presentato un ospite inatteso (da alcuni) e sicuramente indesiderato: una catastrofe economica di enorme portata che ci ha fatto perdere il controllo. E che, questo è forse il punto fondamentale nel quale le diverse visioni si divaricano, “spreca” le nostre vite. Per dirlo con le parole di Krugman “siamo diventati improvvisamente più poveri, ma né le nostre risorse né le nostre conoscenze si sono indebolite”. Da dove viene questa improvvisa povertà?
Ci guardiamo intorno e ci accorgiamo che nulla funziona più come prima. E’ una sorta di mistero, ma per Krugman, con Keynes, è in effetti abbastanza semplice: si tratta di un problema di coordinamento, un problema tecnico. Non è un problema morale. Non è una punizione per eccessi precedenti.
Krugman dice precisamente questo (p.33) “nello schema generale delle cose, le cause della nostra sofferenza sono relativamente banali e si potrebbero emendare rapidamente e piuttosto facilmente se un numero sufficiente di leader comprendesse certe realtà. Inoltre, per la stragrande maggioranza della gente il processo di riaggiustamento dell’economia non sarebbe doloroso e non comporterebbe sacrifici. Al contrario, mettere fine alla depressione sarebbe un’esperienza rigenerante quasi per tutti, tranne per coloro che sono politicamente, emotivamente e professionalmente coinvolti in dottrine economiche fuorvianti”.
Naturalmente queste “dottrine economiche fuorvianti” sono state influenti, hanno funzionato benissimo per coloro i quali le hanno proposte e sostenute, e hanno costituito una sorta di habitat per un’intera generazione politica e direttiva che ora sopporterebbe il discredito. Politicamente è dunque molto difficile ammetterlo.
Alla fine la disoccupazione è così alta e l’output economico è così basso per una ragione semplicissima, per Krugman, “noi non spendiamo abbastanza”. E’ il crollo della spesa in edilizia e per i consumi (gonfiati dalle spese nel ciclo edilizio e dal credito facile al consumo, con redditi insufficienti da decenni) che ha fatto contrarre gli investimenti nel sistema produttivo (perché chiedere prestiti e investire quando nessuno compra?) e nel pubblico (precipitato in una crisi fiscale).
Questa spiegazione per alcuni è ovvia, per altri sbagliata: la gente deve comunque spendere i suoi soldi in qualcosa, quindi non può esserci carenza di domanda. Una delle conseguenze più importanti di questa assunzione (nota come Legge di Say) è che la spesa pubblica non è utile in quanto riduce automaticamente una spesa privata (che è, secondo questa posizione, per definizione più efficiente).
Insomma, la crisi non esiste e non può esistere.


Sì dopo il pizzicotto siete ancora svegli; vuol dire che vivente in questo 2014. La crisi esiste, in effetti, e la domanda è calata ininterrottamente dal 2008. La massa circolante di denaro è calata, anche se quella immessa nel sistema dalle Banche Centrali non è mai stata più grande. Le politiche rivolte a favorire l’industria finanziaria, regalandogli immense quantità di denaro (prestarlo a tassi reali negativi significa regalarlo), si sono succedute anno dopo anno. Eppure il credito si è contratto continuamente.
Che succede? Che nelle specifiche condizioni presenti, con grandi rischi di insolvenza, poche occasioni di investimento sicure, denaro ottenuto a saggi nulli, e inflazione completamente ferma, è completamente razionale non mobilitare il denaro e non prestarlo. Ed è razionale non chiederlo in prestito.
Per Krugman questo è il motore di tutto. Semplice ma non facile, perché gli investimenti privati non partiranno da soli e per primi; è un poco come quel film western in cui il pistolero bravissimo ma con un solo colpo nella pistola, posto davanti ad una folla che lo vuole uccidere dice <il primo che si muove morirà, il secondo mi ucciderà>. Nessun imprenditore “muove” per primo per fare solo il bene del secondo.
Allora ci sarebbe la politica monetaria, che però, ha sparato le sue cartucce, rivelatesi bagnate. Quindi c’è la famigerata “spesa pubblica” (per investimenti tipicamente). Che, si dice, farà crescere il debito pubblico “ipotecando il futuro”. Su questo punto cruciale Krugman (p.166) ricorda che il debito pubblico non è come il debito della mia famiglia verso la famiglia vicina. E’ del tutto diverso, e non è neppure un debito del presente con il futuro (non è una macchina del tempo). E’ un debito di una parte della società con l’altra attraverso lo Stato. E non dovrà mai essere ripagato, basta tenerlo sotto controllo, continuando ad onorarlo, accertandosi che cresca meno velocemente del cumulo di crescita economica ed inflazione. In questo modo calerà da solo. Ogni passività deve infatti necessariamente avere a fronte un’attività (e qui sorgono i problemi in Europa, o meglio i conflitti di interesse tra “paesi creditori” e “paesi debitori”, come si troverà a dire Sarrazin).
Ridimensionato questo problema, e rifiutando di ragionare in modo moralistico, il nobel americano ci dice in sostanza che nelle condizioni specifiche della crisi (con vastissime risorse umane e tecniche inutilizzate) prendere in prestito dai risparmiatori restii a prestare direttamente alle imprese, un poco di soldi per mettere al lavoro chi non lo sta facendo, ha un “costo sociale” molto basso. Si otterrà una ricomposizione del debito da privato (oggi in eccesso) a pubblico, cosa che attenuerà i problemi complessivi dell’economia.
“La tesi secondo la quale il debito non può curare il debito è totalmente infondata. Può benissimo curarlo e l’alternativa è un periodo prolungato di instabilità economica che rende in realtà di più difficile soluzione il problema del debito” (p.169). L’alternativa è, insomma, il presente.


Che dice Sarrazin? Che in Europa è all’opera uno scontro non solo tra un “modello latino” ed uno “tedesco” di gestione dell’economia, ma anche tra uno stile “anglosassone” di gestione della crisi ed uno nordico. Stabilità dei prezzi e controllo dell’inflazione, nella concezione della FED, non sono l’unico obiettivo né il principale. Nelle condizioni di crisi è più importante crescita ed occupazione. E, soprattutto, secondo gli economisti anglosassoni c’è una contraddizione tra volere inflazione sotto controllo e desiderare la presenza nell’economia di denaro abbondante e a buon mercato.
Lo scontro è quindi tra chi persegue questa idea (e vuole quindi che la BCE compri i titoli di Stato) e chi vuole una politica “rigorosa ed indipendente”. (S., p.94). Che cosa fa una simile politica? Sarrazin, a cui non manca la franchezza, lo dice chiaramente un paio di pagine dopo, e riferendosi all’azione di Mario Draghi: la politica monetaria è “utilizzata per disciplinare la politica finanziaria” (p.99). In altre parole la Banca Centrale raziona il denaro messo a disposizione, per impedire allo Stato di spendere e di indebitarsi.
Esattamente il contrario di quel che Krugman suggerisce. Questa “pressione esterna sulle decisioni politiche” (cioè sulle decisioni democratiche) è quel che Draghi, secondo Sarrazin, ha imparato negli anni novanta quando era Direttore Generale del Ministero del Tesoro Italiano (dal 1991 al 2001).

Abbiamo, quindi, due visioni: nella prima lo spreco immane di risorse umane e vite, e di capacità produttive, determinato dall’eccesso di debito privato e dunque dalla somma di decisioni individuali del tutto razionali (contrarre la spesa individuale), è da risolvere a tutti i costi. La questione non è morale, non è di disciplina, è di funzionamento. Una questione pratica.

Dall’altra parte una posizione che si fatica a non qualificare come idealista (in senso filosofico): il debito è una colpa che richiede una disciplina, chi l’ha contratto deve espiare lentamente riassorbendolo tramite la contrazione e la repressione (nella fattispecie monetaria). La “stabilità” non è altro che questa priorità al rimborso dei debiti, che sono la parte “cattiva” del contratto (che qualifica come “vincolo sociale di sottomissione, sostentamento e tassazione”, p.187) come il credito è quella “buona”. L’economia, per Sarrazin non è basata sul debito, ma sul risparmio. Dunque, si potrebbe dire, sui “virtuosi” che disciplinano prima in sé e poi negli altri, sottomettendoli alla propria regola, gli animi ed i desideri irregolari e turbolenti.


L’economia anglosassone, fondata sulla piramide crescente dei debiti e l’espansione dei consumi è contrapposta a quella tedesca, fondata sulla dilazione del desiderio, l’accumulo dei risparmi e l’avanzo. 

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