Sul Corriere della Sera, l’influente
opinionista Alberto Alesina ritorna
sulla polemica in corso sulla riduzione della spesa, consigliando al Governo
Renzi di modificare il passo e cambiare l’ordine delle sue priorità. 
Cerca, insomma,
di dettargli un’Agenda fatta di “meno tasse, più flessibilità, più concorrenza,
meno spesa pubblica”. Secondo il suo noto punto di vista (cd. “dell’austerità
espansiva”) la riduzione della spesa non ha effetti depressivi, in quanto ciò
che non spende lo Stato (se viene rimesso in tasca ai privati tramite una
riduzione delle tasse in particolare alle imprese) sarà speso dai privati,
mentre la riduzione delle tasse è sempre positiva. L’austerità (che consiste
essenzialmente in meno spese e minore utilizzo della leva del debito) nel
momento in cui crea lo spazio per ridurre le tasse e per rassicurare i mercati (cioè
i creditori) sulla sostenibilità dei loro crediti con lo Stato, ha un combinato
effetto espansivo. 
Questa teoria,
ormai da più parti (es. Bradford de Long sul Sole
24 Ore, Realfonso sul Fatto
Quotidiano, Bogliacino su Roar
circa la connessa polemica Rainhart e Rogoff, Finding su Alesina sul Rooswelt
Institute, etc) ampiamente criticata, e demolita nella sua base empirica (i
dati erano alquanto aggiustati, ma questo succede quando si ha una idea molto
forte di partenza) fonda su una intensa base di presupposti impliciti. Tra
questi, andando un poco a caso: che i decisori individuali siano onniscenti e
perfettamente razionali, che le decisioni siano sempre a lungo termine e le
azioni non risentano della scarsità, che il credito sia internazionale mentre la
spesa resti entro i confini, e via dicendo. In realtà non tutti hanno il
cospicuo stipendio del Prof. Alesina e dunque a
volte sono indotti a guardare più vicino e a fare scelte meno ottimali a
livello aggregato. 
Nell’Agenda-Alesina,
che ricorda molto da vicino gli eterni topos della destra storica, “meno tasse”
ha un significato ed un funzionamento molto diverso a seconda di chi sia il
bersaglio: meno tasse agli incapienti (cioè una “tassa negativa”, ovvero un
reddito di cittadinanza che equilibri le tasse indirette ed implicite che
comunque paga chiunque) avrebbe un effetto abbastanza espansivo della domanda
aggregata. “Più flessibilità” che va insieme a “più concorrenza”, può avere un
effetto abbastanza diverso ai diversi comparti economici e attori sociali, la
concorrenza implica sempre che qualcuno sia sconfitto e distrutto, costretto ad
uscire dal mercato ed a perdere le sue basi di esistenza; la flessibilità è una
ottima cosa per un laureato con Phd con enormi opportunità e cospicuo conto in
banca (proprio o dei genitori), alquanto altro per un ex lavoratore (o mai
lavoratore) con scarse risorse. Nel contesto reale di contrazione costante
della forza lavoro attiva e di competizione ineguale nel quadro dell’Euro,
questa parte dell’Agenda neoliberale va ben dosata. Non escludo in via assoluta
possa, in dose omeopatiche, essere utile e anche opportuna, ma in quelle da cavallo
usualmente praticate fa danni enormi, certi ed immediati a fronte di promesse
aleatorie, improbabili e lontane. Sull’Euro ed i suoi vincoli, del resto si può
anche confrontare il pezzo dello stesso Alesina nel 1997
.
Ultima parte
dell’Agenda è “meno spesa pubblica”. Almeno ha il pregio non mandarlo a dire.
Questo ultimo anello, perfettamente coerente con gli altri, implica che la
spesa del pubblico sia sempre cattiva e recessiva, mentre quella del privato
sia perfettamente sostitutiva e più espansiva. Un’ipotesi che in pratica nega
che possa esistere una cosa come un calo dei consumi indotto dalla carenza di
spesa privata. O meglio, l’attribuisce interamente ad un problema di tassazione
(in qualche modo dimenticando che i soldi prelevati per le tasse sono
interamente spesi e restituiti alla fine al sistema privato. Sono tutti privati
i fornitori dello Stato). La cosa è un poco più complessa, in quanto qui è all’opera
una ipotesi collegata, anche essa tradizionale: che la spesa privata, sia guidata
da un mercato che determina i corretti prezzi alle cose, è esente da distorsioni,
e dunque ottiene automaticamente la massima allocazione dei fattori produttivi
ed il loro pieno utilizzo. Invece il pubblico, operando con prezzi
amministrati, o comunque influenzati politicamente, determina una distribuzione
dei fattori produttivi sempre inefficiente. Avremo risorse poco utilizzate ed
altre sovrasfruttate. Nell’insieme cala la produttività e dunque la ricchezza.
Una tesi che ha
trionfato negli anni in cui il mercato sembrava ottenere un successo dopo l’altro,
con una espansione costante delle patrimonializzazioni di borsa e dei
patrimoni, e una crescita del PIL nominale costante. Ma una tesi che oggi, nel
mezzo della crisi economica e sociali più grande di sempre, appare alquanto
ottimista. 
Lo Stato fa
tanti errori, e determina tante allocazioni inefficienti, che vanno
costantemente rinvenute e condannate. Ma il mercato ne fa altrettanti, per
certi versi più gravi: distrugge immense risorse umane e materiali, dimentica
il futuro per vivere solo nel presente, distribuisce le risorse a vantaggio di
pochi e tende a concentrarle sempre di più (come mostra Piketty). 
Ovviamente Stato
e Mercato hanno diversi “clienti”, e avvantaggiano tendenzialmente gruppi
sociali diversi (parzialmente e non sempre). Dunque il problema essenzialmente
è di conflitto distributivo.
La questione è
dunque di guardare dentro le cose, non di imporre Agende prefatte dall’alto di
teorie che viaggiano sulle nuvole. 
Ma torniamo ad Alesina, il nostro sostiene che Renzi
doveva andare a Bruxelles dopo aver tagliato le imposte sul lavoro (e in parte,
in effetti, lo ha fatto, ma dalla parte “sbagliata”) e aver aumentato la
flessibilità (essenzialmente “in uscita”) insieme a riduzioni della spesa. Un
piano ad integrale vantaggio del mercato concorrenziale (cioè degli industriali
dediti alle esportazioni). A quel punto l’Europa avrebbe “concesso” più
flessibilità sui vincoli. 
Poiché l’economia
giustamente non aspetta ed il PIL è stagnante mentre la disoccupazione sale,
per Alesina vuol dire che il Premier “ha sbagliato la sequenza delle sue mosse”.
Doveva imporre “a
forza di colpi di fiducia” la medicina amara al popolo italiano ed al
Parlamento sovrano per andare a Bruxelles con il “coraggioso piano economico
approvato”. Solo dopo le riforme istituzionali. 
Io sono
abbastanza d’accordo che le riforme istituzionali dovevano essere affrontate
solo dopo una energica e coraggiosa manovra economica, e un riassetto del
sistema della funzione pubblica oltre che della concorrenza ne faceva parte, ma
il mio accordo finisce qui.
La manovra
economica doveva essere “coraggiosa” verso l’unione europea a giuda tedesca (e
nordica), non verso il Parlamento sovrano. Il Governo doveva cercare alleanze
sociali estese intorno ad un nuovo progetto di società inclusiva, un new deal,
e portare a Bruxelles la volontà sovrana del popolo italiano e la propria
determinazione. Il famoso deficit del 3% del rapporto con il PIL è un cappio
che va affrontato nel tempo (almeno dieci anni) e dal lato del PIL.
Altrimenti si
resta nella trappola che lo stesso Alesina vedeva nel 1997, e l’inevitabile manovra
di autunno avrà lo stesso segno delle precedenti. Creerà maggiore pressione
sulla spesa, per effetto dei suoi effetti devastanti sul piano sociale e del
lavoro, aumenterà i fallimenti, i licenziamenti, farà calare i versamenti all’INPS,
farà aumentare le spese per gli ammortizzatori, farà calare il gettito fiscale
malgrado l’aumento della pressione. 
Non sono solo le
nuove imposte ad avere “effetti negativi per la crescita”, ma anche la
riduzione della spesa (magari in modo lineare) lo avrà. In queste condizioni di
“Trappola della liquidità”, infatti la spesa pubblica non viene sostituita. 
Urge trovare la
quadra. 

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