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sabato 2 agosto 2014

Alberto Alesina, “Se parlassimo un poco spagnolo”


Sul Corriere della Sera, l’influente opinionista Alberto Alesina ritorna sulla polemica in corso sulla riduzione della spesa, consigliando al Governo Renzi di modificare il passo e cambiare l’ordine delle sue priorità.


Cerca, insomma, di dettargli un’Agenda fatta di “meno tasse, più flessibilità, più concorrenza, meno spesa pubblica”. Secondo il suo noto punto di vista (cd. “dell’austerità espansiva”) la riduzione della spesa non ha effetti depressivi, in quanto ciò che non spende lo Stato (se viene rimesso in tasca ai privati tramite una riduzione delle tasse in particolare alle imprese) sarà speso dai privati, mentre la riduzione delle tasse è sempre positiva. L’austerità (che consiste essenzialmente in meno spese e minore utilizzo della leva del debito) nel momento in cui crea lo spazio per ridurre le tasse e per rassicurare i mercati (cioè i creditori) sulla sostenibilità dei loro crediti con lo Stato, ha un combinato effetto espansivo.
Questa teoria, ormai da più parti (es. Bradford de Long sul Sole 24 Ore, Realfonso sul Fatto Quotidiano, Bogliacino su Roar circa la connessa polemica Rainhart e Rogoff, Finding su Alesina sul Rooswelt Institute, etc) ampiamente criticata, e demolita nella sua base empirica (i dati erano alquanto aggiustati, ma questo succede quando si ha una idea molto forte di partenza) fonda su una intensa base di presupposti impliciti. Tra questi, andando un poco a caso: che i decisori individuali siano onniscenti e perfettamente razionali, che le decisioni siano sempre a lungo termine e le azioni non risentano della scarsità, che il credito sia internazionale mentre la spesa resti entro i confini, e via dicendo. In realtà non tutti hanno il cospicuo stipendio del Prof. Alesina e dunque a volte sono indotti a guardare più vicino e a fare scelte meno ottimali a livello aggregato.
Nell’Agenda-Alesina, che ricorda molto da vicino gli eterni topos della destra storica, “meno tasse” ha un significato ed un funzionamento molto diverso a seconda di chi sia il bersaglio: meno tasse agli incapienti (cioè una “tassa negativa”, ovvero un reddito di cittadinanza che equilibri le tasse indirette ed implicite che comunque paga chiunque) avrebbe un effetto abbastanza espansivo della domanda aggregata. “Più flessibilità” che va insieme a “più concorrenza”, può avere un effetto abbastanza diverso ai diversi comparti economici e attori sociali, la concorrenza implica sempre che qualcuno sia sconfitto e distrutto, costretto ad uscire dal mercato ed a perdere le sue basi di esistenza; la flessibilità è una ottima cosa per un laureato con Phd con enormi opportunità e cospicuo conto in banca (proprio o dei genitori), alquanto altro per un ex lavoratore (o mai lavoratore) con scarse risorse. Nel contesto reale di contrazione costante della forza lavoro attiva e di competizione ineguale nel quadro dell’Euro, questa parte dell’Agenda neoliberale va ben dosata. Non escludo in via assoluta possa, in dose omeopatiche, essere utile e anche opportuna, ma in quelle da cavallo usualmente praticate fa danni enormi, certi ed immediati a fronte di promesse aleatorie, improbabili e lontane. Sull’Euro ed i suoi vincoli, del resto si può anche confrontare il pezzo dello stesso Alesina nel 1997 .

Ultima parte dell’Agenda è “meno spesa pubblica”. Almeno ha il pregio non mandarlo a dire. Questo ultimo anello, perfettamente coerente con gli altri, implica che la spesa del pubblico sia sempre cattiva e recessiva, mentre quella del privato sia perfettamente sostitutiva e più espansiva. Un’ipotesi che in pratica nega che possa esistere una cosa come un calo dei consumi indotto dalla carenza di spesa privata. O meglio, l’attribuisce interamente ad un problema di tassazione (in qualche modo dimenticando che i soldi prelevati per le tasse sono interamente spesi e restituiti alla fine al sistema privato. Sono tutti privati i fornitori dello Stato). La cosa è un poco più complessa, in quanto qui è all’opera una ipotesi collegata, anche essa tradizionale: che la spesa privata, sia guidata da un mercato che determina i corretti prezzi alle cose, è esente da distorsioni, e dunque ottiene automaticamente la massima allocazione dei fattori produttivi ed il loro pieno utilizzo. Invece il pubblico, operando con prezzi amministrati, o comunque influenzati politicamente, determina una distribuzione dei fattori produttivi sempre inefficiente. Avremo risorse poco utilizzate ed altre sovrasfruttate. Nell’insieme cala la produttività e dunque la ricchezza.
Una tesi che ha trionfato negli anni in cui il mercato sembrava ottenere un successo dopo l’altro, con una espansione costante delle patrimonializzazioni di borsa e dei patrimoni, e una crescita del PIL nominale costante. Ma una tesi che oggi, nel mezzo della crisi economica e sociali più grande di sempre, appare alquanto ottimista.
Lo Stato fa tanti errori, e determina tante allocazioni inefficienti, che vanno costantemente rinvenute e condannate. Ma il mercato ne fa altrettanti, per certi versi più gravi: distrugge immense risorse umane e materiali, dimentica il futuro per vivere solo nel presente, distribuisce le risorse a vantaggio di pochi e tende a concentrarle sempre di più (come mostra Piketty).
Ovviamente Stato e Mercato hanno diversi “clienti”, e avvantaggiano tendenzialmente gruppi sociali diversi (parzialmente e non sempre). Dunque il problema essenzialmente è di conflitto distributivo.

La questione è dunque di guardare dentro le cose, non di imporre Agende prefatte dall’alto di teorie che viaggiano sulle nuvole.

Ma torniamo ad Alesina, il nostro sostiene che Renzi doveva andare a Bruxelles dopo aver tagliato le imposte sul lavoro (e in parte, in effetti, lo ha fatto, ma dalla parte “sbagliata”) e aver aumentato la flessibilità (essenzialmente “in uscita”) insieme a riduzioni della spesa. Un piano ad integrale vantaggio del mercato concorrenziale (cioè degli industriali dediti alle esportazioni). A quel punto l’Europa avrebbe “concesso” più flessibilità sui vincoli.

Poiché l’economia giustamente non aspetta ed il PIL è stagnante mentre la disoccupazione sale, per Alesina vuol dire che il Premier “ha sbagliato la sequenza delle sue mosse”.
Doveva imporre “a forza di colpi di fiducia” la medicina amara al popolo italiano ed al Parlamento sovrano per andare a Bruxelles con il “coraggioso piano economico approvato”. Solo dopo le riforme istituzionali.
Io sono abbastanza d’accordo che le riforme istituzionali dovevano essere affrontate solo dopo una energica e coraggiosa manovra economica, e un riassetto del sistema della funzione pubblica oltre che della concorrenza ne faceva parte, ma il mio accordo finisce qui.
La manovra economica doveva essere “coraggiosa” verso l’unione europea a giuda tedesca (e nordica), non verso il Parlamento sovrano. Il Governo doveva cercare alleanze sociali estese intorno ad un nuovo progetto di società inclusiva, un new deal, e portare a Bruxelles la volontà sovrana del popolo italiano e la propria determinazione. Il famoso deficit del 3% del rapporto con il PIL è un cappio che va affrontato nel tempo (almeno dieci anni) e dal lato del PIL.

Altrimenti si resta nella trappola che lo stesso Alesina vedeva nel 1997, e l’inevitabile manovra di autunno avrà lo stesso segno delle precedenti. Creerà maggiore pressione sulla spesa, per effetto dei suoi effetti devastanti sul piano sociale e del lavoro, aumenterà i fallimenti, i licenziamenti, farà calare i versamenti all’INPS, farà aumentare le spese per gli ammortizzatori, farà calare il gettito fiscale malgrado l’aumento della pressione.
Non sono solo le nuove imposte ad avere “effetti negativi per la crescita”, ma anche la riduzione della spesa (magari in modo lineare) lo avrà. In queste condizioni di “Trappola della liquidità”, infatti la spesa pubblica non viene sostituita.

Urge trovare la quadra.


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