Pagine

lunedì 11 agosto 2014

Mariana Mazzucato “Lo Stato innovatore”


L’economista Mariana Mazzucato insegna Economia dell’Innovazione in Inghilterra ed ha una tesi molto forte e determinata sul ruolo dello Stato nella promozione dell’innovazione tecnologica: è indispensabile.
Il vero agente dell’innovazione non è il mercato, o le grandi aziende multinazionali, oppure gli eroi celebrati, i garage dai quali sono partiti, neppure i fondi speculativi: è lo Stato. La ragione è semplice in effetti, per produrre innovazione vera ci vuole coraggio. Bisogna essere disposti a perdere e bisogna avere molta pazienza, a volte decenni.

Per non aspettarsi troppo dal libro bisogna comprendere di cosa parla, l’innovazione di cui il testo tratta è essenzialmente quella tecnologica, derivata dalla ricerca di base e produttrice di prodotti radicalmente nuovi, capaci di innalzare in modo significativo l’efficacia e la produttività. Cioè quella che ha introdotto nelle nostre vite dispositivi come l’i-pad, internet, ma anche le applicazioni tecnologiche meno visibili derivanti dalle biotecnologie, dai nanomateriali, oppure la svolta “green” in corso con le sue tecnologie caratteristiche.
Questa forma di innovazione è legata, secondo una illustre tradizione, alla crescita della produttività e la spiega in gran parte. La crescita, in altre parole, è determinata in ultima analisi (ovvero nel lungo periodo e nell’insieme) dalla capacità delle tecnologie di aumentare l’output (i prodotti e i servizi) a parità di capitale e lavoro applicati. Secondo la teoria di Grossman e Helpman, 1991, la tecnologia deriva dall’applicazione di R&S e di istruzione. Le cose, però, non sono così semplici, secondo Mazzuccato non conta tanto il mero livello quantitativo di R&S, ma il modo in cui questa si determina e distribuisce in <sistemi di innovazione>; la dinamica non si può modellizzare in quanto essenzialmente influenzata dalla circolazione delle idee, della conoscenza e la loro diffusione nell’economia in modo utilizzabile. Ciò che conta è allora la rete di relazioni nella quale si genera una reciproca fertilizzazione in grado di accrescere e sedimentare le competenze.

Questa concettualizzazione rende comprensibile il motivo per il quale, per l’economista italiano, l’innovazione diventa distruttiva (e dunque genera crescita) all’intersezione tra serbatoi di conoscenza e di ricerca pubblici (caratterizzati da investimenti massicci, rischiosi e pazienti) e applicazioni sviluppate da innovatori privati che li trasferiscono nel mercato. In fondo questa relazione tra lento e rapido, tra paziente e veloce, tra pubblico e privato, è valorizzata nell’intero libro, anche dove è criticata per la tentazione di alcuni di utilizzarla in modo parassitario. Il libro invita, in effetti, a guardare a questa dinamica con occhi attenti da entrambe le parti, cercando di promuoverla e proteggerla.
In tutti gli esempi più noti, dalle ferrovie alle nanotecnologie, dalla farmaceutica a internet, è lo Stato che ha condotto per primo e con più determinazione gli investimenti “imprenditoriali” che, con il loro coraggio e determinazione, hanno reso possibile rivitalizzare il dinamismo dell’economia capitalista. Il rimprovero che l’autore eleva quindi ai capitalisti contemporanei, tutti presi a ridurre il ruolo dello Stato e sottrargli risorse, è di non accorgersene. In un certo senso di essere tutti assorti a segare il ramo su cui siedono.
Lo Stato, in effetti, non si limita a correggere gli errori del mercato, ne crea di nuovi. Si è impegnato in molte occasioni a creare “tecnologie di uso generale” come la produzione in serie, le tecnologie aviatorie, quelle spaziali, l’informatica ed internet. Ma non solo in questo, si è anche impegnato in modo decisivo nella creazione degli ambienti innovativi di maggiore successo. Un esempio abbastanza noto è la “Silicon Valley”, che lungi dall’essere la spontanea aggregazione di innovatori di talento è un intenzionale modello finanziato da enormi risorse federali, concentrazione di Università di prestigio, costanti commesse militari, strategie aziendali in parte spontanee ed in parte incentivate. Poi, è chiaro, entrano in gioco gli effetti di rafforzamento di cui parla anche Moretti nel suo libro sul lavoro che sotto alcuni aspetti è leggibile in parallelo (anche in parziale opposizione, con la sua enfasi sul ruolo degli innovatori privati).
Una delle caratteristiche più importanti del capitale pubblico è la sua “pazienza”: mentre il capitale privato, odia l’incertezza ed i tempi lunghi che sono intrinsechi ai processi di innovazione, il capitale pubblico può permettersi di aspettare e anche di fallire. L’innovazione, infatti, per determinarsi deve superare molte sfide che possono in ogni momento essere perse. Non si può evitare, se una ricerca è innovativa per definizione il suo risultato non è noto a priori.

Naturalmente in una economia matura non tutti i settori sono altrettanto esposti all’innovazione tecnologica e quindi non tutti si giovano nello stesso modo degli investimenti in R&S ed in “sistemi di innovazione”. Un esempio è la struttura socioproduttiva inglese, che è specializzata in servizi finaziari, edilizia e industrie di intrattenimento che non si giovano degli investimenti in ricerca tecnologica. Fissare, dunque, un mero obiettivo quantitativo (ad esempio l’europeo 3% del PIL) può avere un senso molto diverso da paese a paese.
Da questa considerazione la Mazzucato avvia una serrata critica ai falsi miti che ostacolano la crescita, restituendo una visione errata dell’innovazione e del ruolo dello Stato in essa:
    -         Che dipenda dalla R&S, e che direttamente da questa dipenda quindi la crescita; si tratta di una visione semplificatoria che può condurre fuori strada. In alcuni casi troppa R&S, in assenza delle risorse complementari che la possono tradurre in innovazione, può essere controproducente, assorbendo risorse utili. In alcuni casi un trasferimento tecnologico o “aggiornamento” può essere più utile.
    -         Che il “piccolo” sia sempre più efficiente; se le piccole imprese possono essere importanti per sostenere l’occupazione (ma naturalmente solo se crescono), destinare risorse a pioggia a tutte può essere distraente (p.67).
     -         Che il Venture Capital ami il rischio; ovviamente è il contrario, ama i piccoli rischi ed i rientri veloci. Odia l’incertezza ed i tempi lunghi. Considerando (tab. 2, p.71) che in un investimento innovativo nella fase di avviamento il rischio di perdere è alto (66%), mentre nelle successive fasi di lancio scende via via al 50% e al 33% (seconda fase) e 20% (terza fase), .. quel che succede è che nelle prime fasi  operano i capitali pazienti del pubblico e solo quando il rischio è calato (e si intravedono i profitti) entrano i capitali “di rischio” privati.
     -         Che il numero dei brevetti sia direttamente legato all’innovazione e ne sia indicatore; non è così, e questo è anche abbastanza ovvio, ci sono brevetti significativi ed altri meno.
     -         Che in Europa ci sia un deficit di capacità di commercializzazione rispetto agli USA; in realtà gli spin off e le relazioni tra imprese e università sono simili nei due ambienti, ma gli USA si fa semplicemente più ricerca in più luoghi e questo crea una maggiore circolazione. L’Europa è in genere molto forte nella produzione scientifica di alto livello, meno nella conversione in “innovazioni capaci di generare ricchezza” (cioè quella sulla quale il libro è focalizzato).
    -         Che le aziende investono solo se ci sono meno tasse e meno burocrazia; poiché non esiste una relazione lineare tra R&S, innovazione e crescita economica le cose sono molto più complesse. Si può dimostrare al contrario che le riduzioni delle tasse compiute dagli anni ottanta si sono di fatto accompagnati a riduzioni degli investimenti in R&S da parte delle aziende. In realtà non ci sono facili indicatori misurabili che possano catturare la relazione.

Ciò che realmente succede nelle pratiche di innovazione tecnologica radicale è che lo Stato sostiene ingenti investimenti, diretti ed indiretti, tramite una vasta serie di istituzioni dedicate e appalti di ricerca (talvolta con finalità militari) e nel fare ciò letteralmente “crea” nuovi mercati e nuove aree di sviluppo per il capitale privato. La Mazzucato è prodiga di esempi: il Giappone (p.58) con il suo vasto approccio sinergico; il NIH negli USA (p.98), con i suoi 300 miliardi di dollari investiti in ricerca medica tramite 3.000 università e centri di ricerca e oltre 300.000 ricercatori; il DARPA negli USA (p. 112) con le sue commesse militari portate avanti per decenni e centrali per lo sviluppo di decine di tecnologie essenziali nel nostro presente; il NNI (p. 118) e le sue ricerche sui nanomateriali volute da Clinton.
Il testo poi si concentra sul caso della Apple, mostrando come la sua concentrazione sulla qualità e sul lungo periodo si sia fondata letteralmente su un package di tecnologie tutte sviluppate dal pubblico (p.124, 143, 245). La sua indubbia creatività si è concentrata nell’assemblaggio e nella commercializzazione di opportunità tecnologiche che erano state sviluppare anche con decenni di ricerca di base condotta in laboratori e università pubbliche.

Poi c’è il caso della “rivoluzione verde”, un gigantesco sforzo, condotto dai paesi di tutto il mondo, per trasformare una infrastruttura esistente e di fondamentale importanza come quella energetica che dispone di enormi “costi sommersi” che andrebbero irrimediabilmente persi se si interrompesse l’utilizzo dell’infrastruttura. Questa condizione rende necessario, se si vuole transitare in una economia più sostenibile e più sicura (energeticamente), sostenere a lungo le tecnologie e le aziende innovative che le utilizzano, come i mercati in cui operano. Ciò con politiche orientate alla domanda (cioè a creare una domanda dei beni e servizi sostenibili) e all’offerta (rivolte a favorire la produzione di tecnologie e servizi sostenibili).
L’effetto di tale schema produce i suoi effetti sull’innovazione quando determina la comparsa di prodotti a costo più basso e rendimento più alto. E’ ciò che è successo in modo impressionante con le tecnologie “distruttive” (per i costi sommersi della industria tradizionale) del fotovoltaico e dell’eolico. Il problema di un “costo sommerso” (come l’enorme infrastruttura logistica rivolta ad estrarre, trasportare ed utilizzare le energie fossili) è che è irrecuperabile. Ma come mostra la letteratura economica e la teoria delle decisioni connessa, è razionale non tenere conto di questo costo, una volta che la decisione di oltrepassarlo è presa. Indugiare comporta solo la distruzione di entrambi gli investimenti.
Uno degli aspetti che l’economista angloitaliano mette in evidenza è che per cambiare un sistema dotato della straordinaria inerzia e dei colossali investimenti non recuperabili come quello energetico c’è bisogno di molti cambiamenti collettivi la cui precondizione è un impegno serio, coraggioso e continuo da parte della parte pubblica, per superare l’iniziale stadio dell’incertezza (sia tecnologia sia economica).
Ma lo sforzo creerà anche un’opportunità del tutto nuova: quella di digitalizzare anche le reti energetiche, rendendole “intelligenti”. Questo consente, anche in questo cruciale settore, il pieno dispiegamento della rivoluzione informatica. Le conseguenze possono essere enormi: per Perez si arriverà a interessare l’intero settore della manutenzione, e del consumo, affrontandolo “a suon di software”. Secondo le parole della Mazzucato: “con il tempo e un’ampia penetrazione, la rete intelligente potrebbe cambiare il nostro modo di concepire l’energia, creare nuove opportunità commerciali e migliorare l’economia delle energie rinnovabili grazie all’introduzione di nuovi strumenti per una gestione ottimale dell’offerta di energia e della risposta alla domanda” (p.167).
Uno degli ostacoli più grandi che il testo individua è che i mercati dell’energia sono dominati da alcune delle più grandi aziende del pianeta “generalmente poco inclini a innovare” (dati i costi “sommersi”); imprese che operano in un mercato in cui la “merce” non è differenziata realmente (un barile di petrolio è un prodotto simile, e un kWh uguale). La conseguenza è che il fattore dirimente resta per loro solo il prezzo. Queste aziende sono quindi impreparate culturalmente ed economicamente alla logica della rivoluzione verde.
Ora, le nuove tecnologie sono dirompenti perché modificano i mezzi di produzione e costano di più al momento, ma non includono costi impliciti come la distruzione del pianeta o la dipendenza strategica dalla Russia (nel caso Europeo). Si tratta di un completo cambio di discorso, a volte nello scontro dei linguaggi e delle posizioni tra l’industria tradizionale e quella “green” si percepisce un muro di reciproca incomprensione fondato anche su questa diversa apertura.

In conclusione, per l’autore l’innovazione tecnologica (o quella di processo come nel caso della generazione di energia rinnovabile) è sempre trainata nella fase di lancio dallo Stato per una ragione strutturale precisa: il capitale e le imprese private sono timide e frettolose. Hanno paura del rischio e hanno fretta (in particolare da quando ha prevalso una logica finanziaria e la cultura della remunerazione dell’azionista). Quindi arrivano sempre “dopo” che lo Stato ha predisposto l’innovazione per cogliere i frutti maturi. Si ottiene in sostanza una privatizzazione dei benefici a fronte della pubblicizzazione dei rischi. Un simile atteggiamento può essere “sinergico” o “parassitario” a seconda di come venga portato.

Se l’industria, come fa l’Apple, dopo aver sfruttato tecnologie sviluppate dal pubblico ed averle rese produttive di enormi profitti si sottrae ai suoi doversi assunti, e utilizza tutti i trucchi consentiti per sottrarre risorse fiscali e persino occupazione nel paese del quale ha beneficiato, sega l’albero su cui siede. L’atteggiamento è dunque sia “parassitario” sia miope.
Se si prosegue su questa strada gli ingenti investimenti necessari, per molti anni, per promuovere nuova innovazione non saranno più finanziabili e ne risentirà il dinamismo dell’intera economia. Infatti un intervento che cattura e valorizza il processo di innovazione solo nella fase finale, sfruttando la fase cumulativa collettiva ed incerta, tende anche ad aumentare l’ineguaglianza e a ridurre l’innovazione. Il sistema fiscale, nato quando i capitali erano “trattenuti” nel sistema economico in cui si generavano, non riesce a recuperare il valore prodotto.

Dal libro si possono trarre alcuni insegnamenti utili anche per il caso italiano:
     -         Se si vuole intercettare l’innovazione tecnologica, con il suo portato di aziende dinamiche e posti di lavoro ad alto reddito, bisogna mirare meglio la spesa, non tutta la R&S è utile, non è utile da sola, non lo è sempre; 
    -      Bisogna mettere a punto dei sistemi per recuperare le spese pubbliche che sono indispensabili (investimenti di capitale, golden share, banche dello sviluppo);
     -         Bisogna essere “foolish” (avventati e coraggiosi); 
     -         Bisogna avere costanza e pazienza, mantenendo il sostegno per il tempo necessario a vedere i risultati.


Nessun commento:

Posta un commento