L’economista
Mariana Mazzucato insegna Economia dell’Innovazione
in Inghilterra ed ha una tesi molto forte e determinata sul ruolo dello Stato
nella promozione dell’innovazione tecnologica: è indispensabile. 
Il vero agente dell’innovazione non è il mercato, o
le grandi aziende multinazionali, oppure gli eroi celebrati, i garage dai quali
sono partiti, neppure i fondi speculativi: è
lo Stato. La ragione è semplice in effetti, per produrre innovazione vera
ci vuole coraggio. Bisogna essere disposti a perdere e bisogna avere molta
pazienza, a volte decenni.
Per non
aspettarsi troppo dal libro
bisogna comprendere di cosa parla, l’innovazione di cui il testo tratta è
essenzialmente quella tecnologica, derivata dalla ricerca di base e produttrice
di prodotti radicalmente nuovi, capaci di innalzare in modo significativo l’efficacia
e la produttività. Cioè quella che ha introdotto nelle nostre vite dispositivi
come l’i-pad, internet, ma anche le applicazioni tecnologiche meno visibili derivanti
dalle biotecnologie, dai nanomateriali, oppure la svolta “green” in corso con
le sue tecnologie caratteristiche. 
Questa forma di
innovazione è legata, secondo una illustre tradizione, alla crescita della
produttività e la spiega in gran parte. La crescita, in altre parole, è
determinata in ultima analisi (ovvero nel lungo periodo e nell’insieme) dalla
capacità delle tecnologie di aumentare l’output (i prodotti e i servizi) a
parità di capitale e lavoro applicati. Secondo la teoria di Grossman e Helpman,
1991, la tecnologia deriva dall’applicazione di R&S e di istruzione. Le cose,
però, non sono così semplici, secondo Mazzuccato non conta tanto il mero
livello quantitativo di R&S, ma il modo in cui questa si determina e
distribuisce in <sistemi di innovazione>; la dinamica non si può
modellizzare in quanto essenzialmente influenzata dalla circolazione delle
idee, della conoscenza e la loro diffusione nell’economia in modo utilizzabile.
Ciò che conta è allora la rete di relazioni nella quale si genera una reciproca
fertilizzazione in grado di accrescere e sedimentare le competenze. 
Questa concettualizzazione
rende comprensibile il motivo per il quale, per l’economista italiano, l’innovazione
diventa distruttiva (e dunque genera crescita) all’intersezione tra serbatoi di
conoscenza e di ricerca pubblici (caratterizzati da investimenti massicci,
rischiosi e pazienti) e applicazioni sviluppate da innovatori privati che li trasferiscono
nel mercato. In fondo questa relazione tra lento e rapido, tra paziente e
veloce, tra pubblico e privato, è valorizzata nell’intero libro, anche dove è
criticata per la tentazione di alcuni di utilizzarla in modo parassitario. Il
libro invita, in effetti, a guardare a questa dinamica con occhi attenti da
entrambe le parti, cercando di promuoverla e proteggerla. 
In tutti gli esempi
più noti, dalle ferrovie alle nanotecnologie, dalla farmaceutica a internet, è
lo Stato che ha condotto per primo e con più determinazione gli investimenti “imprenditoriali”
che, con il loro coraggio e determinazione, hanno reso possibile rivitalizzare
il dinamismo dell’economia capitalista. Il rimprovero che l’autore eleva quindi
ai capitalisti contemporanei, tutti presi a ridurre il ruolo dello Stato e sottrargli
risorse, è di non accorgersene. In un certo senso di essere tutti assorti a
segare il ramo su cui siedono. 
Lo Stato, in
effetti, non si limita a correggere gli errori del mercato, ne crea di nuovi. Si è impegnato in
molte occasioni a creare “tecnologie di uso generale” come la produzione in
serie, le tecnologie aviatorie, quelle spaziali, l’informatica ed internet. Ma
non solo in questo, si è anche impegnato in modo decisivo nella creazione degli
ambienti innovativi di maggiore successo. Un esempio abbastanza noto è la “Silicon
Valley”, che lungi dall’essere la spontanea aggregazione di innovatori di
talento è un intenzionale modello finanziato da enormi risorse federali,
concentrazione di Università di prestigio, costanti commesse militari,
strategie aziendali in parte spontanee ed in parte incentivate. Poi, è chiaro,
entrano in gioco gli effetti di rafforzamento di cui parla anche Moretti
nel suo libro sul lavoro che sotto alcuni aspetti è leggibile in parallelo
(anche in parziale opposizione, con la sua enfasi sul ruolo degli innovatori
privati). 
Una delle
caratteristiche più importanti del capitale pubblico è la sua “pazienza”: mentre
il capitale privato, odia l’incertezza ed i tempi lunghi che sono intrinsechi
ai processi di innovazione, il capitale pubblico può permettersi di aspettare e
anche di fallire. L’innovazione, infatti, per determinarsi deve superare molte
sfide che possono in ogni momento essere perse. Non si può evitare, se una
ricerca è innovativa per definizione il suo risultato non è noto a priori.
Naturalmente in
una economia matura non tutti i settori sono altrettanto esposti all’innovazione
tecnologica e quindi non tutti si giovano nello stesso modo degli investimenti
in R&S ed in “sistemi di innovazione”. Un esempio è la struttura
socioproduttiva inglese, che è specializzata in servizi finaziari, edilizia e
industrie di intrattenimento che non si giovano degli investimenti in ricerca
tecnologica. Fissare, dunque, un mero obiettivo quantitativo (ad esempio l’europeo
3% del PIL) può avere un senso molto diverso da paese a paese. 
Da questa
considerazione la Mazzucato avvia una serrata critica ai falsi miti che
ostacolano la crescita, restituendo una visione errata dell’innovazione e del
ruolo dello Stato in essa:
    -        
Che dipenda dalla R&S, e che direttamente da
questa dipenda quindi la crescita;
si tratta di una visione semplificatoria che può condurre fuori strada. In alcuni
casi troppa R&S, in assenza delle risorse complementari che la possono
tradurre in innovazione, può essere controproducente, assorbendo risorse utili.
In alcuni casi un trasferimento tecnologico o “aggiornamento” può essere più
utile. 
    -        
Che il “piccolo” sia sempre più efficiente; se le piccole imprese possono essere importanti
per sostenere l’occupazione (ma naturalmente solo se crescono), destinare
risorse a pioggia a tutte può essere distraente (p.67).
     -        
Che il Venture Capital ami il rischio; ovviamente è il contrario, ama i piccoli rischi ed
i rientri veloci. Odia l’incertezza ed i tempi lunghi. Considerando (tab. 2,
p.71) che in un investimento innovativo nella fase di avviamento il rischio di
perdere è alto (66%), mentre nelle successive fasi di lancio scende via via al
50% e al 33% (seconda fase) e 20% (terza fase), .. quel che succede è che nelle
prime fasi  operano i capitali pazienti
del pubblico e solo quando il rischio è calato (e si intravedono i profitti)
entrano i capitali “di rischio” privati. 
     -        
Che il numero dei brevetti sia direttamente legato
all’innovazione e ne sia indicatore;
non è così, e questo è anche abbastanza ovvio, ci sono brevetti significativi
ed altri meno.
     -        
Che in Europa ci sia un deficit di capacità di
commercializzazione rispetto agli USA;
in realtà gli spin off e le relazioni tra imprese e università sono simili nei
due ambienti, ma gli USA si fa semplicemente più ricerca in più luoghi e questo
crea una maggiore circolazione. L’Europa è in genere molto forte nella
produzione scientifica di alto livello, meno nella conversione in “innovazioni
capaci di generare ricchezza” (cioè quella sulla quale il libro è focalizzato).
    -        
Che le aziende investono solo se ci sono meno tasse
e meno burocrazia; poiché non
esiste una relazione lineare tra R&S, innovazione e crescita economica le
cose sono molto più complesse. Si può dimostrare al contrario che le riduzioni
delle tasse compiute dagli anni ottanta si sono di fatto accompagnati a
riduzioni degli investimenti in R&S da parte delle aziende. In realtà non
ci sono facili indicatori misurabili che possano catturare la relazione. 
Ciò che realmente
succede nelle pratiche di innovazione tecnologica radicale è che lo Stato
sostiene ingenti investimenti, diretti ed indiretti, tramite una vasta serie di
istituzioni dedicate e appalti di ricerca (talvolta con finalità militari) e
nel fare ciò letteralmente “crea” nuovi mercati e nuove aree di sviluppo per il
capitale privato. La Mazzucato è prodiga di esempi: il Giappone (p.58) con il
suo vasto approccio sinergico; il NIH negli USA (p.98), con i suoi 300 miliardi
di dollari investiti in ricerca medica tramite 3.000 università e centri di
ricerca e oltre 300.000 ricercatori; il DARPA negli USA (p. 112) con le sue
commesse militari portate avanti per decenni e centrali per lo sviluppo di
decine di tecnologie essenziali nel nostro presente; il NNI (p. 118) e le sue
ricerche sui nanomateriali volute da Clinton. 
Il testo poi si
concentra sul caso della Apple, mostrando come la sua concentrazione sulla
qualità e sul lungo periodo si sia fondata letteralmente su un package di
tecnologie tutte sviluppate dal pubblico (p.124, 143, 245). La sua indubbia
creatività si è concentrata nell’assemblaggio e nella commercializzazione di
opportunità tecnologiche che erano state sviluppare anche con decenni di
ricerca di base condotta in laboratori e università pubbliche. 
Poi c’è il caso
della “rivoluzione verde”, un gigantesco sforzo, condotto dai paesi di tutto il
mondo, per trasformare una infrastruttura esistente e di fondamentale
importanza come quella energetica che dispone di enormi “costi sommersi”
che andrebbero irrimediabilmente persi se si interrompesse l’utilizzo dell’infrastruttura.
Questa condizione rende necessario, se si vuole transitare in una economia più
sostenibile e più sicura (energeticamente), sostenere a lungo le tecnologie e
le aziende innovative che le utilizzano, come i mercati in cui operano. Ciò con
politiche orientate alla domanda (cioè a creare una domanda dei beni e servizi
sostenibili) e all’offerta (rivolte a favorire la produzione di tecnologie e
servizi sostenibili). 
L’effetto di
tale schema produce i suoi effetti sull’innovazione quando determina la
comparsa di prodotti a costo più basso e rendimento più alto. E’ ciò che è
successo in modo impressionante con le tecnologie “distruttive” (per i costi
sommersi della industria tradizionale) del fotovoltaico e dell’eolico. Il
problema di un “costo sommerso” (come l’enorme infrastruttura logistica rivolta
ad estrarre, trasportare ed utilizzare le energie fossili) è che è
irrecuperabile. Ma come mostra la letteratura economica e la teoria delle
decisioni connessa, è razionale non tenere conto di questo costo, una volta che
la decisione di oltrepassarlo è presa. Indugiare comporta solo la distruzione
di entrambi gli investimenti. 
Uno degli
aspetti che l’economista angloitaliano mette in evidenza è che per cambiare un
sistema dotato della straordinaria inerzia e dei colossali investimenti non
recuperabili come quello energetico c’è bisogno di molti cambiamenti collettivi
la cui precondizione è un impegno serio, coraggioso e continuo da parte della
parte pubblica, per superare l’iniziale stadio dell’incertezza (sia tecnologia
sia economica). 
Ma lo sforzo
creerà anche un’opportunità del tutto nuova: quella di digitalizzare anche le reti
energetiche, rendendole “intelligenti”. Questo consente, anche in questo
cruciale settore, il pieno dispiegamento della rivoluzione informatica. Le
conseguenze possono essere enormi: per Perez si arriverà a interessare l’intero
settore della manutenzione, e del consumo, affrontandolo “a suon di software”. Secondo
le parole della Mazzucato: “con il tempo e un’ampia penetrazione, la rete
intelligente potrebbe cambiare il nostro modo di concepire l’energia, creare
nuove opportunità commerciali e migliorare l’economia delle energie rinnovabili
grazie all’introduzione di nuovi strumenti per una gestione ottimale dell’offerta
di energia e della risposta alla domanda” (p.167).
Uno degli
ostacoli più grandi che il testo individua è che i mercati dell’energia sono
dominati da alcune delle più grandi aziende del pianeta “generalmente poco
inclini a innovare” (dati i costi “sommersi”); imprese che operano in un
mercato in cui la “merce” non è differenziata realmente (un barile di petrolio
è un prodotto simile, e un kWh uguale). La conseguenza è che il fattore
dirimente resta per loro solo il prezzo. Queste aziende sono quindi impreparate
culturalmente ed economicamente alla logica della rivoluzione verde.
Ora, le nuove
tecnologie sono dirompenti perché modificano i mezzi di produzione e costano di
più al momento, ma non includono costi impliciti come la distruzione del
pianeta o la dipendenza strategica dalla Russia (nel caso Europeo). Si tratta
di un completo cambio di discorso, a volte nello scontro dei linguaggi e delle
posizioni tra l’industria tradizionale e quella “green” si percepisce un muro
di reciproca incomprensione fondato anche su questa diversa apertura.
In conclusione,
per l’autore l’innovazione tecnologica (o quella di processo come nel caso
della generazione di energia rinnovabile) è sempre trainata nella fase di
lancio dallo Stato per una ragione strutturale precisa: il capitale e le imprese private sono timide e frettolose. Hanno
paura del rischio e hanno fretta (in particolare da quando ha prevalso una
logica finanziaria e la cultura della remunerazione dell’azionista). Quindi
arrivano sempre “dopo” che lo Stato ha predisposto l’innovazione per cogliere i
frutti maturi. Si ottiene in sostanza una privatizzazione dei benefici a fronte
della pubblicizzazione dei rischi. Un simile atteggiamento può essere “sinergico”
o “parassitario” a seconda di come venga portato. 
Se l’industria,
come fa l’Apple, dopo aver sfruttato tecnologie sviluppate dal pubblico ed
averle rese produttive di enormi profitti si sottrae ai suoi doversi assunti, e
utilizza tutti i trucchi consentiti per sottrarre risorse fiscali e persino
occupazione nel paese del quale ha beneficiato, sega l’albero su cui siede. L’atteggiamento
è dunque sia “parassitario” sia miope.
Se si prosegue
su questa strada gli ingenti investimenti necessari, per molti anni, per
promuovere nuova innovazione non saranno più finanziabili e ne risentirà il
dinamismo dell’intera economia. Infatti un intervento che cattura e valorizza
il processo di innovazione solo nella fase finale, sfruttando la fase
cumulativa collettiva ed incerta, tende anche ad aumentare l’ineguaglianza e a
ridurre l’innovazione. Il sistema fiscale, nato quando i capitali erano “trattenuti”
nel sistema economico in cui si generavano, non riesce a recuperare il valore
prodotto. 
Dal libro si
possono trarre alcuni insegnamenti utili anche per il caso italiano:
     -        
Se si vuole
intercettare l’innovazione tecnologica, con il suo portato di aziende dinamiche
e posti di lavoro ad alto reddito, bisogna mirare meglio la spesa, non tutta la
R&S è utile, non è utile da sola, non lo è sempre; 
    -      Bisogna mettere
a punto dei sistemi per recuperare le spese pubbliche che sono indispensabili
(investimenti di capitale, golden share, banche dello sviluppo);
     -        
Bisogna essere “foolish”
(avventati e coraggiosi); 
     -        
Bisogna avere
costanza e pazienza, mantenendo il sostegno per il tempo necessario a vedere i
risultati. 

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