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lunedì 7 settembre 2015

Utopie. Milanovic e il superamento del denaro: il 99%.


Un recente post di Branko Milanovic, sul suo blog, dal titolo “Il 99%. Utopia e denaro” ritorna sulla questione della possibile trasformazione dall’economia della scarsità a quella dell’abbondanza, e dunque dallo scambio all’illimitata disponibilità. “Sharing economy”, “economia a costo marginale zero”, “commons collaborativi”, “economia dell’accesso”, “sana sobrietà”, “fine del capitalismo”, “economie duali”, sono molte le ipotesi formulate da chi traguarda il semplice fatto dell’incremento costante della produttività relativa (al lavoro umano specificamente impiegato) nella produzione e distribuzione di sempre più beni e servizi. Abbiamo (elenco del tutto parziale) Keynes negli anni trenta, Francesco nella sua ultima enciclica, Mason con la sua ottimistica previsione di fine del capitalismo, Bauwens con il suo modello post capitalistico emergente, Lanier con la sua ipotesi di microaccrediti per la generazione di contenuti, Tyler Cowen con le sue distopiche prospettive. Ne avevamo da ultimo parlato, in termini delle possibili conseguenze distopiche a luglio, e poi per i rischi di controllo sociale (anche nascosti in termini attraenti ed importanti come le “città intelligenti”).

Milanovic la prende più da lontano, cita il Marx del “Critica al Programma di Gotha” (1875) che evoca una “fase più elevata della società”, in cui “è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro” (ma non la divisione stessa, in altre parole è scomparso il potere); dopo che anche il contrasto tra “lavoro intellettuale e fisico” è scomparso (cioè la gerarchia tra lavori più rari e pregiati e lavori più bassi e comuni), dopo che “il lavoro non è più divenuto solo mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita” (cioè dopo che il lavoro, che resta, da obbligo diventi desiderio), “dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti di ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza” (cioè dopo che l’eliminazione della estraneazione del lavoro –qui dai Manoscritti economico filosofici del 1844- ha eliminato tutte le “dighe” che ostacolano lo “scorrere” della ricchezza e ne concentrano -riducendola- in poche mani il controllo). Dopo tutto questo (in tutte queste condizioni) “solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” (Karl Marx, Critica del Programma di Gotha, 1875)

La condizione in cui questa utopia si compie è dunque molto complessa: una parte –dice Milanovic- è “una situazione in cui i beni e i servizi sono assolutamente abbondanti, non c'è scarsità, e possiamo prendere la gran parte di loro come ci piace”. Una specie di self service, dove dall’altro lato c’è una produzione automatica o volontaria, come vedremo.

Prima di tornare sulle altre condizioni elencate dal filosofo di Treviri vediamo il ragionamento dell’economista ex Banca Mondiale: il denaro, che si immagina qui superabile, ha la funzione principale di coordinare i piani dei singoli e delle imprese (senza comando diretto) per orientare le risorse nella direzione “giusta”. Dove il termine indica meramente, quella che è richiesta fattualmente (mentre in Keynes e più nettamente in Minsky come vedremo, questo punto diventa problematico, la stessa offerta è cruciale e va orientata in direzione socialmente utile). Ad esempio quando vado da un bar (es, Starbucks) per comprare un caffè (alimento a filiera lunghissima) pago e questo coordina verso il bancone una complessa serie di azioni in tempi diversi e da parte di persone che non si conoscono. Qualcuno fornirà attrezzi, realizzati con metallo preso da miniere e lavorato in grandi stabilimenti, altri input chimici derivanti da una lunghissima catena di produttori, altri produrranno il caffè che sarà lavorato ed imbustato, raccolto e trasportato, distribuito e venduto, aperto e cucinato, servito. Tutto perché il denaro si allunga nella filiera, fornendo a tutti la motivazione per compiere quelle azioni. In linea di massima al prezzo minore (non necessariamente, anzi in genere no, al costo ambientale e sociale minore).
Senza soldi, riflette Milanovic, chi coordinerà le azioni? Qui inserisce il pezzo sul “Programma di Gotha”.

L’abbondanza rende inutile chiedere denaro. Si tratta di una abbondanza che sta già crescendo, nelle piccole pieghe del nostro sistema di distribuzione. Da Starbucks acqua, tovaglioli, anche miele e latte sono gratuiti e il loro prelievo non è controllato (se si entra legittimamente, cioè per comprare). Una “cornucopia” in cui entrano anche altri piccoli consumi (nessuno chiede di pagare se devo dare una ricarica al cellulare, per pochi Wh, o chiedo acqua) o utilizzi (ad esempio alcuni concerti, spettacoli all’aperto). Certo qualcuno paga per ottenerli e poi poterli mettere a disposizione, ma il loro costo marginale di produzione è così basso (cioè il costo che si aggiunge per un singolo utilizzo in più) da essere trascurabile. Per questo può essere fornito gratuitamente.

La seconda osservazione che Milanovic fa è che quando questo avviene gli utenti non si ingozzano (noi non entriamo in ogni bar che superiamo per chiedere un altro bicchiere di acqua, o riempirci le tasche di tovaglioli, non passiamo i mesi ai concerti gratuiti) perché quando sappiamo essere sempre disponibili è razionale usarli solo se e quando servono. La seconda parte della frase di Marx “…a ognuno secondo i suoi bisogni” sembra quindi realizzabile nel regno dell’abbondanza. Almeno per alcuni bisogni (e qui Keynes faceva agire la distinzione complicata tra bisogni di base e secondari che è molto meno inessenziale di quanto possa sembrare a prima impressione).

Che succederebbe se tra alcune decine di anni sempre più merci, o servizi, entrassero nell’era del “costo marginale zero” immaginato da Rifkin? È una tendenza in corso, cinquanta anni fa acqua e carta costavano tanto da dover sempre pagare per averla (c’era chi con un carretto la vendeva per strada, almeno a Napoli). Magari tra qualche decina di anni il caffè sarà gratuito, e si entrerà nel locale per fare altro. E la lista sarà in crescita.

Se un domani la maggior parte di quel che oggi consumiamo per vivere bene sarà gratuito chi li produrrà? Non lavoratori salariati o comunque remunerati, perché poi il denaro non gli servirebbe e dunque non avrà valore (sembra ragionare Milanovic). In sostanza saranno macchine e persone che volontariamente (la prima parte della frase di Marx “da ognuno secondo le sue capacità”) presteranno una parte del proprio tempo perché gli piace farlo. Quando, cioè “il lavoro non è più divenuto solo mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita” si fanno tante cose gratuitamente (come scrivere o leggere questo blog, o quello di Milanovic, che vale) perché piacciono. I lavori ripetitivi, riducibili a routine (anche sofisticate), faticosi o pericolosi saranno fatti da macchine o da software (si può leggere Brynjolfsson su questo), la cui programmazione magari sarà realizzata da comunità open source collaborative ancora gratuitamente e distribuite apertamente. A costo marginale zero.

Reputazione, socializzazione e orgoglio saranno premio sufficiente per milioni di giovani o meno giovani intelligenti programmatori e creativi.

Ma anche servizi (come la ristorazione) potrebbero essere distribuiti a costo zero da sistemi automatizzati (magari con cibo stampato in 3D) o quasi (con cuochi umani che prestano la loro creatività perché ne sono soddisfatti) o in circuiti social (che stanno già cominciando).

Qui Milanovic vede il primo problema: ci sarà sempre qualcosa migliore, e qualcosa peggiore (in termini di servizio, personalizzazione, qualità o creatività ed innovazione). Dunque senza prezzo come si organizzerà la distribuzione e l’accesso (il migliore sarà più desiderato)? Tramite le “code”?

E poi il secondo, lui dice che almeno un 1% delle attività sarà sempre non automatizzabile e troppo difficile o spiacevole per essere prestato gratuitamente (in altre parole, in alcune attività ancora necessarie potrebbe esserci carenza di offerta spontanea). Per quanto marginale (1%) non è una cosa evitabile. In queste condizioni (scarsità) torna la necessità del denaro.

E con esso la distinzione e l’ineguaglianza economica.

Inoltre il terzo, il progresso (tecnologico) e l’innovazione generano scarsità locali (fino a che l’innovazione non si diffonde) e dunque replicano le condizioni di necessità di un meccanismo di gestione del razionamento. Cioè del denaro.

Si arriva ad una conclusione che piacerebbe molto a Latouche (in effetti è quel che dice): solo in una economia stazionaria, senza progresso tecnologico e con un certo grado di autoritarismo (per eliminare le carenze di offerta di lavoro spontaneo) potrebbe esserci assenza completa di denaro. E quindi di ineguaglianza economica.

Senza il secondo requisito (autoritarismo) possiamo avere “il 99% di utopia ma non il 100%”.

Senza il primo (cioè con un’economia in crescita ed una società in trasformazione) neppure quella.

Dunque, dice Milanovic, “così la natura fondamentale del progresso economico si rivela nel suo dilemma essenziale: il progresso economico ci sta rendendo più ricchi ogni giorno, ma ci lascia ugualmente insoddisfatti. La piena felicità è possibile solo nella stagnazione”. Dello stesso avviso era anche Keynes, che nel 1930 ipotizzava, infatti, che la crescita sarebbe giunta ad un momento di piena abbondanza dal quale sarebbe entrata in “stato stazionario”.



Questo se ci si mette nella prospettiva “dell’ultimo giorno” (della storia economica), nelle condizioni elencate da Marx (ma tutte) si avrebbe uno stato stazionario a bassissima ineguaglianza economica e di potere, dove l’ineguaglianza funzionale (cioè la divisione del lavoro) è allineata con ambizioni e desideri di ognuno (cioè non è alienata).
Quali condizioni? Primo, la scomparsa della “subordinazione asservitrice alla divisione del lavoro” (il lavoro non sarà più una necessità, ma un desiderio libero); secondo, la scomparsa della gerarchia tra lavori pregiati e non (quindi tra diversi schemi di remunerazione, insieme alla remunerazione stessa); terzo, la caduta delle barriere che organizzano, accumulandolo, il lavoro in poche mani e ne inibiscono le potenzialità, rendendolo “estraniato”.

La terza condizione è forse il motore che rende comprensibile l’idea: l’uomo ha potenzialità e plasticità illimitate ma viene costretto dalla divisione del lavoro e dalla subordinazione (che deriva dallo stato di necessità senza disporre delle possibilità), a contenerle, specializzandole, entro le catene di produzione e controllo preformate. Da un certo livello di sviluppo in poi, e da un certo livello di meccanizzazione in particolare, questo non libera forze produttive ma le limita. È come una diga che conserva in una sola mano acqua che altrimenti “scorrerebbe” in tutta la pienezza, rendendosi disponibile. La cosa si capisce oggi nei termini della sharing economy, dell’attivazione spontanea e della produzione condivisa e cooperativa, del crowfunding, delle potentissime potenzialità aperte dalla messa in contatto di mani e menti attraverso le infrastrutture informatiche e di comunicazione sostanzialmente gratuite (a costo marginale nullo) oggi disponibili. E’ il punto di Bauwens.
Da ognuno secondo le sue capacità… amplifica cioè le capacità, permettendo ad ognuno di scoprirne di nuove, di sorprendersi. Nel linguaggio di Amartya Sen, “capacita”.


Ma che si vede se ci si mette invece nella prospettiva dello scorrere dei giorni? Che di fatto questa dinamica di abbondanza implica una crescente marginalità. Nelle condizioni in cui le “dighe” sono tutte ancora alzate, e la divisione del lavoro è alienata, produrre sempre di più con sempre meno input umani implica che sempre più persone (che sarebbero gli ex input) semplicemente non servono. È vero che avranno alcuni servizi e beni gratuiti o quasi (ad esempio quelli di intrattenimento, così essenziali per il controllo sociale), ma contemporaneamente saranno esclusi completamente dai “beni di desiderio” (cioè quelli che la nostra società espone ai nostri occhi come essenziali per essere una donna o un uomo completo e risolto, che catturano il nostro “immaginario”). Questo è il nodo intorno al quale gira una parte molto rilevante dell’enciclica di Francesco.

Lo avevamo scritto in “La grande trasformazione del lavoro e le sue (possibili) conseguenze distopiche”, dal punto di vista dello scorrere se crescono gli “inutili”, crescerà l’assistenza paternalista e (implicitamente) autoritaria. Aiutata dalle potentissime armi della creazione e diffusione di informazione, dalle stesse che generano la condivisione e la sharing economy (in questa direzione gli avvertimenti di Lanier sul Big data, ma non solo), dalle infrastrutture “smart”. Crescerà la polarizzazione sociale e territoriale (come bene vede Tyler Cowen, pur traendone conclusioni divergenti dalle mie). Crescerà il già molto avanzato degrado del tessuto democratico e della capacità di emancipazione incorporata nella nostra struttura sociale. Diminuirà la capacitazione (Sen), aumenterà l’estraneazione e l’alienazione (Marx) e cresceranno le forme di disciplinamento e controllo (Foucault).
Io vedo, insomma, lungo la strada per l’abbondanza materiale il rischio di avere un paesaggio di altissime dighe e rigagnoli che portano acqua sporca e insufficiente a miserabili borghi sovraffollati dall’alto (della diga) ben sorvegliati. Una società disciplinare dell’intrattenimento, organizzata da potentissime tecnomacchine burocratiche (non necessariamente pubbliche) che con un solo gesto inseparabile assistono, sostengono e controllano centinaia di milioni di “inutili”, ogni tanto radunati per qualche plebiscito.
Ai produttori di simboli e spettacoli di intrattenimento resterà il ruolo di produttori “utili” (al controllo) mentre ai proprietari delle dighe il paradiso in terra della cornucopia.


Una specie di parco giochi nel quale chi si distrae e non guarda lo spettacolo sarà rapidamente identificato, sorvegliato ed osservato, minuziosamente definito e sanzionato.


Siamo già molto avanti in questo sentiero, e bene lo vede il papa, la domanda è semplice e inaggirabile: chi possiede e per cosa? Verso cosa deve essere responsabile?

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