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mercoledì 9 settembre 2015

Hyman P. Minsky, “Keynes e l’instabilità del capitalismo”




Illibro di Minsky esce nel 1975 e propone una interpretazione della Teoria Generale, nel contesto della più generale opera di Keynes, direttamente opposta a quella invalsa nella sintesi neoclassica. Dopo la morte del grande economista inglese, infatti, con il decisivo contributo di economisti formati alla London School sotto Hayek e successivamente transitati nell’area della scuola di Cambridge come Hicks e Kaldor, ma anche grazie alla ricezione americana con Samuelson, Kuznets, o Hansen, la parte più radicale della teoria di Keynes fu addomesticata e ricondotta entro le più confortevoli nozioni della scuola classica. In sostanza, attraverso la riduzione e formalizzazione dei concetti meno complessi la Teoria fu reinterpretata come caso speciale della tradizione precedente. Questa controrivoluzione avvenne grazie a modelli formalizzati, come il famoso IS-LM (Hicks-Hansen), e ad alcuni manuali famosi come A guide to Keynes di Hansen, del 1953, che fecero il resto. 

Del resto la cosa fu resa più semplice da alcune incertezze nella Teoria stessa, che Minsky individua ma non riesce a spiegare se non come un misto di tattica ed incoerenza intellettuale.
Le principali differenze tra la Teoria e la teoria tradizionale riguardano le sue tre affermazioni chiave (che restano sotto forma allentata anche nella successiva “sintesi neoclassica”):
-          La moneta è neutrale in stato di equilibrio del sistema economico (e dunque nella maggior parte dei modelli la finanza è ignorata del tutto);
-          Il livello dei prezzi è determinato dalla quantità di moneta presente (e dunque la politica monetaria può regolare l’inflazione in modo efficace);
-          Un’economia decentrata è naturalmente stabile (sul livello della piena occupazione, magari con qualche astuta ipotesi ad hoc come quelle introdotte da Milton Friedman negli anni sessanta e su cui torneremo).

Tutte e tre le affermazioni alla luce dell’esperienza di una fase di grande incertezza, instabilità e crollo di domanda, come quello nel quale operava Keynes (la Teoria come è noto esce nel febbraio 1936) o in cui noi viviamo, appaiono singolari. Una teoria semplice come quella neoclassica si costruisce infatti al prezzo di ignorare almeno tre evidenze cruciali (che sono al centro del lavoro di Keynes per come lo rilegge Minsky):
-          La formazione delle decisioni avviene sempre in condizioni di incertezza;
-          I rapporti finanziari pervadono tutto il sistema;
-          Il carattere ciclico del processo capitalistico è ineliminabile.
Più in generale nel lavoro di Keynes riletto da Minsky è affermata la totale assenza, nelle normali condizioni di esercizio dell’economia capitalistica, di qualcosa come lo stato di equilibrio generale (postulato dalla rivale scuola austriaca). In effetti si vive sempre in una fase di transizione.
Keynes nel 1925

Il fatto che Keynes negli anni venti (ad esempio quando scrive “La fine del laissez-faire”) si muovesse in effetti ancora entro il paradigma tradizionale ha in parte oscurato la ciclopica svolta intellettuale dell’opera degli anni trenta (frutto di un lavoro di gruppo molto intenso) che partendo dall’analisi della transizione tra un equilibrio e l’altro (cioè dall’osservazione della crisi del ’29) arriva a focalizzare la non neutralità della moneta. Cioè, come sostiene Minsky a pag. 10:
-          Che le variabili reali dipendono da quelle finanziarie,
-          Che il livello dei prezzi è solo marginalmente influenzato dalla quantità di moneta,
-          Che non ci si stabilizza mai spontaneamente sul livello della piena occupazione (al massimo questa è uno stato transitorio instabile).

La teoria tradizionale muove infatti dal paradigma del baratto (o della fiera paesana), nel quale non contano né la moneta (che è mero mezzo di scambio, cui si aggiungono le caratteristiche di metrica e riserva di valore sulle quali non si riflette veramente) né la produzione. L’intera economia è vista con gli occhiali del commercio. Il modello che viene opposto dal Keynes minskiano è invece il “modello della city”; l’economia capitalistica non ha quale fine lo scambio né la produzione ma l’accumulazione.
In effetti anche se è vero che tutti commerciano, in realtà non lo fanno in merci ma in moneta. Una delle conseguenze è che la moneta è in realtà endogena, si tratta del primo prodotto della società economica e chiunque la può creare (se riesce a farla accettare). Su questo tema si può leggere anche questo articolo di Minsky sulla “non neutralità” della moneta, o gli interventi sul denaro in questo blog. L’ulteriore conseguenza è che la quantità di moneta in circolazione dipende in effetti dalla domanda di finanziamento (e quindi, almeno in parte dagli investimenti).

Di qui il “modello a due prezzi” di Minsky, su cui torneremo, e l’intrinseca instabilità finanziaria dominata dall’incertezza. Ma anche, in conseguenza, la necessità di operare in modo attivo per stabilizzare il ciclo (altrimenti distruttivo).
Per Minsky l’andamento dell’economia descritto dalla Teoria Generale è “essenzialmente ciclico” e anche gli investimenti (che assumono posizione centrale) sono “determinati in primo luogo dalla natura speculativa delle scelte di portafoglio concernenti il finanziamento e il possesso di attività reali e finanziarie e non dalle caratteristiche tecnologiche del processo produttivo” (p.19), ne consegue che “il fattore che più direttamente influisce sugli investimenti va individuato nel processo di valutazione delle attività reali e finanziarie”. Ciò che protegge l’investitore, nelle condizioni di radicale incertezza nel quale di fatto sempre opera, è in altre parole la possibilità di rendere liquidi gli investimenti rivendendoli, cioè l’esistenza di un mercato attivo per essi.
Questa intrinseca debolezza è stata “prima oscurata e poi ignorata” nelle recezioni della Teoria Generale e coperte (il testo è del 1975, quando la cosa era abbondantemente compiuta) da uno spesso strato di modelli econometrici che “grazie all’abilità a manipolare dati empirici e alla simultaneità e multicollinearità tipiche delle relazioni economiche” sembrano soddisfacenti.

L’economia capitalistica è, insomma, “intrinsecamente contraddittoria”; la presenza di un sistema finanziario, che è necessario per tradurre la “voglia di agire” (quelli che altrove erano chiamati gli “spiriti animali”) degli imprenditori in effettiva domanda di beni di investimento, può avere caratteristiche autoalimentanti e determinare un boom degli investimenti che ha effetti destabilizzanti (passando magari per un attimo per la piena occupazione). Ad un certo punto però l’insopprimibile incertezza delle valutazioni, nelle condizioni di euforia e quindi sopravalutazione di un boom, accumula tensioni che producono, alla prima increspatura, un rovesciamento del ciclo. Ci torniamo.

Questa analisi è intenzionalmente oscurata dalla ricezione che per primo Hicks compie dell’opera di Keynes, riducendola a poche semplici formule sintetiche ed espellendo sistematicamente l’incertezza, perché contiene una profonda critica al capitalismo.
Hicks

Anche se Keynes non intendeva affatto sostituire il capitalismo con il socialismo dei suoi tempi, ciò che rendeva necessario era, infatti, “un’economia della distribuzione molto più egalitaria, fondata sul controllo sociale degli investimenti” (M., p.23). Insomma, una “socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento” (Keynes, TG, p. 549).

Già nel 1936, dalla prima recensione di Vilner dell’appena uscita Teoria Generale (contrastata dallo stesso Keynes), viene messa in campo una potente recezione e insieme una larga falsificazione della Teoria, volta a reintrodurre una alla volta tutte le condizioni restrittive (come l’esclusione del tempo, e quindi dell’incertezza) tradizionali. Gradualmente è messa a punto quindi la cosiddetta “sintesi neoclassica” che intese assorbire la rivoluzione keynesiana, introducendo moneta e qualche variabile finanziaria per spiegare l’instabilità. Il fatto che il sistema economico non riesca a raggiungere e mantenere nel tempo condizioni di piena occupazione diventa così spiegabile attraverso alcune “rigidità” che impediscono il libero aggiustamento di mercato dei prezzi e dei fattori (postulato dalla teoria tradizionale). Ad esempio la rigidità dei salari che non scendono abbastanza (da recuperare l’occupabilità) o disfunzioni istituzionali (come un sistema bancario imperfetto).
L’idea è piuttosto semplice, come tale potentissima: la libera azione di attori indipendenti determina l’insorgenza di un ordine (“equilibrio”) nel quale ogni fattore trova la sua migliore destinazione, ogni desiderio incontra la soddisfazione possibile alle condizioni materiali date, ad ogni bene o servizio è attribuito il giusto prezzo. Sono i prezzi, determinati spontaneamente dalla dinamica interattiva degli attori economici, a coordinare tutto perché funzioni. Uno dei più convinti e coerenti assertori moderni di questa impostazione è Friedrich Hayek (nella foto con Keynes), seguace di Von Mises, che già nelle famose quattro conferenze del 1931 alla London School of Economics (nella quale poi insegnerà prima di andare a Chicago) mosse dal postulato (affermando per la precisione che “conviene presumere”, cfr II Conferenza) che nel lungo periodo l’economia raggiunge da sola un equilibrio in cui tutte le risorse sono impiegate totalmente e nel migliore dei modi. Dopo questa indicativa affermazione (che decide ciò che dovrebbe eventualmente scoprire) Hayek sviluppò l’attacco a quello che di lì a poco sarà il motore operativo della Teoria Generale, aumentare i consumi, anche attraverso debito, non aiuterebbe il meccanismo della produzione capitalista a funzionare perché contrario alla sua “natura”, bisogna “accontentarsi di consumare esclusivamente quella parte della nostra ricchezza totale che nell’attuale organizzazione della produzione è destinata al consumo corrente. Ogni aumento del consumo, se non vuole disturbare la produzione, richiede nuovi risparmi pregressi” (Hayek, cit. in Nicholas Wapshott, “Keynes o Hayek”, p. 77). La concessione di credito, o altro meccanismo per aumentare la domanda aggregata, sortirebbe “l’effetto contrario” in quanto “domanda artificiale” capace solo di rimandare (ed aggravare “il giorno del giudizio”). Un’idea molto presente oggi nella logica dell’austerità “tedesca”.
Per Hayek “l’unica maniera per ‘mobilitare’ in permanenza tutte le risorse disponibili è perciò non usare stimoli artificiali, sia durante una crisi che dopo, ma lasciare che sia il tempo a impartire una cura permanente”. In sostanza non far niente e lasciare che nei tempi lunghi (quelli in cui “saremo tutti morti” come rispose Keynes) il libero mercato, naturalmente, riporti tutto all’equilibrio nel quale tutte le braccia e tutti i mezzi sono impiegati.
Hayek e Keynes

Nella conferenza Hayek verso la fine afferma in un crescendo che poiché il mercato possiede una sua logica e terapia naturale, e solo la lunga durata fornisce una vera ripresa consona a questa natura, non bisogna fornire bromuro; e che lui non lo avrebbe proposto perché diversamente da Keynes non era un “agitatore politico”. Questa frase illumina uno degli sfondi più importanti della divergenza: il naturalismo metafisico di Hayek poggia su una posizione interamente politica, proprio mentre si immagina come tecnico nella sua apparente astrazione. Mentre Keynes considera inaccettabile che nel tempo presente (o nel “breve periodo”) di fatto immense risorse umane e materiali siano inoperose, che vite siano sprecate inutilmente, ed è disposto a pagare il prezzo di modifiche dell’assetto sociale e della distribuzione per porvi rimedio, Hayek sta dalla parte dello status quo. Per lui la distribuzione è intoccabile, perché prodotta dalla natura (cioè dal suo alter, il mercato), e similmente ai pensatori assolutisti di tre secoli prima, cardine del senso del mondo. L’economista austriaco non vuole “agitare” nulla, preferisce che tutto resti in quiete, e che il mondo altamente ineguale –fondato su rendita e selvaggio sfruttamento- ereditato dalla fine dell’ottocento prosegua la sua corsa.


Questi modelli, che in modo del tutto evidente informano anche la politica odierna dell’Unione Europea, immaginano di poter affrontare le contraddizioni del capitalismo, nelle condizioni lontane dalla piena occupazione (quando molte persone non lavorano e molti mezzi di produzione giacciono inoperosi, perdendosi per sempre), attraverso il superamento della non flessibilità di alcune variabili come i salari. E ottiene questo risultato attraverso l’astrazione. Secondo la critica di Minsky, il modello introdotto da Hicks (ex allievo e collaboratore di Hayek) a partire dall’articolo del 1937 in cui esplicitamente cercava di trovare connessioni tra Keynes ed i classici (IS-LM) è talmente semplificato da dire in effetti molto poco (p.49) e fa strutturale violenza al complesso meccanismo di determinazione dei prezzi creato da K. Anche al suo meglio (modello Hicks-Hansen) riesce solo a compiere una descrizione statica “anziché come processo dinamico” della visione dell’economista inglese. Quella di Hicks e Hansen è una visione che continua a rimuovere l’incertezza e si rende vulnerabile alle obiezioni che saranno successivamente avanzate dalla scuola di Chicago.

Alla fine viene confermata l’idea che l’economia possiede un automatico meccanismo riequilibratore all’opera se solo i prezzi (e quindi i salari) sono lasciati liberi di riaggiustarsi. La conseguenza pratica di questa idea, radicata nel presupposto che il mondo naturale sia in equilibrio e che l’economia ne faccia parte, è molto semplice e determinante: anche in condizioni di disoccupazione molto elevata basterà lasciar agire il conseguente processo deflazionistico abbastanza a lungo per riportare le cose in equilibrio. La politica fiscale e monetaria può ridurre i tempi ma non è strettamente necessaria.
Quello della sintesi neoclassica è un modello che conduce dunque ad un risultato apparentemente paradossale: “la rigidità dei salari è la causa della disoccupazione” (p. 74). In altre parole la transizione da una condizione di disequilibrio (di crisi) ad una di equilibrio avviene quando i diversi mercati (del lavoro, della moneta  e la funzione di consumo) riescono ad interagire tra di loro senza rigidità.
Dunque “il meccanismo di mercato non è intrinsecamente viziato, i processi di mercato raggiungono e mantengono la piena occupazione”; se malgrado tutto nel breve periodo (mentre nel lungo, appunto, andrà sempre tutto a posto da solo) si dovesse sviluppare una situazione di disoccupazione sarebbe sempre per errori di politica economica (come postulava Friedman per spiegare la crisi del ’29) o disfunzioni istituzionali (come ipotizzano oggi per i paesi in debito di “riforme strutturali”) o anche per effetto di particolari rigidità (tipicamente del mercato del lavoro, come si cerca di fare dagli anni novanta). Ci sono alla fine due scelte: “lungo la prima l’impiego oculato della politica fiscale e monetaria fa superare gli ostacoli che impediscono il raggiungimento di uno stato di pieno equilibrio ed elimina gli errori passati, causa di disoccupazione; lungo la seconda, invece, si possono apportare delle modifiche alle caratteristiche strutturali dell’economia che rimuovano quelle rigidità e quelle deficienze istituzionali che provocano e fanno perdurare scostamenti dalla piena occupazione” (p. 76).
Vorrei essere chiaro: l’idea è che se l’offerta di lavoro prevede che un dato profilo, ad esempio un giovane diplomato di ceto medio-basso con poche relazioni familiari di Amburgo, incontra solo proposte a 300,00 €/mese e su questa base si determina un tot di disoccupazione (perché alcuni preferiscono morire di fame facendo lavoretti saltuari a morire di fame essendo anche costretti nella camicia di un rapporto di lavoro dipendente a 8 ore al giorno, più straordinari non pagati in una struttura dispotica che controlla ogni secondo della loro giornata ed impone ritmi frenetici) questa disoccupazione è “volontaria” (è una scelta) e dunque non contraddice la teoria. Un mercato del lavoro flessibile prende anche questi lavori e realizza la piena occupazione. Di più, come proporrà Milton Friedman nel discorso all’AEA il 29 dicembre 1967, poiché “troppa” occupazione può generare una spirale inflattiva esiste un “tasso naturale di disoccupazione” che è quello che non stimola né inflazione né deflazione. Un “gioco di prestigio” (cfr. Ackerlof, Shiller, Spiriti animali, p. 70)  che consente a cuor leggero di concentrarsi sull’inflazione senza temere la disoccupazione (che, tanto, è “innaturale”). Nei Trattati che istituiscono l’Unione Europea questa idea di successo trova espressione nel cosiddetto tasso di “disoccupazione strutturale” che è stata contestata recentemente nelle note tecniche del Documento di Bilancio 2015 italiano. Secondo la Commissione Europea, ad esempio, in Spagna il livello di disoccupazione naturale (o “strutturale”) dopo il quale dovrebbe partire l’inflazione è del 21%. Nessun vantaggio a ridurla sotto.

Vediamo all’opera questa logica nella risposta di Raghuram Rajan alla crisi del 2008 (ad esempio in questo post) in cui propone un lento e “naturale” aggiustamento, anziché l’azione diretta nell’economia. Come avevamo scritto “pur concordando con la posizione neo-keynesiana che la fonte centrale del problema è la debole domanda per il disindebitamento degli ex-mutuatari, Rajan propone una soluzione diversa. Anziché rilanciare la domanda in generale (cosa che è “nella migliore delle ipotesi un palliativo”), o ristrutturare in modo facilitato il debito (leggermente più efficace, ma insufficiente a ripristinare la vecchia domanda), l’unica soluzione sostenibile (l’altra è far ripartire “la giostra” del debito insostenibile fino al prossimo crollo) è permettere all’offerta di regolare in modo naturale la domanda. Facilitare, semmai, la riconversione dei lavoratori edili e professionisti, invece che puntellare imprese senza futuro o sostenere la domanda dei loro prodotti senza futuro con credito facile. Naturalmente Rajan è cosciente che l’adeguamento dell’offerta può prendere tempo (e in cinque anni c’è stato qualche progresso), ma l’alternativa è spendere decenni con carichi elevati di debito pubblico, barcamenarsi nella gestione di bilanci deboli e continui ripensamenti e marce indietro. Il caso giapponese mostra per l’economista indiano che venti anni e un debito al 230% non sono bastati”.

Una conclusione decisamente non keynesiana, infatti Minsky ricorda come per l’economista inglese la flessibilità dei salari peggiorava la situazione. E ciò sia per la natura speculativa della domanda di investimenti, ma anche per il processo di contrazione monetaria endogena indotto dal sistema bancario. Vediamo come, perché ha proprio un’aria familiare: “una continua caduta dei salari, dei prezzi  e dei flussi di cassa delle imprese fa sì che i potenziali clienti delle banche debbano sopportare per tutta la durata dei debiti da loro contratti un onere assai più pesante. La caduta del livello dei prezzi e dei salari tende ad innescare un processo deflazionistico creditizio tale da ridurre la quantità di moneta, il che non fa che aggravare la situazione sul mercato del lavoro: prezzi e salari flessibili hanno effetti destabilizzanti” (p. 74).
L’idea di Keynes (chiaro nella risposta all’articolo di Vilner nel 1937) è che l’economia ha inevitabilmente un andamento ciclico, lungi dal tendere all’equilibrio, essa non è in grado da sola di mantenere un regime di piena occupazione perché quando lo raggiunge attiva meccanismi che la sbilanciano di nuovo. I vari stati di sistema sono il boom, la crisi, la deflazione (noi siamo qui),  la stagnazione, l’espansione e la ripresa. Un’economia caratterizzata da investimenti privati, che cercano sempre di massimizzare in concorrenza reciproca per l’accesso ai fattori (tra cui il capitale, ma anche il lavoro e le materie prime o i macchinari) il rendimento relativo è l’instabilità di questi a determinare il l’attivazione del ciclo economico. Ma, con le parole di Minsky: “in un’economia dalle istituzioni finanziarie proprie del capitalismo, va individuata nell’instabilità della composizione dei portafogli e delle interrelazioni finanziarie [è] la causa di fondo del ciclo”. Quindi quella che propone Keynes è una teoria fondata sugli investimenti per spiegare le fluttuazioni della domanda che si verificano nel mondo reale e una spiegazione finanziaria per spiegare le fluttuazioni degli investimenti.

Tutto si capisce se si mette al centro un semplicissimo fatto: il futuro è incerto. 

Keynes ne tratta nel “Trattato sulla probabilità” del 1921, e poi lo riprende nella Teoria Generale, e nella replica a Vilner è incerto ciò che non si sa ma è solo probabile. Circa il prezzo del rame o il livello dei saggi di interesse tra un certo numero di anni noi non abbiamo “alcuna base scientifica sulla quale costruire un qualsivoglia tipo di probabilità suscettibile di misurazione precisa: non ne sappiamo semplicemente nulla. Nondimeno la necessità di agire e di prendere decisioni ci costringe, in quanto uomini pratici, a fare del nostro meglio per non tener conto di questa scomoda circostanza e a comportarci come faremmo se avessimo a nostro vantaggio il buon conteggio benthamiamo di una serie di vantaggi e svantaggi futuri – ciascuno moltiplicato per la sua appropriata probabilità- in attesa solo di essere sommati gli uni agli altri” (Keynes, risposta a Vilmer, 1937).
Un brano straordinario. Qui troviamo il nucleo del problema davanti a cui ogni decisore pratico è sempre (agire nell’incertezza) insieme alla risposta che consente a K. di proporre comunque corsi di azione (fare “come se”, sapendolo) che Hayek criticherà sulla base della stessa opinione (non ne sappiamo nulla) ma di diversa decisione (non agire).
L’innovazione finanziaria che porterà all’accelerazione della crisi dei mutui subprime (chiamiamola così per capirci) è il frutto della stessa decisione, agire in condizioni di incertezza, ma rimuovendo la consapevolezza che il “buon conteggio” è un’astrazione.

Il problema è che le “convenzioni” cui ricorriamo per agire in incertezza, come l’assumere che il presente sia guida per il futuro, o che la maggioranza o la media rappresentino una guida affidabile (K, 1937) rendono le nostre opinioni sul futuro “soggette a variazioni repentine e violente”, tendono a “crollare di schianto”.

Consapevoli di ciò gli operatori cercano di mantenersi liquidi (e tanto più quanto le opinioni sul futuro sono incerte). Il meccanismo di finanziamento degli investimenti in un’economia capitalistica cristallizza nel proprio portafoglio di titoli (qualunque essi siano) le opinioni passate degli operatori e dal quale scaturiscono sistemi interrelati di obblighi e di pagamento presenti e futuri ed i relativi incassi. Questa struttura genera un’ansia, fondata sull’incertezza e la memoria degli eventi positivi e negativi, che determina l’entità della conservazione in forma liquida della moneta. La moneta è quindi soprattutto scorta di valore. E determina (il tesoreggiamento) il saggio di interesse molto più direttamente dei prezzi (come presupposto dall’economia classica). Insomma, “il prezzo dei beni capitali viene quindi determinato in base a queste opinioni [quelle sullo stato futuro dell’economia] e al saggio di interesse” (K. 1937).
Quando l’intrinseco modello speculativo, che ogni operatore economico deve attuare nel muoversi tra valore dei beni capitali acquisiti e obblighi assunti di pagamento, basato su abilità e fortuna è ancora proporzionato, come “delle bolle d’aria in un flusso continuo di intraprendenza”, secondo Keynes può non causare alcun male; ma quando “l’intraprendenza diventa la bolla d’aria in un vortice di speculazione. Quando lo sviluppo del capitale di un paese diviene un sottoprodotto delle attività di un casino da gioco, è probabile che vi sia qualcosa che non va bene” (K. TG, p. 319).

Se si comprende che gli investimenti fluttuano in modo relativamente indipendente dai fattori tecnologici e anche dall’offerta di moneta, ma connessi al sistema delle aspettative e della rete di obblighi e valori influenzata da queste, è l’interazione tra gli stati patrimoniali e la stratificazione dei debiti ad essere al centro del funzionamento nei passaggi di fase del capitalismo. Sono le strutture finanziarie a determinare l’andamento dei nuovi investimenti e la sopravvivenza dei vecchi (M., p.168) ed il passaggio tra i vari stati sistemici.

Se la quantità di moneta di fatto attiva nel sistema economico è determinata endogenamente (M., p.161) durante la fase di boom questa viene assorbita da attività finanziarie via via più costose e rischiose, cosa che si inverte repentinamente raggiunto un punto di rottura. Allora tutti cercano di vendere le proprie attività per ripagare i propri debiti e questo “provoca una caduta del prezzo dei beni capitali” attivando un processo di deflazione creditizia. L’economia finisce per trovarsi in uno stato di disoccupazione e depressione (M. p. 167).
Man mano però che il disinvestimento procede e gli operatori riassestano le proprie posizioni (magari aiutati da opportune politiche facilitatrici) l’economia ricomincia a crescere. Si entra in una nuova fase espansiva nella quale, però, prevale la prudenza per il ricordo del crollo.
Tuttavia, “appena si ritorna nei pressi della piena occupazione, la nuova generazione di indovini economisti proclamerà la scomparsa definitiva del ciclo e l’avvento di una nuova era di prosperità permanente. Adesso di può ritornare a prendere a prestito perché i nuovi strumenti di politica economica (siano essi la politica fiscale o il sistema della Riserva Federale) e la maggiore sofisticatezza dei consiglieri economici costituiscono una garanzia sicura della scomparsa definitiva di crisi e deflazioni creditizie. In realtà però nessuno stato ciclico (boom, deflazione creditizia, stagnazione, ripresa, crescita di piena occupazione) può avere durata illimitata: ciascuno di essi mette in azione forze tendenti a rovesciarlo” (M, p. 169).
Questo breve brano, scritto nel 1975, potrebbe tranquillamente essere stato scritto nel 2009. Insomma, è il sistema finanziario a regolare, in senso espansivo o restrittivo, l’andamento degli investimenti, questo è il messaggio fondamentale di Keynes secondo Minsky. 

Quale la conclusione che trae Minsky da questa complessa (a tratti) lettura ricostruttiva del pensiero di Keynes? Lo scopo enunciato nel 1926 e poi nella Teoria, da Keynes, di mettere insieme “efficienza economica, giustizia sociale e libertà individuale”, non è ben servito dal meccanismo di mercato per come è di fatto all’opera. Esso comporta, infatti, “una distribuzione socialmente oppressiva del reddito e della ricchezza”. Occorre intervenire con qualche grado di socializzazione degli investimenti, per garantire la piena occupazione in modo stabile, e l’eliminazione della scarsità di capitale (in modo da ridurre i redditi puri da capitale, fonte di ineguaglianza e distorsioni) insieme ad un sistema di tassazione diretta “tale da ottenere una distribuzione di reddito accettabile” (M, p. 193).
In particolare mentre i redditi derivanti dalle differenze di abilità imprenditoriale erano per Keynes giustificabili, quelli derivanti dalla proprietà semplice della ricchezza (cioè i redditi dei rentier) non lo erano affatto. E’ il punto di vista ripreso da Piketty nel suo famosissimo libro sul capitale. Nella Teoria Generale (p. 546) Keynes scrive che “l’eutanasia del rentier e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale” sarebbe derivato da uno stato di piena occupazione senza guerre e crescita demografica, e dal conseguente stabile  crescente volume degli investimenti.

Ma perché il capitale potrebbe cessare di essere scarso al crescere degli investimenti (e quindi della capacità produttiva) in condizioni di stabile piena occupazione? Qui, per Minsky, si inserisce la visione della natura dei bisogni umani che il giovane Keynes trasse dagli anni dell’illuminismo edwardiano. Quando nei circoli di Cambridge (frequentati dalla migliore e più appassionata borghesia “illuminata”) la vera natura umana era considerata soddisfatta da rapporti sociali e affetti personali, integrità e realizzazione interiore. Tutte cose alla portata di chiunque indipendentemente dalle ricchezze, dalla posizione o dallo stato sociale. Dunque uno stato di “genuina opulenza” era raggiungibile di fatto per tutti con una livello di “beni terreni” disponibile relativamente basso.
In questa visione i bisogni umani fondamentali (sufficienti per raggiungere la piena soddisfazione e lo stato di completa libertà) sono in fondo limitati e sono soddisfabili. Nel suo articolo del 1930 che abbiamo più volte narrato (“Prospettive economiche per i nostri nipoti”), distingue per questo tra “bisogni assoluti” e “relativi” (rivolti a distinguerci e soddisfare un senso di superiorità). I secondi sono condannati come fatui e complessivamente patologici.
L’idea che soddisfatti i “bisogni assoluti”, spontaneamente gli uomini avrebbero distolto le energie residue a “scopi non economici” è fragorosamente fallita. Al posto di una società più sobria, nella quale il capitale sarebbe diventato abbondante per mancanza di applicazioni, abbiamo avuto la “società dei consumi” e la costante moltiplicazione di “bisogni relativi” (come l’ultimo I-Phone). Questi ultimi “possono avere intensità di capitale addirittura maggiore di quella dei tradizionali bisogni assoluti” (M., p. 199).
Sarebbe quindi l’autoregolazione dei bisogni ad essere l’idea centrale del modello sociale cui Keynes pensa nel momento in cui immagina di poter ottenere una società ben ordinata senza passare per forme di socialismo (che avversava).


Il compromesso che invece si creò, per un trentennio buono, vedeva di fatto una sorta di “socialismo per ricchi”, fondato su un ampio settore pubblico di equilibrio, un settore industriale privato e spesa pubblica che viene giudicata per la sua capacità di stimolare gli investimenti privati. Nel far questo si è messo in modo secondo Minsky, “un processo autoavvitante nel quale per mantenere la piena occupazione è necessario disporre di sempre maggiori quantità di investimenti, per indurre le quali bisogna offrire incentivi sempre più cospicui sotto forma di profitti e di sussidi alla produzione” (p. 206).

È un sistema (siamo nel 1975) “intrinsecamente instabile” ed in accelerazione. La pratica di favorire gli investimenti privati senza alcuna considerazione “per la loro utilità in termini sociali” ha favorito infatti la proliferazione di bisogni non essenziali di carattere “distintivo”. Questi tendono a far durare la scarsità del capitale e quindi a favorire il relativo rendimento. In particolare Minsky pone l’accento sulle spese militari e sulla pubblicità (p. 214) che “ha attirato l’economia nel vortice senza fondo del consumo superfluo, senza limiti di saturazione”.
Sarebbe invece necessario, riconoscendo che “per quanto riguarda la stabilità dell’occupazione e la distribuzione del reddito, il sistema capitalistico è intrinsecamente tarato … imboccare la strada opposta, sostenendo ed aumentando in modo diretti i redditi dei ceti indigenti e costringendo i ricchi ad assumersi certi rischi” (p. 218).


Per completare la lettura dell’importante testo di Minsky facciamo cenno a quel che succede in quel periodo: siamo nel 1975 e Nixon si è dimesso da circa un anno, da quattro è stato denunciato l’accordo di Bretton Woods e la convertibilità del dollaro, dal 1973-4 il prezzo del petrolio si è quadruplicato, Alan Greenspan si è appena insediato al Consiglio dei Consulenti Economici, Hayek ha preso il nobel del 1974 (Milton Friedman quello del 1976). L’inflazione è al 9,2% negli USA ed i disoccupati al 9%. E’ la stagflazione e ci troviamo su un crinale della storia.
Anche se i tagli radicali a spese e tasse imposti da Ford, con l’appoggio del Congresso democratico, sortiranno qualche effetto (inflazione a 4,88% e disoccupati a 7,8% nel 1976), improvvisamente tutti si mettono alla ricerca di un meccanismo per frenare l’inflazione, contrarre la spesa in disavanzo e incoraggiare gli investimenti non attraverso sovvenzioni ma deregolazioni.
Sarà alla fine il democratico Carter, che in una notevole svolta “austeriana”, nel 1978, promuoverà altre deregolazioni, sgravi fiscali per le industrie blocchi di assunzione e risparmi di spesa, oltre alla nomina di Volcker.

La direzione è presa, ed è l’esatto opposto di quella che Minsky auspicava; la decisione che l’inflazione (che colpisce lo stock di capitale) sia un problema maggiore della disoccupazione (che colpisce il reddito aggregato) prende il centro della scena.
Tre idee di Laffer (la prima enunciata sul tovagliolo in una cena nel 1974) assumono un ruolo centrale: la “curva di Laffer”, che individuerebbe il livello ottimale di tassazione e consiglierebbe di avviare dei tagli alle tasse più alte per massimizzare le entrate; quella, strettamente connessa, che il “gocciolamento” (una versione conservatrice dell’idea di Kahn, e lanciata da Keynes del “moltiplicatore”) avrebbe trasferito le incrementate spese personali dei ricchi (quelle che Minsky accusava di essere “consumo superfluo”) via via a tutti, e la “supply-side economy” in base alla quale la spinta alla crescita si ottiene meglio incoraggiando i produttori a produrre merci meno care (cioè attraverso una deflazione dei prezzi industriali). L’idea è più o meno che “la marea solleverà tutti gli yacht” (come disse Walter Mondale nel 1984).
Queste idee (passate come reaganomics) si accompagnarono con una drastica stretta monetaria, avviata da Volcker, che ridusse l’inflazione al 3,7% al prezzo di alzare la disoccupazione vicino al livello della grande depressione e di attirare in USA di nuovo i capitali (con disastrose conseguenze per il resto del mondo, in particolare in via di sviluppo). La Curva di Philips si prendeva la sua vendetta.
Il terzo blocco della politica di quegli anni è l’incremento della spesa pubblica. Contrariamente ai programmi ideologici sbandierati, le sforbiciate alle imposte (in parte revocate) si accompagnarono ad una esplosione della spesa militare (da 267 miliardi nel 1980 a 393 nel 1988 a parità di potere di acquisto) il debito pubblico esplose, da 900 a 2.800 miliardi. E’ il fenomeno del “Minotauro globale”, che attrae i capitali del mondo per finanziare le spese di consumo pubbliche (militari) e private (di lusso), di cui parla Varoufakis.

La versione di Reagan, che “risolverà” il dilemma illustrato anche da Minsky (quando parla di “processo autoavvitante”) con una singolare versione di keynesismo conservatore vestito con gli abiti di Hayek (e Friedman), lascerà eredità profonde e per ora permanenti. Gli ultimi dodici anni della vita di Hayek saranno ricchi di soddisfazioni per l’anziano economista.
Il suo vecchio amico Keynes (i rapporti tra i due erano molto meno accesi delle dispute pubbliche) sembrava dimenticato, gli economisti di acqua dolce (Chicago) dominavano. Nuovi “indovini economisti” avevano preso il centro della scena. Uno dei più determinati, Robert Lucas,  affermò sicuro che “il problema centrale della macroeconomia, quello della prevenzione delle recessioni, è stato risolto per ogni scopo pratico”, Fukuyama proclamò la “fine della storia”.

Penserà il 2008 a rimettere in campo le idee del grande economista inglese.

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