Illibro di Minsky esce nel 1975 e propone una interpretazione della Teoria Generale, nel contesto della più
generale opera di Keynes, direttamente opposta a quella invalsa nella sintesi
neoclassica. Dopo la morte del grande economista inglese, infatti, con il
decisivo contributo di economisti formati alla London School sotto Hayek e successivamente
transitati nell’area della scuola di Cambridge come Hicks e Kaldor, ma anche
grazie alla ricezione americana con Samuelson, Kuznets, o Hansen, la parte più
radicale della teoria di Keynes fu addomesticata e ricondotta entro le più
confortevoli nozioni della scuola classica. In sostanza, attraverso la
riduzione e formalizzazione dei concetti meno complessi la Teoria fu reinterpretata
come caso speciale della tradizione precedente. Questa controrivoluzione avvenne
grazie a modelli formalizzati, come il famoso IS-LM (Hicks-Hansen), e ad alcuni
manuali famosi come A guide to Keynes
di Hansen, del 1953, che fecero il resto.
Del resto la
cosa fu resa più semplice da alcune incertezze nella Teoria stessa, che Minsky
individua ma non riesce a spiegare se non come un misto di tattica ed
incoerenza intellettuale.
Le principali
differenze tra la Teoria e la teoria tradizionale riguardano le sue tre
affermazioni chiave (che restano sotto forma allentata anche nella successiva
“sintesi neoclassica”):
-
La moneta è
neutrale in stato di equilibrio del sistema economico (e dunque nella maggior
parte dei modelli la finanza è ignorata del tutto);
-
Il livello dei
prezzi è determinato dalla quantità di moneta presente (e dunque la politica
monetaria può regolare l’inflazione in modo efficace);
-
Un’economia
decentrata è naturalmente stabile (sul livello della piena occupazione, magari
con qualche astuta ipotesi ad hoc come quelle introdotte da Milton Friedman
negli anni sessanta e su cui torneremo).
Tutte e tre le
affermazioni alla luce dell’esperienza di una fase di grande incertezza,
instabilità e crollo di domanda, come quello nel quale operava Keynes (la
Teoria come è noto esce nel febbraio 1936) o in cui noi viviamo, appaiono
singolari. Una teoria semplice come quella neoclassica si costruisce infatti al
prezzo di ignorare almeno tre evidenze cruciali (che sono al centro del lavoro
di Keynes per come lo rilegge Minsky):
-
La formazione
delle decisioni avviene sempre in condizioni di incertezza;
-
I rapporti
finanziari pervadono tutto il sistema;
-
Il carattere
ciclico del processo capitalistico è ineliminabile.
Più in generale nel
lavoro di Keynes riletto da Minsky è affermata la totale assenza, nelle normali
condizioni di esercizio dell’economia capitalistica, di qualcosa come lo stato
di equilibrio generale (postulato dalla rivale scuola austriaca). In effetti si
vive sempre in una fase di transizione.
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Keynes nel 1925 |
Il fatto che
Keynes negli anni venti (ad esempio quando scrive “La
fine del laissez-faire”) si muovesse in effetti ancora entro il paradigma
tradizionale ha in parte oscurato la ciclopica svolta intellettuale dell’opera
degli anni trenta (frutto di un lavoro di gruppo molto intenso) che partendo
dall’analisi della transizione tra un equilibrio e l’altro (cioè dall’osservazione
della crisi del ’29) arriva a focalizzare la non neutralità della moneta. Cioè,
come sostiene Minsky a pag. 10:
-
Che le variabili
reali dipendono da quelle finanziarie,
-
Che il livello
dei prezzi è solo marginalmente influenzato dalla quantità di moneta,
-
Che non ci si stabilizza
mai spontaneamente sul livello della piena occupazione (al massimo questa è uno
stato transitorio instabile).
La teoria
tradizionale muove infatti dal paradigma del baratto (o della fiera paesana),
nel quale non contano né la moneta (che è mero mezzo di scambio, cui si
aggiungono le caratteristiche di metrica e riserva di valore sulle quali non si
riflette veramente) né la produzione. L’intera economia è vista con gli
occhiali del commercio. Il modello che viene opposto dal Keynes minskiano è invece
il “modello della city”; l’economia capitalistica
non ha quale fine lo scambio né la produzione ma l’accumulazione.
In effetti anche
se è vero che tutti commerciano, in realtà non lo fanno in merci ma in moneta. Una delle conseguenze è
che la moneta è in realtà endogena, si tratta del primo prodotto della società
economica e chiunque la può creare (se riesce a farla accettare). Su questo
tema si può leggere anche questo
articolo di Minsky sulla “non neutralità” della moneta, o gli interventi sul denaro
in questo blog. L’ulteriore conseguenza è che la quantità di moneta in
circolazione dipende in effetti dalla domanda di finanziamento (e quindi,
almeno in parte dagli investimenti).
Di qui il “modello a due prezzi” di Minsky, su cui
torneremo, e l’intrinseca instabilità finanziaria dominata dall’incertezza. Ma
anche, in conseguenza, la necessità di operare in modo attivo per stabilizzare
il ciclo (altrimenti distruttivo).
Per Minsky
l’andamento dell’economia descritto dalla Teoria Generale è “essenzialmente
ciclico” e anche gli investimenti (che assumono posizione centrale) sono
“determinati in primo luogo dalla natura speculativa delle scelte di
portafoglio concernenti il finanziamento e il possesso di attività reali e
finanziarie e non dalle caratteristiche tecnologiche del processo produttivo”
(p.19), ne consegue che “il fattore che più direttamente influisce sugli
investimenti va individuato nel processo di valutazione delle attività reali e
finanziarie”. Ciò che protegge l’investitore, nelle condizioni di radicale
incertezza nel quale di fatto sempre opera, è in altre parole la possibilità di
rendere liquidi gli investimenti rivendendoli, cioè l’esistenza di un mercato
attivo per essi.
Questa
intrinseca debolezza è stata “prima oscurata e poi ignorata” nelle recezioni
della Teoria Generale e coperte (il testo è del 1975, quando la cosa era
abbondantemente compiuta) da uno spesso strato di modelli econometrici che
“grazie all’abilità a manipolare dati empirici e alla simultaneità e
multicollinearità tipiche delle relazioni economiche” sembrano soddisfacenti.
L’economia capitalistica è, insomma,
“intrinsecamente contraddittoria”;
la presenza di un sistema finanziario, che è necessario per tradurre la “voglia
di agire” (quelli che altrove erano chiamati gli “spiriti animali”) degli
imprenditori in effettiva domanda di beni di investimento, può avere
caratteristiche autoalimentanti e determinare un boom degli investimenti che ha
effetti destabilizzanti (passando magari per un attimo per la piena
occupazione). Ad un certo punto però l’insopprimibile incertezza delle
valutazioni, nelle condizioni di euforia e quindi sopravalutazione di un boom,
accumula tensioni che producono, alla prima increspatura, un rovesciamento del
ciclo. Ci torniamo.
Questa analisi è
intenzionalmente oscurata dalla ricezione che per primo Hicks
compie dell’opera di Keynes, riducendola a poche semplici formule sintetiche ed
espellendo sistematicamente l’incertezza, perché contiene una profonda critica
al capitalismo.
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Hicks |
Anche se Keynes
non intendeva affatto sostituire il capitalismo con il socialismo dei suoi
tempi, ciò che rendeva necessario era, infatti, “un’economia della
distribuzione molto più egalitaria, fondata sul controllo sociale degli
investimenti” (M., p.23). Insomma, una “socializzazione di una certa ampiezza
dell’investimento” (Keynes, TG, p. 549).
Già nel 1936, dalla
prima recensione di Vilner dell’appena uscita Teoria Generale (contrastata
dallo stesso Keynes), viene messa in campo una potente recezione e insieme una
larga falsificazione della Teoria, volta a reintrodurre una alla volta tutte le
condizioni restrittive (come l’esclusione del tempo, e quindi dell’incertezza)
tradizionali. Gradualmente è messa a punto quindi la cosiddetta “sintesi
neoclassica” che intese assorbire la rivoluzione keynesiana, introducendo
moneta e qualche variabile finanziaria per spiegare l’instabilità. Il fatto che
il sistema economico non riesca a raggiungere e mantenere nel tempo condizioni
di piena occupazione diventa così spiegabile attraverso alcune “rigidità” che
impediscono il libero aggiustamento di mercato dei prezzi e dei fattori
(postulato dalla teoria tradizionale). Ad esempio la rigidità dei salari che
non scendono abbastanza (da recuperare l’occupabilità) o disfunzioni
istituzionali (come un sistema bancario imperfetto).
L’idea è
piuttosto semplice, come tale potentissima: la libera azione di attori
indipendenti determina l’insorgenza di un ordine (“equilibrio”) nel quale ogni
fattore trova la sua migliore destinazione, ogni desiderio incontra la
soddisfazione possibile alle condizioni materiali date, ad ogni bene o servizio
è attribuito il giusto prezzo. Sono i prezzi, determinati spontaneamente dalla
dinamica interattiva degli attori economici, a coordinare tutto perché
funzioni. Uno dei più convinti e coerenti assertori moderni di questa
impostazione è Friedrich
Hayek (nella foto con Keynes), seguace di Von
Mises, che già nelle famose quattro conferenze del 1931 alla London School
of Economics (nella quale poi insegnerà prima di andare a Chicago) mosse dal
postulato (affermando per la precisione che “conviene presumere”, cfr II
Conferenza) che nel lungo periodo
l’economia raggiunge da sola un equilibrio in cui tutte le risorse sono
impiegate totalmente e nel migliore dei modi. Dopo questa indicativa
affermazione (che decide ciò che dovrebbe eventualmente scoprire) Hayek
sviluppò l’attacco a quello che di lì a poco sarà il motore operativo della
Teoria Generale, aumentare i consumi, anche attraverso debito, non aiuterebbe
il meccanismo della produzione capitalista a funzionare perché contrario alla
sua “natura”, bisogna “accontentarsi di consumare esclusivamente quella parte
della nostra ricchezza totale che nell’attuale organizzazione della produzione
è destinata al consumo corrente. Ogni aumento del consumo, se non vuole
disturbare la produzione, richiede nuovi risparmi pregressi” (Hayek, cit. in
Nicholas Wapshott, “Keynes o Hayek”,
p. 77). La concessione di credito, o altro meccanismo per aumentare la domanda
aggregata, sortirebbe “l’effetto contrario” in quanto “domanda artificiale”
capace solo di rimandare (ed aggravare “il giorno del giudizio”). Un’idea molto
presente oggi nella logica dell’austerità “tedesca”.
Per Hayek
“l’unica maniera per ‘mobilitare’ in permanenza tutte le risorse disponibili è
perciò non usare stimoli artificiali, sia durante una crisi che dopo, ma
lasciare che sia il tempo a impartire una cura permanente”. In sostanza non far niente e lasciare che nei tempi
lunghi (quelli in cui “saremo tutti morti” come rispose Keynes) il libero
mercato, naturalmente, riporti tutto all’equilibrio nel quale tutte le braccia
e tutti i mezzi sono impiegati.
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Hayek e Keynes |
Nella conferenza
Hayek verso la fine afferma in un crescendo che poiché il mercato possiede una
sua logica e terapia naturale, e solo la lunga durata fornisce una vera ripresa
consona a questa natura, non bisogna fornire bromuro; e che lui non lo avrebbe
proposto perché diversamente da Keynes non era un “agitatore politico”. Questa
frase illumina uno degli sfondi più importanti della divergenza: il naturalismo
metafisico di Hayek poggia su una posizione interamente politica, proprio
mentre si immagina come tecnico nella sua apparente astrazione. Mentre Keynes
considera inaccettabile che nel tempo presente (o nel “breve periodo”) di fatto
immense risorse umane e materiali siano inoperose, che vite siano sprecate
inutilmente, ed è disposto a pagare il prezzo di modifiche dell’assetto sociale
e della distribuzione per porvi rimedio, Hayek sta dalla parte dello status
quo. Per lui la distribuzione è intoccabile, perché prodotta dalla natura (cioè
dal suo alter, il mercato), e similmente ai pensatori assolutisti di tre secoli
prima, cardine del senso del mondo. L’economista austriaco non vuole “agitare”
nulla, preferisce che tutto resti in quiete, e che il mondo altamente ineguale
–fondato su rendita e selvaggio sfruttamento- ereditato dalla fine
dell’ottocento prosegua la sua corsa.
Questi modelli,
che in modo del tutto evidente informano anche la politica odierna dell’Unione
Europea, immaginano di poter affrontare le contraddizioni del capitalismo,
nelle condizioni lontane dalla piena occupazione (quando molte persone non
lavorano e molti mezzi di produzione giacciono inoperosi, perdendosi per sempre),
attraverso il superamento della non flessibilità di alcune variabili come i
salari. E ottiene questo risultato attraverso l’astrazione. Secondo la critica
di Minsky, il modello introdotto da Hicks (ex allievo e collaboratore di Hayek)
a partire dall’articolo del 1937 in cui esplicitamente cercava di trovare
connessioni tra Keynes ed i classici (IS-LM) è talmente semplificato da dire in
effetti molto poco (p.49) e fa strutturale violenza al complesso meccanismo di
determinazione dei prezzi creato da K. Anche al suo meglio (modello
Hicks-Hansen) riesce solo a compiere una descrizione statica “anziché come
processo dinamico” della visione dell’economista inglese. Quella di Hicks e
Hansen è una visione che continua a rimuovere l’incertezza e si rende
vulnerabile alle obiezioni che saranno successivamente avanzate dalla scuola di
Chicago.
Alla fine viene
confermata l’idea che l’economia possiede un automatico meccanismo
riequilibratore all’opera se solo i prezzi (e quindi i salari) sono lasciati
liberi di riaggiustarsi. La conseguenza pratica di questa idea, radicata nel
presupposto che il mondo naturale sia in equilibrio e che l’economia ne faccia
parte, è molto semplice e determinante: anche in condizioni di disoccupazione
molto elevata basterà lasciar agire il conseguente processo deflazionistico abbastanza
a lungo per riportare le cose in equilibrio. La politica fiscale e monetaria
può ridurre i tempi ma non è strettamente necessaria.
Quello della
sintesi neoclassica è un modello che conduce dunque ad un risultato
apparentemente paradossale: “la rigidità dei salari è la causa della
disoccupazione” (p. 74). In altre parole la transizione da una condizione di
disequilibrio (di crisi) ad una di equilibrio avviene quando i diversi mercati
(del lavoro, della moneta e la funzione
di consumo) riescono ad interagire tra di loro senza rigidità.
Dunque “il
meccanismo di mercato non è intrinsecamente viziato, i processi di mercato
raggiungono e mantengono la piena occupazione”; se malgrado tutto nel breve
periodo (mentre nel lungo, appunto, andrà sempre tutto a posto da solo) si
dovesse sviluppare una situazione di disoccupazione sarebbe sempre per errori
di politica economica (come postulava Friedman per spiegare la crisi del ’29) o
disfunzioni istituzionali (come ipotizzano oggi per i paesi in debito di
“riforme strutturali”) o anche per effetto di particolari rigidità (tipicamente
del mercato del lavoro, come si cerca di fare dagli anni novanta). Ci sono alla
fine due scelte: “lungo la prima l’impiego oculato della politica fiscale e
monetaria fa superare gli ostacoli che impediscono il raggiungimento di uno
stato di pieno equilibrio ed elimina gli errori passati, causa di disoccupazione;
lungo la seconda, invece, si possono apportare delle modifiche alle
caratteristiche strutturali dell’economia che rimuovano quelle rigidità e
quelle deficienze istituzionali che provocano e fanno perdurare scostamenti
dalla piena occupazione” (p. 76).
Vorrei essere chiaro: l’idea è che se l’offerta di lavoro prevede che un
dato profilo, ad esempio un giovane diplomato di ceto medio-basso con poche
relazioni familiari di Amburgo, incontra solo proposte a 300,00 €/mese e su
questa base si determina un tot di disoccupazione (perché alcuni preferiscono
morire di fame facendo lavoretti saltuari a morire di fame essendo anche
costretti nella camicia di un rapporto di lavoro dipendente a 8 ore al giorno,
più straordinari non pagati in una struttura dispotica che controlla ogni
secondo della loro giornata ed impone ritmi frenetici) questa disoccupazione è
“volontaria” (è una scelta) e dunque non contraddice la teoria. Un mercato del
lavoro flessibile prende anche questi lavori e realizza la piena occupazione. Di
più, come proporrà Milton Friedman nel discorso all’AEA il 29 dicembre 1967, poiché
“troppa” occupazione può generare una spirale inflattiva esiste un “tasso
naturale di disoccupazione” che è quello che non stimola né inflazione né deflazione.
Un “gioco di prestigio” (cfr. Ackerlof, Shiller, Spiriti animali, p. 70) che
consente a cuor leggero di concentrarsi sull’inflazione senza temere la
disoccupazione (che, tanto, è “innaturale”). Nei Trattati che istituiscono l’Unione
Europea questa idea di successo trova espressione nel cosiddetto tasso di “disoccupazione
strutturale” che è stata contestata recentemente nelle note
tecniche del Documento di Bilancio 2015 italiano. Secondo la Commissione
Europea, ad esempio, in Spagna il livello di disoccupazione naturale (o “strutturale”)
dopo il quale dovrebbe partire l’inflazione è del 21%. Nessun vantaggio a
ridurla sotto.
Vediamo
all’opera questa logica nella risposta di Raghuram Rajan alla crisi del 2008
(ad esempio in questo post)
in cui propone un lento e “naturale” aggiustamento, anziché l’azione diretta
nell’economia. Come avevamo scritto “pur concordando con la posizione
neo-keynesiana che la fonte centrale del problema è la debole domanda per il
disindebitamento degli ex-mutuatari, Rajan propone una soluzione diversa.
Anziché rilanciare la domanda in generale (cosa che è “nella migliore delle
ipotesi un palliativo”), o ristrutturare in modo facilitato il debito
(leggermente più efficace, ma insufficiente a ripristinare la vecchia domanda),
l’unica soluzione sostenibile (l’altra è far ripartire “la giostra” del debito
insostenibile fino al prossimo crollo) è permettere all’offerta di regolare in
modo naturale la domanda. Facilitare, semmai, la riconversione dei lavoratori
edili e professionisti, invece che puntellare imprese senza futuro o sostenere
la domanda dei loro prodotti senza futuro con credito facile. Naturalmente
Rajan è cosciente che l’adeguamento dell’offerta può prendere tempo (e in
cinque anni c’è stato qualche progresso), ma l’alternativa è spendere decenni
con carichi elevati di debito pubblico, barcamenarsi nella gestione di bilanci
deboli e continui ripensamenti e marce indietro. Il caso giapponese mostra per
l’economista indiano che venti anni e un debito al 230% non sono bastati”.
Una conclusione decisamente non keynesiana, infatti Minsky ricorda come per l’economista
inglese la flessibilità dei salari peggiorava la situazione. E ciò sia per la
natura speculativa della domanda di investimenti, ma anche per il processo di
contrazione monetaria endogena indotto dal sistema bancario. Vediamo come,
perché ha proprio un’aria familiare: “una continua caduta dei salari, dei
prezzi e dei flussi di cassa delle
imprese fa sì che i potenziali clienti delle banche debbano sopportare per
tutta la durata dei debiti da loro contratti un onere assai più pesante. La
caduta del livello dei prezzi e dei salari tende ad innescare un processo
deflazionistico creditizio tale da ridurre la quantità di moneta, il che non fa
che aggravare la situazione sul mercato del lavoro: prezzi e salari flessibili
hanno effetti destabilizzanti” (p. 74).
L’idea di Keynes
(chiaro nella risposta all’articolo di Vilner nel 1937) è che l’economia ha
inevitabilmente un andamento ciclico, lungi dal tendere all’equilibrio, essa
non è in grado da sola di mantenere un regime di piena occupazione perché
quando lo raggiunge attiva meccanismi che la sbilanciano di nuovo. I vari stati
di sistema sono il boom, la crisi, la deflazione (noi siamo qui), la stagnazione, l’espansione e la ripresa. Un’economia
caratterizzata da investimenti privati, che cercano sempre di massimizzare in
concorrenza reciproca per l’accesso ai fattori (tra cui il capitale, ma anche
il lavoro e le materie prime o i macchinari) il rendimento relativo è
l’instabilità di questi a determinare il l’attivazione del ciclo economico. Ma,
con le parole di Minsky: “in un’economia dalle istituzioni finanziarie proprie
del capitalismo, va individuata nell’instabilità della composizione dei
portafogli e delle interrelazioni finanziarie [è] la causa di fondo del ciclo”.
Quindi quella che propone Keynes è una teoria fondata sugli investimenti per
spiegare le fluttuazioni della domanda che si verificano nel mondo reale e una
spiegazione finanziaria per spiegare le fluttuazioni degli investimenti.
Tutto si capisce
se si mette al centro un semplicissimo fatto: il futuro è incerto.
Keynes ne tratta
nel “Trattato sulla probabilità” del
1921, e poi lo riprende nella Teoria Generale, e nella replica a Vilner è
incerto ciò che non si sa ma è solo probabile. Circa il prezzo del rame o il
livello dei saggi di interesse tra un certo numero di anni noi non abbiamo
“alcuna base scientifica sulla quale costruire un qualsivoglia tipo di
probabilità suscettibile di misurazione precisa: non ne sappiamo semplicemente
nulla. Nondimeno la necessità di agire e di prendere decisioni ci costringe, in
quanto uomini pratici, a fare del nostro meglio per non tener conto di questa
scomoda circostanza e a comportarci come faremmo se avessimo a nostro vantaggio
il buon conteggio benthamiamo di una serie di vantaggi e svantaggi futuri –
ciascuno moltiplicato per la sua appropriata probabilità- in attesa solo di essere
sommati gli uni agli altri” (Keynes, risposta a Vilmer, 1937).
Un brano
straordinario. Qui troviamo il nucleo del problema davanti a cui ogni decisore
pratico è sempre (agire nell’incertezza) insieme alla risposta che consente a
K. di proporre comunque corsi di azione (fare “come se”, sapendolo) che Hayek
criticherà sulla base della stessa opinione (non ne sappiamo nulla) ma di
diversa decisione (non agire).
L’innovazione
finanziaria che porterà all’accelerazione della crisi dei mutui subprime
(chiamiamola così per capirci) è il frutto della stessa decisione, agire in
condizioni di incertezza, ma rimuovendo la consapevolezza che il “buon
conteggio” è un’astrazione.
Il problema è
che le “convenzioni” cui ricorriamo per agire in incertezza, come l’assumere
che il presente sia guida per il futuro, o che la maggioranza o la media
rappresentino una guida affidabile (K, 1937) rendono le nostre opinioni sul
futuro “soggette a variazioni repentine e violente”, tendono a “crollare di
schianto”.
Consapevoli di
ciò gli operatori cercano di mantenersi liquidi (e tanto più quanto le opinioni
sul futuro sono incerte). Il meccanismo di finanziamento degli investimenti in
un’economia capitalistica cristallizza nel proprio portafoglio di titoli
(qualunque essi siano) le opinioni passate degli operatori e dal quale
scaturiscono sistemi interrelati di obblighi e di pagamento presenti e futuri
ed i relativi incassi. Questa struttura genera un’ansia, fondata
sull’incertezza e la memoria degli eventi positivi e negativi, che determina
l’entità della conservazione in forma liquida della moneta. La moneta è quindi
soprattutto scorta di valore. E determina (il tesoreggiamento) il saggio di
interesse molto più direttamente dei prezzi (come presupposto dall’economia
classica). Insomma, “il prezzo dei beni capitali viene quindi determinato in
base a queste opinioni [quelle sullo stato futuro dell’economia] e al saggio di
interesse” (K. 1937).
Quando
l’intrinseco modello speculativo, che ogni operatore economico deve attuare nel
muoversi tra valore dei beni capitali acquisiti e obblighi assunti di
pagamento, basato su abilità e fortuna è ancora proporzionato, come “delle
bolle d’aria in un flusso continuo di intraprendenza”, secondo Keynes può non
causare alcun male; ma quando “l’intraprendenza diventa la bolla d’aria in un
vortice di speculazione. Quando lo sviluppo del capitale di un paese diviene un
sottoprodotto delle attività di un casino da gioco, è probabile che vi sia
qualcosa che non va bene” (K. TG, p. 319).
Se si comprende
che gli investimenti fluttuano in modo relativamente indipendente dai fattori
tecnologici e anche dall’offerta di moneta, ma connessi al sistema delle
aspettative e della rete di obblighi e valori influenzata da queste, è
l’interazione tra gli stati patrimoniali e la stratificazione dei debiti ad
essere al centro del funzionamento nei passaggi di fase del capitalismo. Sono
le strutture finanziarie a determinare l’andamento dei nuovi investimenti e la
sopravvivenza dei vecchi (M., p.168) ed il passaggio tra i vari stati
sistemici.
Se la quantità
di moneta di fatto attiva nel sistema economico è determinata endogenamente
(M., p.161) durante la fase di boom questa viene assorbita da attività
finanziarie via via più costose e rischiose, cosa che si inverte repentinamente
raggiunto un punto di rottura. Allora tutti cercano di vendere le proprie
attività per ripagare i propri debiti e questo “provoca una caduta del prezzo
dei beni capitali” attivando un processo di deflazione creditizia. L’economia
finisce per trovarsi in uno stato di disoccupazione e depressione (M. p. 167).
Man mano però che
il disinvestimento procede e gli operatori riassestano le proprie posizioni
(magari aiutati da opportune politiche facilitatrici) l’economia ricomincia a
crescere. Si entra in una nuova fase espansiva nella quale, però, prevale la
prudenza per il ricordo del crollo.
Tuttavia,
“appena si ritorna nei pressi della piena occupazione, la nuova generazione di
indovini economisti proclamerà la scomparsa definitiva del ciclo e l’avvento di
una nuova era di prosperità permanente. Adesso di può ritornare a prendere a
prestito perché i nuovi strumenti di politica economica (siano essi la politica
fiscale o il sistema della Riserva Federale) e la maggiore sofisticatezza dei
consiglieri economici costituiscono una garanzia sicura della scomparsa
definitiva di crisi e deflazioni creditizie. In realtà però nessuno stato
ciclico (boom, deflazione creditizia, stagnazione, ripresa, crescita di piena
occupazione) può avere durata illimitata: ciascuno di essi mette in azione
forze tendenti a rovesciarlo” (M, p. 169).
Questo breve
brano, scritto nel 1975, potrebbe tranquillamente essere stato scritto nel
2009. Insomma, è il sistema finanziario a regolare, in senso espansivo o
restrittivo, l’andamento degli investimenti, questo è il messaggio fondamentale
di Keynes secondo Minsky.
Quale la
conclusione che trae Minsky da questa complessa (a tratti) lettura
ricostruttiva del pensiero di Keynes? Lo scopo enunciato nel 1926 e poi nella
Teoria, da Keynes, di mettere insieme “efficienza economica, giustizia sociale
e libertà individuale”, non è ben servito dal meccanismo di mercato per come è
di fatto all’opera. Esso comporta, infatti, “una distribuzione socialmente
oppressiva del reddito e della ricchezza”. Occorre intervenire con qualche
grado di socializzazione degli investimenti, per garantire la piena occupazione
in modo stabile, e l’eliminazione della scarsità di capitale (in modo da
ridurre i redditi puri da capitale, fonte di ineguaglianza e distorsioni)
insieme ad un sistema di tassazione diretta “tale da ottenere una distribuzione
di reddito accettabile” (M, p. 193).
In particolare mentre
i redditi derivanti dalle differenze di abilità imprenditoriale erano per
Keynes giustificabili, quelli derivanti dalla proprietà semplice della
ricchezza (cioè i redditi dei rentier) non lo erano affatto. E’ il punto di
vista ripreso da Piketty nel suo famosissimo libro sul capitale.
Nella Teoria Generale (p. 546) Keynes scrive che “l’eutanasia del rentier e di
conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di
sfruttare il valore di scarsità del capitale” sarebbe derivato da uno stato di
piena occupazione senza guerre e crescita demografica, e dal conseguente
stabile crescente volume degli
investimenti.
Ma perché il capitale potrebbe cessare di essere
scarso al crescere degli investimenti (e quindi della capacità produttiva) in
condizioni di stabile piena occupazione?
Qui, per Minsky, si inserisce la visione della natura dei bisogni umani che il
giovane Keynes trasse dagli anni dell’illuminismo edwardiano. Quando nei
circoli di Cambridge (frequentati dalla migliore e più appassionata borghesia
“illuminata”) la vera natura umana era considerata soddisfatta da rapporti
sociali e affetti personali, integrità e realizzazione interiore. Tutte cose
alla portata di chiunque indipendentemente dalle ricchezze, dalla posizione o
dallo stato sociale. Dunque uno stato di “genuina opulenza” era raggiungibile
di fatto per tutti con una livello di “beni terreni” disponibile relativamente
basso.
In questa
visione i bisogni umani fondamentali (sufficienti per raggiungere la piena
soddisfazione e lo stato di completa libertà) sono in fondo limitati e sono
soddisfabili. Nel suo articolo del 1930 che abbiamo più volte narrato (“Prospettive
economiche per i nostri nipoti”), distingue per questo tra “bisogni assoluti”
e “relativi” (rivolti a distinguerci e soddisfare un senso di superiorità). I
secondi sono condannati come fatui e complessivamente patologici.
L’idea che
soddisfatti i “bisogni assoluti”, spontaneamente gli uomini avrebbero distolto
le energie residue a “scopi non economici” è fragorosamente fallita. Al posto
di una società più sobria, nella quale il capitale sarebbe diventato abbondante
per mancanza di applicazioni, abbiamo avuto la “società dei consumi” e la
costante moltiplicazione di “bisogni relativi” (come l’ultimo I-Phone). Questi
ultimi “possono avere intensità di capitale addirittura maggiore di quella dei
tradizionali bisogni assoluti” (M., p. 199).
Sarebbe quindi
l’autoregolazione dei bisogni ad essere l’idea centrale del modello sociale cui
Keynes pensa nel momento in cui immagina di poter ottenere una società ben
ordinata senza passare per forme di socialismo (che avversava).
Il compromesso
che invece si creò, per un trentennio buono, vedeva di fatto una sorta di
“socialismo per ricchi”, fondato su un ampio settore pubblico di equilibrio, un
settore industriale privato e spesa pubblica che viene giudicata per la sua
capacità di stimolare gli investimenti privati. Nel far questo si è messo in
modo secondo Minsky, “un processo autoavvitante nel quale per mantenere la
piena occupazione è necessario disporre di sempre maggiori quantità di
investimenti, per indurre le quali bisogna offrire incentivi sempre più
cospicui sotto forma di profitti e di sussidi alla produzione” (p. 206).
È un sistema
(siamo nel 1975) “intrinsecamente instabile” ed in accelerazione. La pratica di
favorire gli investimenti privati senza alcuna considerazione “per la loro
utilità in termini sociali” ha favorito infatti la proliferazione di bisogni
non essenziali di carattere “distintivo”. Questi tendono a far durare la
scarsità del capitale e quindi a favorire il relativo rendimento. In
particolare Minsky pone l’accento sulle spese militari e sulla pubblicità (p.
214) che “ha attirato l’economia nel vortice senza fondo del consumo superfluo,
senza limiti di saturazione”.
Sarebbe invece necessario,
riconoscendo che “per quanto riguarda la stabilità dell’occupazione e la
distribuzione del reddito, il sistema capitalistico è intrinsecamente tarato …
imboccare la strada opposta, sostenendo ed aumentando in modo diretti i redditi
dei ceti indigenti e costringendo i ricchi ad assumersi certi rischi” (p. 218).
Per completare
la lettura dell’importante testo di Minsky facciamo cenno a quel che succede in
quel periodo: siamo nel 1975 e Nixon si è dimesso da circa un anno, da quattro
è stato denunciato l’accordo di Bretton Woods e la convertibilità del dollaro,
dal 1973-4 il prezzo del petrolio si è quadruplicato, Alan Greenspan si è
appena insediato al Consiglio dei Consulenti Economici, Hayek ha preso il nobel
del 1974 (Milton Friedman quello del 1976). L’inflazione è al 9,2% negli USA ed
i disoccupati al 9%. E’ la stagflazione e ci troviamo su un crinale della
storia.
Anche se i tagli
radicali a spese e tasse imposti da Ford, con l’appoggio del Congresso
democratico, sortiranno qualche effetto (inflazione a 4,88% e disoccupati a
7,8% nel 1976), improvvisamente tutti si mettono alla ricerca di un meccanismo
per frenare l’inflazione, contrarre la spesa in disavanzo e incoraggiare gli
investimenti non attraverso sovvenzioni ma deregolazioni.
Sarà alla fine
il democratico Carter, che in una notevole svolta “austeriana”, nel 1978,
promuoverà altre deregolazioni, sgravi fiscali per le industrie blocchi di
assunzione e risparmi di spesa, oltre alla nomina di Volcker.
La direzione è
presa, ed è l’esatto opposto di quella che Minsky auspicava; la decisione che l’inflazione
(che colpisce lo stock di capitale) sia un problema maggiore della
disoccupazione (che colpisce il reddito aggregato) prende il centro della
scena.
Tre idee di
Laffer (la prima enunciata sul tovagliolo in una cena nel 1974) assumono un
ruolo centrale: la “curva di Laffer”,
che individuerebbe il livello ottimale di tassazione e consiglierebbe di
avviare dei tagli alle tasse più alte per massimizzare le entrate; quella,
strettamente connessa, che il “gocciolamento”
(una versione conservatrice dell’idea di Kahn, e lanciata da Keynes del “moltiplicatore”)
avrebbe trasferito le incrementate spese personali dei ricchi (quelle che
Minsky accusava di essere “consumo superfluo”) via via a tutti, e la “supply-side economy” in base alla quale
la spinta alla crescita si ottiene meglio incoraggiando i produttori a produrre
merci meno care (cioè attraverso una deflazione dei prezzi industriali). L’idea
è più o meno che “la marea solleverà tutti gli yacht” (come disse Walter
Mondale nel 1984).
Queste idee
(passate come reaganomics) si accompagnarono con una drastica stretta
monetaria, avviata da Volcker, che ridusse l’inflazione al 3,7% al prezzo di
alzare la disoccupazione vicino al livello della grande depressione e di
attirare in USA di nuovo i capitali (con disastrose conseguenze per il resto
del mondo, in particolare in via di sviluppo). La Curva di Philips si prendeva la sua vendetta.
Il terzo blocco
della politica di quegli anni è l’incremento della spesa pubblica. Contrariamente
ai programmi ideologici sbandierati, le sforbiciate alle imposte (in parte
revocate) si accompagnarono ad una esplosione della spesa militare (da 267
miliardi nel 1980 a 393 nel 1988 a parità di potere di acquisto) il debito
pubblico esplose, da 900 a 2.800 miliardi. E’ il fenomeno del “Minotauro globale”, che attrae i
capitali del mondo per finanziare le spese di consumo pubbliche (militari) e
private (di lusso), di cui parla
Varoufakis.
La versione di
Reagan, che “risolverà” il dilemma illustrato anche da Minsky (quando parla di “processo
autoavvitante”) con una singolare versione di keynesismo conservatore vestito
con gli abiti di Hayek (e Friedman), lascerà eredità profonde e per ora
permanenti. Gli ultimi dodici anni della vita di Hayek saranno ricchi di
soddisfazioni per l’anziano economista.
Il suo vecchio
amico Keynes (i rapporti tra i due erano molto meno accesi delle dispute
pubbliche) sembrava dimenticato, gli economisti di acqua dolce (Chicago)
dominavano. Nuovi “indovini economisti” avevano preso il centro della scena. Uno
dei più determinati, Robert Lucas,
affermò sicuro che “il problema centrale della macroeconomia, quello
della prevenzione delle recessioni, è stato risolto per ogni scopo pratico”,
Fukuyama proclamò la “fine della storia”.
Penserà il 2008
a rimettere in campo le idee del grande economista inglese.
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