L’oggi affonda
le sue radici nel passato, uno dei più prossimi rilevanti è l’esito dell’improvviso
disfacimento del mondo dell’est nel biennio 1989-91. Prima di allora avevamo la
Germania ancora divisa in due paesi, legalmente e spiritualmente ancora entro
le conseguenze della guerra, ma anche l’est europeo chiuso nella sua fortezza,
con le sue centinaia di milioni di anime. Quindi avevamo la tutela americana
dell’Europa ben ricordata ogni giorno dalle guardie di frontiera con l’orso
russo e le sue propaggini.
Dopo avremo la
Germania finalmente oltre la guerra, unita e potente (anche se per alcuni anni
alle prese con i costi della sua frettolosa
operazione), il Trattato di Maastricht in via di frettolosa ratifica, l’URSS
dissolta e l’Europa in preda alla febbre confusa della volontà di smarcarsi
dalla tutela.
Un libro
che illustra questi eventi mentre si danno, scritto da uno dei più eminenti
intellettuali europei, è “1989.
Riflessioni sulla rivoluzione in Europa”. Scritto in forma di una
immaginaria lettera ad un amico di Varsavia, prende l’avvio con un elogio della
“società aperta” ed il sospetto per la tentazione di sostituire un “regime
aborrito” (quello comunista) con il governo diretto del popolo. I paesi dell’est
sono in quegli anni in grande fermento, Havel sta cercando di sostituire alle
vecchie strutture del partito unico delle istituzioni democratiche.
Dahrendorf
ricorda quindi al suo amico immaginario (e conviene che lo rammentiamo anche
noi) la lezione di Robert
Michels, che partì socialista per addivenire al fascismo. Nato da una ricca
famiglia di imprenditori tedeschi e formatosi a Parigi e in Inghilterra e
Germania, nel 1904 si iscrisse al partito socialista perdendo la cattedra in
Germania. Allievo di Max Weber fu sociologo e politologo famoso per la
formulazione della “ferrea legge dell’oligarchia” (“Zur Soziologie des
Parteiwesens in der modernen Demokratie”, 1911). La tesi era che tutti i partiti
politici, anche quelli socialisti, in ordine al loro successo si trasformassero
inevitabilmente in burocrazie oligarchiche. Anche in Italia fu
vicino al sindacalismo rivoluzionario di marca socialista, rifuggendo dagli
eccessivi schematismi del marxismo (di cui sospettava il millenarismo). Nel
1907 ottenne una cattedra in Italia a Torino, dove insegnò per alcuni anni
sociologia economica. Dopo la prima guerra mondiale, però, aderì al fascismo,
immaginando che il movimento potesse liberarsi dell’intermediazione burocratica
dei partiti esistenti. Muore nel 1936.
Della tendenza
alla burocratizzazione, analizzata anche dal suo maestro Weber, Michels prende quindi la via di fuga della politica carismatica, diventando alfiere dell’elitismo e
della più completa svalutazione del parlamento (luogo in cui le élite fingono
di lottare tra di loro per puntare invece ad autoperpetuarsi). Una posizione che sarà
duramente criticata da Gramsci.
Dahrendorf,
ovviamente, non appoggia la deriva elistista del politologo fascista, ma
propone di “non disperare” e contrastare la “ferrea legge” con il controllo ed
il bilanciamento dei gruppi dirigenti (tramite le elezioni). Ma c’è di più: “questi
gruppi sono necessari. La democrazia è una forma di governo, non un bagno a
vapore di sentimenti popolari. Ha bisogno di gente che diriga, come di gente
che metta un freno agli evidenti errori politici e all’arroganza del potere”
(D., p.11).
La “società
aperta” alla quale pensa è quella di Popper (“La società aperta e i suoi nemici”,
1945) e non quella del “fosco” libro di Hayek (“La via della servitù”, 1944)
che propone, a vista di Dahrendorf, un via passiva che ripudia completamente l’idea
di fattibilità (machbarkeit) del mondo. L’ordinamento, per Hayek, si deve fare da sé, (“noi
siamo in grado di produrre un ordinamento dell’ignoto solo facendo sì che esso si ordini da sé”, H. cit p.28). Il sistema
del capitalismo è quindi “naturale” mentre quello del socialismo (o meglio
qualunque altro) è “presuntuoso”. Hayek, che all’est in quegli anni riscuoteva
molto successo (e ancora di più ne riscosse come guida culturale implicita dei Trattati
di lì a poco stipulati), “è anche un rischio. Come Marx, Hayek conosce tutte le
risposte. Non gli riesce facile sopportare il disordine del mondo reale. Si adira
con quelli che si sono mossi nella sua direzione senza seguirla fino in fondo,
come con i suoi avversari ideologici. Hayek è un teorico del tutto o niente …
sicché alla fine si arriva a una costituzione totale, in cui non resta nulla su
cui dissentire, a una società totale, a un altro totalitarismo”.
Ai suoi amici
dell’est, che guardano al capitalismo come un mito sostitutivo del fallito
comunismo, Dahrendorf dice che il prezzo pagato per uscire dalla stagnazione in
cui era caduto l’occidente nei settanta “è stato alto”, ed è stato sociale. “In
quasi tutti i paesi occidentali è emersa una sottoclasse di persone lungamente
disoccupate o permanentemente povere – un atto di accusa contro i nostri valori
se non una minaccia al tessuto delle nostre società”. Gli anni ottanta hanno
visto un “capitalismo d’azzardo”, nel quale “il denaro è stato generato dal
denaro più che dalla creazione di ricchezza durevole. L’andamento dei titoli
nelle borse maggiori, per esempio, ha avuto scarsi rapporti con la crescita
reale, e i crolli del 1987 e 1989 sono stati in larga misura capricciosi. Inoltre
il debito privato e pubblico ha alimentato buona parte della crescita” (p.19). La
situazione dunque “non è rosea”.
Ma c’è di più: “se
il capitalismo è un sistema, allora va combattuto. Tutti i sistemi significano
servitù, compreso il sistema ‘naturale’ di un totale ‘ordine di mercato’ in cui
nessuno cerca di fare nient’altro che custodire certe regole del gioco scoperte
da una setta misteriosa di consiglieri economici” (p. 34).
Dahrendorf,
insomma, in quel 1989 vede lontano, e traguarda molto chiaramente i rischi che
il quindicennio successivo si incaricheranno di concretare davanti ai nostri
piedi.
Ovviamente lui,
che è sempre stato dalla parte di un liberalismo “temperato” (o di quello che
chiama un “liberalismo radicale”), non vede nel socialismo la soluzione a
questi dilemmi. Sostiene, anzi, che “il socialismo è morto” e che la “terza via”
non valga a rianimarlo. Negli anni ottanta la lunga tradizione socialista nata
durante la seconda fase dell’età industriale, di fronte agli enormi problemi da
questa posti, ha incontrato una “strana morte” avendo vinto. L’idea è molto
semplice: il misto di democrazia e programmazione, libertà economica e
controllo della domanda, libertà e giustizia dominava ormai negli anni settanta tutti
i paesi OCSE. In conseguenza una larga maggioranza di persone erano ormai in
grado di soddisfare le proprie aspirazioni (e dunque non desideravano cambiare
più la situazione esistente). Questa “classe maggioritaria” (a volte definita
come “classe media”) dissolve però la base sociale della socialdemocrazia; in conseguenza la
lotta di classe si muta in mobilità sociale individuale. Il secondo elemento che concorre al declino è la burocratizzazione, necessaria per servirsi dello stato
per “riparare i torti del capitalismo” (p. 46).
Il terzo blocco
di riflessioni del libro di Dahrendorf è sulla Germania, la cui rapida
unificazione, accende timori per una “Europa balcanizzata dominata dalla sola
potenza che invece di disgregarsi si unisce” (p.102). Paure espresse dal
vaterlandlose geselle Gunther Grass, da Fritz Stern che temeva i “demoni del
potere egemonico” risvegliati dall’unificazione (discorso al Bundestag, 1988),
o Jurgen Habermas.
In questo contesto Peter Glotz (sia un intellettuale sia un politico della SPD) ha
sostenuto che ormai “lo stato nazionale è economicamente, ecologicamente,
militarmente e culturalmente obsoleto”, dunque che bisogna spostarsi sia “giù”,
verso le “tribù” (cioè il regionalismo) sia verso le “strutture sovranazionali”.
Una tesi “ben nota” (nella quale c’era spazio anche per la conservazione delle
due germanie), ma che ha il difetto, detto dall’ex Commissario Dahrendorf, di
“combinare sentimenti lodevoli con idee confuse e una stupefacente ignoranza
delle cose europee”. Infatti “non c’è alcun segno che il processo di
cooperazione europea renda superfluo lo stato nazionale per quel che riguarda i
suoi compiti essenziali”. Le parole restano sconnesse dai fatti (che è uno
degli indicatori più chiari dell’ideologia).
Di fronte a
queste aspirazioni confuse Kohl, praticamente, mise l’amico Mitterrand di fronte al
fatto così semplicemente quando a novembre 1989 annunciò i suoi “dieci punti per l’unità tedesca”, senza neppure il garbo di una telefonata. Il Giappone d’Europa (un
paese eccedente dal punto di vista economico –in termini di bilancia dei
pagamenti e commerciale - e impenetrabile culturalmente) va quindi per la sua strada
incurante delle conseguenze. “La palla di cera corporativistica che comprende
governo, grandi banche, grandi aziende, sindacati, mass-media di proprietà
statale e altre istituzioni riconosciute c’entra per qualcosa” (p. 114). Sia nello
spingere impetuosamente per l’annessione forzata del grande mercato dell’est,
sia per la resistenza costante messa all’opera negli anni successivi all’equilibrio
economico, pur necessario.
Da ultimo, l’unione
monetaria: un “progetto grandioso” e difficile. Con grandi problemi tecnici, ma
soprattutto politici. Dahrendorf in
questo anno crede che “l’unione monetaria europea si farà e va fatta, anche se non
si realizzerà così rapidamente né sistematicamente come suggerisce il Piano Delors,
che prevede fra l’altro una banca centrale europea entro il prossimo triennio”.
Si sbaglierà. E pochi
anni dopo la vedrà diversamente; già nel 1996 vedrà
l’Euro come un “temerario esperimento”.
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