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domenica 13 settembre 2015

Ralf Dahrendorf, “1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa”


L’oggi affonda le sue radici nel passato, uno dei più prossimi rilevanti è l’esito dell’improvviso disfacimento del mondo dell’est nel biennio 1989-91. Prima di allora avevamo la Germania ancora divisa in due paesi, legalmente e spiritualmente ancora entro le conseguenze della guerra, ma anche l’est europeo chiuso nella sua fortezza, con le sue centinaia di milioni di anime. Quindi avevamo la tutela americana dell’Europa ben ricordata ogni giorno dalle guardie di frontiera con l’orso russo e le sue propaggini.
Dopo avremo la Germania finalmente oltre la guerra, unita e potente (anche se per alcuni anni alle prese con i costi della sua frettolosa operazione), il Trattato di Maastricht in via di frettolosa ratifica, l’URSS dissolta e l’Europa in preda alla febbre confusa della volontà di smarcarsi dalla tutela.


Un libro che illustra questi eventi mentre si danno, scritto da uno dei più eminenti intellettuali europei, è “1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa”. Scritto in forma di una immaginaria lettera ad un amico di Varsavia, prende l’avvio con un elogio della “società aperta” ed il sospetto per la tentazione di sostituire un “regime aborrito” (quello comunista) con il governo diretto del popolo. I paesi dell’est sono in quegli anni in grande fermento, Havel sta cercando di sostituire alle vecchie strutture del partito unico delle istituzioni democratiche.
Dahrendorf ricorda quindi al suo amico immaginario (e conviene che lo rammentiamo anche noi) la lezione di Robert Michels, che partì socialista per addivenire al fascismo. Nato da una ricca famiglia di imprenditori tedeschi e formatosi a Parigi e in Inghilterra e Germania, nel 1904 si iscrisse al partito socialista perdendo la cattedra in Germania. Allievo di Max Weber fu sociologo e politologo famoso per la formulazione della “ferrea legge dell’oligarchia” (“Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie”, 1911). La tesi era che tutti i partiti politici, anche quelli socialisti, in ordine al loro successo si trasformassero inevitabilmente in burocrazie oligarchiche. Anche in Italia fu vicino al sindacalismo rivoluzionario di marca socialista, rifuggendo dagli eccessivi schematismi del marxismo (di cui sospettava il millenarismo). Nel 1907 ottenne una cattedra in Italia a Torino, dove insegnò per alcuni anni sociologia economica. Dopo la prima guerra mondiale, però, aderì al fascismo, immaginando che il movimento potesse liberarsi dell’intermediazione burocratica dei partiti esistenti. Muore nel 1936.

Della tendenza alla burocratizzazione, analizzata anche dal suo maestro Weber, Michels prende quindi la via di fuga della politica carismatica, diventando alfiere dell’elitismo e della più completa svalutazione del parlamento (luogo in cui le élite fingono di lottare tra di loro per puntare invece ad autoperpetuarsi). Una posizione che sarà duramente criticata da Gramsci.

Dahrendorf, ovviamente, non appoggia la deriva elistista del politologo fascista, ma propone di “non disperare” e contrastare la “ferrea legge” con il controllo ed il bilanciamento dei gruppi dirigenti (tramite le elezioni). Ma c’è di più: “questi gruppi sono necessari. La democrazia è una forma di governo, non un bagno a vapore di sentimenti popolari. Ha bisogno di gente che diriga, come di gente che metta un freno agli evidenti errori politici e all’arroganza del potere” (D., p.11).
La “società aperta” alla quale pensa è quella di Popper (“La società aperta e i suoi nemici”, 1945) e non quella del “fosco” libro di Hayek (“La via della servitù”, 1944) che propone, a vista di Dahrendorf, un via passiva che ripudia completamente l’idea di fattibilità (machbarkeit) del mondo. L’ordinamento, per Hayek, si deve fare da sé, (“noi siamo in grado di produrre un ordinamento dell’ignoto solo facendo sì che esso si ordini da sé”, H. cit p.28). Il sistema del capitalismo è quindi “naturale” mentre quello del socialismo (o meglio qualunque altro) è “presuntuoso”. Hayek, che all’est in quegli anni riscuoteva molto successo (e ancora di più ne riscosse come guida culturale implicita dei Trattati di lì a poco stipulati), “è anche un rischio. Come Marx, Hayek conosce tutte le risposte. Non gli riesce facile sopportare il disordine del mondo reale. Si adira con quelli che si sono mossi nella sua direzione senza seguirla fino in fondo, come con i suoi avversari ideologici. Hayek è un teorico del tutto o niente … sicché alla fine si arriva a una costituzione totale, in cui non resta nulla su cui dissentire, a una società totale, a un altro totalitarismo”.
Ai suoi amici dell’est, che guardano al capitalismo come un mito sostitutivo del fallito comunismo, Dahrendorf dice che il prezzo pagato per uscire dalla stagnazione in cui era caduto l’occidente nei settanta “è stato alto”, ed è stato sociale. “In quasi tutti i paesi occidentali è emersa una sottoclasse di persone lungamente disoccupate o permanentemente povere – un atto di accusa contro i nostri valori se non una minaccia al tessuto delle nostre società”. Gli anni ottanta hanno visto un “capitalismo d’azzardo”, nel quale “il denaro è stato generato dal denaro più che dalla creazione di ricchezza durevole. L’andamento dei titoli nelle borse maggiori, per esempio, ha avuto scarsi rapporti con la crescita reale, e i crolli del 1987 e 1989 sono stati in larga misura capricciosi. Inoltre il debito privato e pubblico ha alimentato buona parte della crescita” (p.19). La situazione dunque “non è rosea”.
Ma c’è di più: “se il capitalismo è un sistema, allora va combattuto. Tutti i sistemi significano servitù, compreso il sistema ‘naturale’ di un totale ‘ordine di mercato’ in cui nessuno cerca di fare nient’altro che custodire certe regole del gioco scoperte da una setta misteriosa di consiglieri economici” (p. 34).

Dahrendorf, insomma, in quel 1989 vede lontano, e traguarda molto chiaramente i rischi che il quindicennio successivo si incaricheranno di concretare davanti ai nostri piedi.

Ovviamente lui, che è sempre stato dalla parte di un liberalismo “temperato” (o di quello che chiama un “liberalismo radicale”), non vede nel socialismo la soluzione a questi dilemmi. Sostiene, anzi, che “il socialismo è morto” e che la “terza via” non valga a rianimarlo. Negli anni ottanta la lunga tradizione socialista nata durante la seconda fase dell’età industriale, di fronte agli enormi problemi da questa posti, ha incontrato una “strana morte” avendo vinto. L’idea è molto semplice: il misto di democrazia e programmazione, libertà economica e controllo della domanda, libertà e giustizia dominava ormai negli anni settanta tutti i paesi OCSE. In conseguenza una larga maggioranza di persone erano ormai in grado di soddisfare le proprie aspirazioni (e dunque non desideravano cambiare più la situazione esistente). Questa “classe maggioritaria” (a volte definita come “classe media”) dissolve però la base sociale della socialdemocrazia; in conseguenza la lotta di classe si muta in mobilità sociale individuale. Il secondo elemento che concorre al declino è la burocratizzazione, necessaria per servirsi dello stato per “riparare i torti del capitalismo” (p. 46).

Il terzo blocco di riflessioni del libro di Dahrendorf è sulla Germania, la cui rapida unificazione, accende timori per una “Europa balcanizzata dominata dalla sola potenza che invece di disgregarsi si unisce” (p.102). Paure espresse dal vaterlandlose geselle Gunther Grass, da Fritz Stern che temeva i “demoni del potere egemonico” risvegliati dall’unificazione (discorso al Bundestag, 1988), o Jurgen Habermas.
In questo contesto Peter Glotz (sia un intellettuale sia un politico della SPD) ha sostenuto che ormai “lo stato nazionale è economicamente, ecologicamente, militarmente e culturalmente obsoleto”, dunque che bisogna spostarsi sia “giù”, verso le “tribù” (cioè il regionalismo) sia verso le “strutture sovranazionali”. Una tesi “ben nota” (nella quale c’era spazio anche per la conservazione delle due germanie), ma che ha il difetto, detto dall’ex Commissario Dahrendorf, di “combinare sentimenti lodevoli con idee confuse e una stupefacente ignoranza delle cose europee”. Infatti “non c’è alcun segno che il processo di cooperazione europea renda superfluo lo stato nazionale per quel che riguarda i suoi compiti essenziali”. Le parole restano sconnesse dai fatti (che è uno degli indicatori più chiari dell’ideologia).
Di fronte a queste aspirazioni confuse Kohl, praticamente, mise l’amico Mitterrand di fronte al fatto così semplicemente quando a novembre 1989 annunciò i suoi “dieci punti per l’unità tedesca”, senza neppure il garbo di una telefonata. Il Giappone d’Europa (un paese eccedente dal punto di vista economico –in termini di bilancia dei pagamenti e commerciale - e impenetrabile culturalmente) va quindi per la sua strada incurante delle conseguenze. “La palla di cera corporativistica che comprende governo, grandi banche, grandi aziende, sindacati, mass-media di proprietà statale e altre istituzioni riconosciute c’entra per qualcosa” (p. 114). Sia nello spingere impetuosamente per l’annessione forzata del grande mercato dell’est, sia per la resistenza costante messa all’opera negli anni successivi all’equilibrio economico, pur necessario.

Da ultimo, l’unione monetaria: un “progetto grandioso” e difficile. Con grandi problemi tecnici, ma soprattutto politici. Dahrendorf in questo anno crede che “l’unione monetaria europea si farà e va fatta, anche se non si realizzerà così rapidamente né sistematicamente come suggerisce il Piano Delors, che prevede fra l’altro una banca centrale europea entro il prossimo triennio”.


Si sbaglierà. E pochi anni dopo la vedrà diversamente; già nel 1996 vedrà l’Euro come un “temerario esperimento”.

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