Nel libro “2C
(due gradi)” di Gianni Silvestrini un capitolo è dedicato, dopo un’ampia
rassegna delle tendenze ed opportunità per contrastare i cambiamenti climatici
e rendere sostenibile l’economia (due cose che devono necessariamente camminare
insieme o insieme cadere), alla transizione possibile verso un’economia “circolare”.
Il concetto è che il nuovo ambiente tecnologico nel quale sta gradualmente
evolvendo la società contemporanea (e del quale il libro è ricco di esempi) facilita
la polarizzazione proprio mentre potenzia la produttività a parità di input (di
energia, materie e lavoro). Man mano che la rivoluzione tecnologia ed
informatica in corso dagli anni settanta penetra con sempre più raffinate
soluzioni in tutti gli spazi della nostra vita e del nostro modo di lavorare,
come illustrano efficacemente Brynjolfson
e Mc Afee, molti tradizionali modi di vivere e lavorare ne sono spiazzati. Altri
ne saranno potenziati e ridefiniti.
Quel che sembra a quasi tutti gli osservatori di
poter dire è che il mondo del lavoro ne sarà profondamente trasformato e che
continuerà presumibilmente a crescere la polarizzazione che si vede abbondantemente
all’opera da alcuni decenni. Saranno soprattutto i redditi medi ad esserne
colpiti, ma potrebbero anche subire un danno quelli bassi (è di questi giorni
la notizia di una stampante 3D in grado di costruire case a basso costo in
Italia e quindi senza operai, direttori lavori, capicantiere e così via).
Ci sono molti modi di vedere queste dinamiche ed il
dibattito è molto acceso (e va da studiosi come Autor che restano alla fine ottimisti circa la possibilità di
inventare nuove occupazioni, alla luce dell’esperienza passata e secondo il
tacito presupposto che l’offerta trova sempre la sua domanda, ad altri, come ad
esempio Tyler
Cowen, che prevedono un futuro sostanzialmente catastrofico). I rischi sono
sicuramente presenti e molto
gravi.
Quel che si potrebbe immaginare, comunque,
estrapolando alcune tendenze
visibili, è che il lavoro cambierà. Con esso notevoli mutamenti difficili
da prevedere si avranno negli stili di vita e persino nelle strutture fisiche
delle nostre città e territori. Saranno probabilmente molto meno presenti di
oggi lavori dipendenti remunerati di massa, rigidi ed a tempo pieno (se non in
professioni di èlite e/o in forme di welfare nascosto) mentre cresceranno gli
stili di vita parzialmente sconnessi dall’economia monetaria e, dall’altra
parte, le attività che oggi classificheremmo come autonome o professionali (ma
anche nel terzo settore e/o volontarie). Non è difficile vedere che questa
trasformazione impatterà sugli schemi di mobilità, la distribuzione delle
grandi macchine territoriali, la funzionalizzazione degli spazi e dei tempi.
Il suo campo di attività prevalente (sul piano
quantitativo, non certo del potere o del glamour) dovrebbe essere quello che
oggi chiamiamo servizi alla persona ed alle attività variamente connesse con la
creazione di contenuti creativi per i media e la condivisione in generale.
Silvestrini vuole intravedere in questo la
possibilità di una transizione virtuosa (S., p. 207) precisamente all’incrocio
tra introiezione dei vincoli ambientali e potenzialità di dematerializzazione e
messa in contatto offerta dalle nuove tecnologie. Immagina, cioè, una società
meno centrata sull’economia e molto più connessa e solidale (per così dire “a
livello molecolare”). Dove uno spazio nuovo potrebbe essere riservato al
concetto antico di sobrietà e magari a qualche articolazione, si spera non
reazionaria, di quello di limite.
Una transizione tecnologica, economica e sociale “che
potrebbe implicare anche una revisione dei meccanismi di funzionamento del
capitalismo” (S, p.208).
La sharing
economy, che è sicuramente una delle tendenze più forti all’incrocio esatto
tra la standardizzazione e la comunicazione resa possibile dalle nuove
tecnologie a crescente penetrazione e la marginalizzazione economica di sempre
più ceti dal cuore della valorizzazione specificatamente economica, potrebbe
favorire un uso molto più intenso delle risorse (e potenzialmente ma non
necessariamente più efficiente) insieme ad un maggiore sviluppo delle capacità
di socializzazione individuali e di gruppo.
L’esperienza di condivisione lavora, insomma, in
direzione opposta a quella dell’individualizzazione egoista che è al centro
dell’attuale modello di sviluppo umano e che è largamente e giustamente
criticata dalla
comunicazione del papa. Un problema è che il distacco di parte delle
energie e delle infrastrutture e dei beni materiali dal circuito della monetizzazione,
potrebbe trasmettere potenti input deflattivi (come, in effetti, sta facendo),
e spingere il mondo verso una crescita complessivamente stazionaria o negativa
nel medio-lungo periodo. O almeno verso aggregati che sembrino indicare ciò (anche se sarebbe più un problema di
rappresentazione).
L’utopia vorrebbe che a questo stadio si possa
raggiungere il benessere e l’abbondanza, con la produzione dei beni affidata a
sistemi sempre più efficienti, potenti ed autonomi, mentre l’uomo, libero dal
bisogno di lavorare con il sudore della fronte, resterebbe libero di sviluppare
le proprie potenzialità. Abbiamo molti esempi di questo pensiero: Marx, 1878;
Mill, 1848; Keynes, 1930; Herman Daly, 2001; Georgescu Roegen, 1974; ma non potremmo essere più lontani.
Oggi il meccanismo, a velocità crescente, procede
attraverso lo sfruttamento dei differenziali, anche minimi, di valore espressi
nella semplice, austera e tremenda logica nominale della matematica. Il principio
ordinatore è la riduzione dell’attrito, la messa in contatto per definire nella
competizione la prevalenza del più potente. Del più dotato di potere, di
impeto. L’idea è che mettere in contatto e lasciare che tutto si scontri
determini la bellezza, la chiara bellezza dell’efficienza. Abbiamo messo in
movimento tutto il mondo in questo modo, e le forze colossali hanno schiacciato
tutto. È, questa, una idea corta (rapida, ma leggera) che dimentica ciò che è
stato fatto nel tempo, da mille mani diverse, con la cura e l’amore necessario
per essere fatto bene, per durare. Dimentica che l’uomo è sostenuto da questo
senso, da questi depositi. Questo gli architetti lo vedono da un particolare
punto di osservazione, che è anche una metafora: il territorio è sempre stato
visto come la matrice dalla quale scaturisce potere e organizzazione, nel quale
si ancorano identità e articolano relazioni, nel quale il valore viene
prodotto.
Oggi, invece, quando avviene (cioè quando non si
resta stagnanti, a compiere al più piccole manutenzioni), come si trasforma il
territorio? Nella logica della finanza, della creazione di denaro a partire da
occasioni di impiego “calde” (secondo il termine che usava Keynes), cioè
rapidi, violenti, frettolosi, astratti ed irresponsabili, del denaro che
atterra, insieme ai suoi agenti variamente connessi alla superèlite che governa
i “mercati”, quando trova qualche enclave da sfruttare. Un piccolo
differenziale, “un’occasione”. E poi, con la stessa velocità si sposta, estrae
le risorse locali e le riposiziona, aggregandole in qualche altro luogo nel
tutto connesso che è ormai il mondo. Ciò determina effetti ben conoscibili e di
cui abbiamo anche i termini: una crescita per “tasselli”, per “grandi progetti
urbani”, basata su volumi ed operazioni immobiliari estrattive, oggetti che si
posano sul territorio con poche giunture, determinando una crescita per
enclosure, blocchetti, aree a volte recintate, mentalmente, culturalmente ed anche
fisicamente distinte. Vista dall’alto, questa è una immagine caratteristica, i
posteri vi leggeranno la frammentazione individualistica della nostra società,
il suo essere diventata spezzettata, plurale in senso negativo, reciprocamente
estranea. I tasselli, spesso anzi normalmente indifferenti al tessuto delicato
del territorio (ma alla ricerca di una “immagine di marca” utile al marketing
da montarci sopra), sono espressi nella logica dell’attrazione dei capitali
finanziari mobili. Dal punto di vista proprio tecnico, sono operazioni potenti perché
sono costruite, con grande professionalità, per generare un pacchetto di
prodotti finanziari evoluti (prodotti derivati, fondati solo in ultima istanza
sul ferro e cemento dell’operazione edilizia e comunque sempre su molte e
sconnesse iniziative) che valorizzano la
promessa di flussi economici estratti
dalla domanda interna delle città su cui si inseriscono. La differenza
rispetto a prima è che questi capitali, in un certo senso, sono creati (teoria endogena della moneta) dalla promessa che viene
costruita. La costruzione di una pompa estrattiva di reddito crea le condizioni
per attivare la posizione contabile che genera il denaro necessario in una
delle molte fabbriche più o meno nascoste (shadow) di denaro privato che
attraversano il nostro mondo.
Apriamo un inciso su cui siamo spesso tornati: il
meccanismo si capisce meglio se si comprende che il denaro non
è una “cosa”, ma è nella sua essenza un rapporto tra attori sociali. Una tecnologia sociale che riesce a crearlo
nel rapporto di credito (il denaro non viene “usato”, ma è più propriamente “creato”
a partire dall’insieme delle operazioni di credito/debito), ma non “dal nulla”
come spesso si dice: è generato propriamente dalla promessa di restituzione del
debitore. Il denaro cioè, creato originariamente dalle promesse di restituzione
(cioè dal debito), è in sostanza una tecnologia sociale potentissima che
rappresenta e determina un rapporto di dominazione. Rappresenta il lavoro del
debitore che tramite esso (ricevendolo) si impegna a servirlo.
Questa natura del denaro è ulteriormente rafforzata dall’immensa espansione
monetaria “calda” generata continuamente dalle Banche Centrali (Americana, Europea,
Inglese e Giapponese, ma anche Cinese) .
Il punto è che tutto questo denaro finanziario mette
al lavoro un costante flusso di cercatori di occasioni, in cerca di nuovi
debitori per creare ulteriore denaro (cioè per stabilire rapporti di dominazione che i inducano i
percettori a lavorare per restituirlo), che vorticosamente si muovono tra i
territori ad accendere nuove operazioni finanziarie “speculative”. In realtà si
tratta di una sorta di dipendenza: in sostanza all’accensione di una nuova
operazione finanziaria viene acceso anche un contratto di finanziamento che
attiva contabilmente un flusso di denaro, prima non esistente (perché non
esisteva il suo presupposto, l’impegno a servirlo da parte di un debitore),
quindi lo trasferisce al debitore e simmetricamente accende una posizione
contabile negativa nell’istituto emittente. Tutto molto semplice, si tratta di due
catene credito/debito connesse. Ciò significa che man mano che il debito è
restituito va a cancellare la posizione contabile negativa e dunque “scompare”
(salvo la parte che resta come parcella dell’istituto). Resterebbe un problema:
nel frattempo (e può significare per i dieci anni di un contratto di mutuo)
l’emittente si trova con un debito ed un credito. Il primo per l’accensione
della posizione contabile negativa, il secondo per il contratto di restituzione
con il beneficiario del finanziamento. Ma
in caso non sia restituito ha un rischio da gestire. Dunque non ne può
accendere in numero illimitato. Questo problema è stato
risolto dalle Banche Centrali e dalla Finanza Ombra. È la grande
innovazione degli anni novanta: i titoli sono reimpacchettati e venduti (o
depositati che è lo stesso) e quindi sono immediatamente “chiusi”; se ne
possono aprire altri. In questo senso la finanza apre debiti locali e li
distribuisce. Alla lunga questo ha reso instabile il sistema e creato eccesso
di debito insostenibile.
Torniamo a questo punto agli impatti sul territorio:
come abbiamo detto il capitale di debito cerca di trovare un’occasione di
investimento, ovvero cerca essenzialmente qualcuno che possa pagare, nel tempo,
le rate del finanziamento, se non lo trova non esiste, dunque il processo di
finanziamento produce due effetti simmetrici e di segno opposto:
-
Genera immediate
risorse economiche che entrano nel circuito locale, tramite i beni e
servizi che sono necessari per realizzare l’investimento e/o i consumi e gli
ulteriori investimenti (ma finanziati “per cassa”) che i percettori dei flussi
eventualmente compiono;
-
estrae nel tempo
flussi di valore creati dal lavoro, che vanno a remunerare il contratto di
debito.
Produce, in altre parole, un beneficio immediato e un danno nel tempo (cioè un’estrazione di
valore ed un obbligo di lavoro per servire questo valore) più graduale. Da
questa ricostruzione schematica si può comprendere cosa è stato strutturalmente
perso quando la finanza si “è alzata”. Fa molta differenza se il percorso di
finanziamento è locale, passando per una banca cooperativa o una cassa, che
investe sul territorio gli utili, e utilizza il volano creato per espandere la
ricchezza locale, o un segmento di una catena creditizia internazionale che li
confeziona e li rivende magari in Germania:
-
La prima
dinamica è “lenta”, non ha molto volume di fuoco, ed è inefficiente nei termini
relativi del nuovo pensiero economico, se messa a confronto con una catena
lunga, velocissima e capace di mobilitare in un sol luogo immense risorse.
-
La seconda è una
sorta di tecnologia potente, che opera estraendo valore locale e creando le
condizioni relazionali ed i canali tecnici per trasferirlo ai risparmiatori
internazionali (cioè ai “mercati”). In un certo senso, in modo abbreviato, si
potrebbe dire che i lavoratori locali indebitati si trovano a farlo per i
“mercati”.
Alla fine quale è la conclusione? Che questa potentissima
tecnologia sociale, grazie a questi perfezionamenti (peraltro concettualmente
tutti già noti da secoli) resi a lor volta potentissimi dal linguaggio
informatico e dalle reti di comunicazione, crea,
mette in contatto e determina condizioni di dipendenza (certo
reciproca) tra attori lontanissimi che non si conoscono e che non nutrono
reciprocamente alcun rapporto e responsabilità.
Il punto è che l’impersonalità di questo rapporto, e
la sua lunghezza, consente la cattura dei territori in una dinamica di
dipendenza. Infatti, se un territorio non attrae sempre nuovi “capitali” (cioè,
non crea le condizioni di crearli, attraverso sempre nuove ed appropriate
procedure di rendimento) si svuota progressivamente, per effetto del “servizio”
dei vecchi capitali in scadenza. In certo senso, si inaridisce.
Il reddito dei suoi attori sociali ed abitanti “evapora” e ricade, come
pioggia, altrove.
Fa dipendere la sopravvivenza dei territori, e della
economia locale, da sempre nuovi flussi di credito. Come un drogato dalla sua dose.
In “La finanza su
trampoli”, avevamo detto che la
faccia più facilmente visibile di questa logica è espressa con quella ampia e
ricorrente pratica (che storicamente andava sotto il nome di “mercantilismo”),
che esprime la prevalenza della logica dell’esportatore, di chi ricerca i
clienti per i propri prodotti nei mercati aperti mondiali verso i quali non ha
alcuna responsabilità. Questa logica fu espressa in modo esemplare
dall’imperialismo inglese tra settecento ed ottocento, oggi è incarnato dalla
capacità di partire sempre da una produzione determinata sistematicamente nel
territorio più “accogliente”, in quello che offre maggiori vantaggi a breve
termine e verso il quale è attivato un rapporto esclusivamente strumentale.
Non è sempre stato così: di norma, sino a pochi anni fa, la
produzione avveniva entro territori amici, nei quali permanevano
forti rapporti e reciproca protezione (il vecchio “capitalismo renano”, ma
anche il modello francese o italiano di cluster produttivo con le sue relazioni
creditizie e politiche locali). Un’attività imprenditoriale, infatti, prevede
normalmente investimenti pluriennali e determina rapporti forti e consolidati
con la comunità locale, alla cui forza e capacità ci si rivolge per
determinarla in produzione; ed alla quale in genere ci si rivolge come mercato
di sbocco primario. Questo storico modello, sul quale l’Italia ha costruito
buona parte delle proprie fortune negli anni del boom e seguenti (non credo sia
il caso ricordare tutta la ricerca sui “distretti”, la ricerca di Bagnasco, o
l’esempio della “comunità” di Olivetti), aveva una sua capacità di tenuta e una forza intrinseca che
in parte gli veniva proprio da queste relazioni. Da questa
responsabilità.
Una parte del problema, un effetto di questa logica del “corto e
veloce”, si manifesta come detto nella nuova finanza che si è “alzata sui
trampoli” nel corso degli anni novanta e in questi ultimi anni, perdendo, anche
per via di fusioni e aggregazioni, il rapporto con i tempi e le voci dei
territori locali ed i loro attori. Ormai sui trampoli, sempre più alti, operano
mega attori che guardano oltre ed in alto, che possono mobilitare (magari
riunendosi in colossali consorzi) gigantesche quantità di risorse ma solo a
condizione che rendano un euro più di quanto farebbero dall’altra parte del
mondo ed in un minuto in meno. I “trampoli” (informatici) su cui si è alzata la
costringono anzi a correre in cerca di utilizzi rapidi, frettolosi, in sostanza
violenti ed irresponsabili, rifuggendo dai vecchi utilizzi “freddi” (noiosi,
pazienti, cumulativi, capaci di essere attenti e seminali). Ma
questo atteggiamento da
predone (e qui vado al
ragionamento fatto in “Nomadi e
Stanziali”) tende a distruggere,
mentre le sovrasfrutta, le risorse territoriali. Cerca nicchie in cui è
presente qualche reddito, qualche valore, per estrarlo e portarlo via.
Il predone non crea colonie, ma al più provvisori campi di
lavoro, oppure stazioni di caccia.
Cosa c’è di più diverso dell’aspirazione ad attivare una “economia
circolare”?
Ma per riuscire a lavorare in questa direzione bisogna avere gli
occhi ben aperti, trovare ciò che ancora; ciò che si relaziona. Trovare in noi
la capacità di costruire sistemi di azione e di alleanza (che sia insieme
sociale e sempre politica) in grado di saper leggere e scrivere il quadro degli
interessi, ricomporre il mosaico delle identità. Un mosaico perché trova
immagine dall’affiancamento sapiente di tasselli diversi. Qualcosa che sia anche un progetto di società, che non
abbandoni gli sconfitti (che saranno sempre di più, se si sentiranno tali).
Riprendere nelle nostre mani la capacità di agire
collettivamente e non individualmente, di pensare il futuro (e ci vuole
coraggio) non più solo per pezzi. Non con il cacciavite, non “passo passo”. Indicando
e concentrando le forze.
Per questo anche un libro come quello di Silvestrini è utile. E’
stimolante. Indica e concentra.
Una funzione, in questa direzione, lo può svolgere anche il
mutamento del paradigma energetico, o, per dirla diversamente: il nesso
energia-informazione-risorse che può essere mobilitato dalla rivoluzione dei
prosumers e da quella dei makers, dalla sharing economy (e persino dalle sue
App), dalle tante frontiere dell’efficienza, da tutte le cose che elenca Silvestrini.
Dalla capacità, ormai tecnologicamente matura, di produrre e consumare,
conoscendola e gestendola, l’energia entro lo stesso cluster territoriale ed
alle diverse scale. In modo assolutamente efficiente.
L’insieme di queste innovazioni aprono la possibilità di una nuova centralità diffusa che può essere
insieme individuale e comunitaria. Individuale nella sua connessione alle infinite
“code lunghe” dell’innovazione che si dissemina in ogni luogo e della
produzione cooperativa in remoto (che è anche progettazione cooperativa remota,
tramite strutture open source, nuove modalità di costruzione condivisa di
contenuti, di traduzioni, di sincronizzazioni), e comunitaria perché muove
dalla consapevole condivisione di risorse locali e costruzione di senso comune.
Ciò presuppone la coltivazione della capacità di narrare e
descrivere la comunità locale (dove ciò non indica necessariamente una scala
spaziale e tanto meno dei confini dati) ed il territorio, prestare attenzione e
riconoscere le risorse (naturalmente anche energetiche); integrarle in un profilo
specifico, essere capaci di generare vantaggi competitivi specifici, ma agendo
collettivamente. Lavorare per un territorio capace di maggiore resistenza e
capacità, di orgoglio. Di indirizzare le risorse, salvaguardandole.
Lavorare a connettere, a rileggere, ripensare e riprogettare. Recuperare
anche chi è rimasto nelle innumerevoli sacche vuote che si generano
continuamente negli interstizi (che a volte sono oceani) ed è come un pesce
rosso in un dito d’acqua, metterlo in contatto con i giardini e le piscine che
si sono chiuse dietro ai loro fili spinati. Ampliare il “capitale spaziale” di
cui ci parlava l’ultimo Secchi,
sapendo che è una delle precondizioni perché si dia il “capitale sociale” e “capitale
culturale” che è ormai indispensabile per sopravvivere nell’età della
disintermediazione del lavoro che si prepara.
Per reinventarsi in essa.
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