Pagine

mercoledì 16 settembre 2015

Prospettive e sfide: l’economia circolare a partire da “2C” di Gianni Silvestrini


Nel libro “2C (due gradi)” di Gianni Silvestrini un capitolo è dedicato, dopo un’ampia rassegna delle tendenze ed opportunità per contrastare i cambiamenti climatici e rendere sostenibile l’economia (due cose che devono necessariamente camminare insieme o insieme cadere), alla transizione possibile verso un’economia “circolare”. Il concetto è che il nuovo ambiente tecnologico nel quale sta gradualmente evolvendo la società contemporanea (e del quale il libro è ricco di esempi) facilita la polarizzazione proprio mentre potenzia la produttività a parità di input (di energia, materie e lavoro). Man mano che la rivoluzione tecnologia ed informatica in corso dagli anni settanta penetra con sempre più raffinate soluzioni in tutti gli spazi della nostra vita e del nostro modo di lavorare, come illustrano efficacemente Brynjolfson e Mc Afee, molti tradizionali modi di vivere e lavorare ne sono spiazzati. Altri ne saranno potenziati e ridefiniti.

Quel che sembra a quasi tutti gli osservatori di poter dire è che il mondo del lavoro ne sarà profondamente trasformato e che continuerà presumibilmente a crescere la polarizzazione che si vede abbondantemente all’opera da alcuni decenni. Saranno soprattutto i redditi medi ad esserne colpiti, ma potrebbero anche subire un danno quelli bassi (è di questi giorni la notizia di una stampante 3D in grado di costruire case a basso costo in Italia e quindi senza operai, direttori lavori, capicantiere e così via).
Ci sono molti modi di vedere queste dinamiche ed il dibattito è molto acceso (e va da studiosi come Autor che restano alla fine ottimisti circa la possibilità di inventare nuove occupazioni, alla luce dell’esperienza passata e secondo il tacito presupposto che l’offerta trova sempre la sua domanda, ad altri, come ad esempio Tyler Cowen, che prevedono un futuro sostanzialmente catastrofico). I rischi sono sicuramente presenti e molto gravi.
Quel che si potrebbe immaginare, comunque, estrapolando alcune tendenze visibili, è che il lavoro cambierà. Con esso notevoli mutamenti difficili da prevedere si avranno negli stili di vita e persino nelle strutture fisiche delle nostre città e territori. Saranno probabilmente molto meno presenti di oggi lavori dipendenti remunerati di massa, rigidi ed a tempo pieno (se non in professioni di èlite e/o in forme di welfare nascosto) mentre cresceranno gli stili di vita parzialmente sconnessi dall’economia monetaria e, dall’altra parte, le attività che oggi classificheremmo come autonome o professionali (ma anche nel terzo settore e/o volontarie). Non è difficile vedere che questa trasformazione impatterà sugli schemi di mobilità, la distribuzione delle grandi macchine territoriali, la funzionalizzazione degli spazi e dei tempi.
Il suo campo di attività prevalente (sul piano quantitativo, non certo del potere o del glamour) dovrebbe essere quello che oggi chiamiamo servizi alla persona ed alle attività variamente connesse con la creazione di contenuti creativi per i media e la condivisione in generale.

Silvestrini vuole intravedere in questo la possibilità di una transizione virtuosa (S., p. 207) precisamente all’incrocio tra introiezione dei vincoli ambientali e potenzialità di dematerializzazione e messa in contatto offerta dalle nuove tecnologie. Immagina, cioè, una società meno centrata sull’economia e molto più connessa e solidale (per così dire “a livello molecolare”). Dove uno spazio nuovo potrebbe essere riservato al concetto antico di sobrietà e magari a qualche articolazione, si spera non reazionaria, di quello di limite.
Una transizione tecnologica, economica e sociale “che potrebbe implicare anche una revisione dei meccanismi di funzionamento del capitalismo” (S, p.208).

La sharing economy, che è sicuramente una delle tendenze più forti all’incrocio esatto tra la standardizzazione e la comunicazione resa possibile dalle nuove tecnologie a crescente penetrazione e la marginalizzazione economica di sempre più ceti dal cuore della valorizzazione specificatamente economica, potrebbe favorire un uso molto più intenso delle risorse (e potenzialmente ma non necessariamente più efficiente) insieme ad un maggiore sviluppo delle capacità di socializzazione individuali e di gruppo.
L’esperienza di condivisione lavora, insomma, in direzione opposta a quella dell’individualizzazione egoista che è al centro dell’attuale modello di sviluppo umano e che è largamente e giustamente criticata dalla comunicazione del papa. Un problema è che il distacco di parte delle energie e delle infrastrutture e dei beni materiali dal circuito della monetizzazione, potrebbe trasmettere potenti input deflattivi (come, in effetti, sta facendo), e spingere il mondo verso una crescita complessivamente stazionaria o negativa nel medio-lungo periodo. O almeno verso aggregati che sembrino indicare ciò (anche se sarebbe più un problema di rappresentazione).
L’utopia vorrebbe che a questo stadio si possa raggiungere il benessere e l’abbondanza, con la produzione dei beni affidata a sistemi sempre più efficienti, potenti ed autonomi, mentre l’uomo, libero dal bisogno di lavorare con il sudore della fronte, resterebbe libero di sviluppare le proprie potenzialità. Abbiamo molti esempi di questo pensiero: Marx, 1878; Mill, 1848; Keynes, 1930; Herman Daly, 2001; Georgescu Roegen, 1974; ma non potremmo essere più lontani.

Oggi il meccanismo, a velocità crescente, procede attraverso lo sfruttamento dei differenziali, anche minimi, di valore espressi nella semplice, austera e tremenda logica nominale della matematica. Il principio ordinatore è la riduzione dell’attrito, la messa in contatto per definire nella competizione la prevalenza del più potente. Del più dotato di potere, di impeto. L’idea è che mettere in contatto e lasciare che tutto si scontri determini la bellezza, la chiara bellezza dell’efficienza. Abbiamo messo in movimento tutto il mondo in questo modo, e le forze colossali hanno schiacciato tutto. È, questa, una idea corta (rapida, ma leggera) che dimentica ciò che è stato fatto nel tempo, da mille mani diverse, con la cura e l’amore necessario per essere fatto bene, per durare. Dimentica che l’uomo è sostenuto da questo senso, da questi depositi. Questo gli architetti lo vedono da un particolare punto di osservazione, che è anche una metafora: il territorio è sempre stato visto come la matrice dalla quale scaturisce potere e organizzazione, nel quale si ancorano identità e articolano relazioni, nel quale il valore viene prodotto.

Oggi, invece, quando avviene (cioè quando non si resta stagnanti, a compiere al più piccole manutenzioni), come si trasforma il territorio? Nella logica della finanza, della creazione di denaro a partire da occasioni di impiego “calde” (secondo il termine che usava Keynes), cioè rapidi, violenti, frettolosi, astratti ed irresponsabili, del denaro che atterra, insieme ai suoi agenti variamente connessi alla superèlite che governa i “mercati”, quando trova qualche enclave da sfruttare. Un piccolo differenziale, “un’occasione”. E poi, con la stessa velocità si sposta, estrae le risorse locali e le riposiziona, aggregandole in qualche altro luogo nel tutto connesso che è ormai il mondo. Ciò determina effetti ben conoscibili e di cui abbiamo anche i termini: una crescita per “tasselli”, per “grandi progetti urbani”, basata su volumi ed operazioni immobiliari estrattive, oggetti che si posano sul territorio con poche giunture, determinando una crescita per enclosure, blocchetti, aree a volte recintate, mentalmente, culturalmente ed anche fisicamente distinte. Vista dall’alto, questa è una immagine caratteristica, i posteri vi leggeranno la frammentazione individualistica della nostra società, il suo essere diventata spezzettata, plurale in senso negativo, reciprocamente estranea. I tasselli, spesso anzi normalmente indifferenti al tessuto delicato del territorio (ma alla ricerca di una “immagine di marca” utile al marketing da montarci sopra), sono espressi nella logica dell’attrazione dei capitali finanziari mobili. Dal punto di vista proprio tecnico, sono operazioni potenti perché sono costruite, con grande professionalità, per generare un pacchetto di prodotti finanziari evoluti (prodotti derivati, fondati solo in ultima istanza sul ferro e cemento dell’operazione edilizia e comunque sempre su molte e sconnesse iniziative) che valorizzano la promessa di flussi economici estratti dalla domanda interna delle città su cui si inseriscono. La differenza rispetto a prima è che questi capitali, in un certo senso, sono creati (teoria endogena della moneta) dalla promessa che viene costruita. La costruzione di una pompa estrattiva di reddito crea le condizioni per attivare la posizione contabile che genera il denaro necessario in una delle molte fabbriche più o meno nascoste (shadow) di denaro privato che attraversano il nostro mondo.

Apriamo un inciso su cui siamo spesso tornati: il meccanismo si capisce meglio se si comprende che il denaro non è una “cosa”, ma è nella sua essenza un rapporto tra attori sociali. Una tecnologia sociale che riesce a crearlo nel rapporto di credito (il denaro non viene “usato”, ma è più propriamente “creato” a partire dall’insieme delle operazioni di credito/debito), ma non “dal nulla” come spesso si dice: è generato propriamente dalla promessa di restituzione del debitore. Il denaro cioè, creato originariamente dalle promesse di restituzione (cioè dal debito), è in sostanza una tecnologia sociale potentissima che rappresenta e determina un rapporto di dominazione. Rappresenta il lavoro del debitore che tramite esso (ricevendolo) si impegna a servirlo. Questa natura del denaro è ulteriormente rafforzata dall’immensa espansione monetaria “calda” generata continuamente dalle Banche Centrali (Americana, Europea, Inglese e Giapponese, ma anche Cinese).
Il punto è che tutto questo denaro finanziario mette al lavoro un costante flusso di cercatori di occasioni, in cerca di nuovi debitori per creare ulteriore denaro (cioè per stabilire  rapporti di dominazione che i inducano i percettori a lavorare per restituirlo), che vorticosamente si muovono tra i territori ad accendere nuove operazioni finanziarie “speculative”. In realtà si tratta di una sorta di dipendenza: in sostanza all’accensione di una nuova operazione finanziaria viene acceso anche un contratto di finanziamento che attiva contabilmente un flusso di denaro, prima non esistente (perché non esisteva il suo presupposto, l’impegno a servirlo da parte di un debitore), quindi lo trasferisce al debitore e simmetricamente accende una posizione contabile negativa nell’istituto emittente. Tutto molto semplice, si tratta di due catene credito/debito connesse. Ciò significa che man mano che il debito è restituito va a cancellare la posizione contabile negativa e dunque “scompare” (salvo la parte che resta come parcella dell’istituto). Resterebbe un problema: nel frattempo (e può significare per i dieci anni di un contratto di mutuo) l’emittente si trova con un debito ed un credito. Il primo per l’accensione della posizione contabile negativa, il secondo per il contratto di restituzione con il beneficiario del finanziamento. Ma in caso non sia restituito ha un rischio da gestire. Dunque non ne può accendere in numero illimitato. Questo problema è stato risolto dalle Banche Centrali e dalla Finanza Ombra. È la grande innovazione degli anni novanta: i titoli sono reimpacchettati e venduti (o depositati che è lo stesso) e quindi sono immediatamente “chiusi”; se ne possono aprire altri. In questo senso la finanza apre debiti locali e li distribuisce. Alla lunga questo ha reso instabile il sistema e creato eccesso di debito insostenibile.

Torniamo a questo punto agli impatti sul territorio: come abbiamo detto il capitale di debito cerca di trovare un’occasione di investimento, ovvero cerca essenzialmente qualcuno che possa pagare, nel tempo, le rate del finanziamento, se non lo trova non esiste, dunque il processo di finanziamento produce due effetti simmetrici e di segno opposto:
-                                        Genera immediate risorse economiche che entrano nel circuito locale, tramite i beni e servizi che sono necessari per realizzare l’investimento e/o i consumi e gli ulteriori investimenti (ma finanziati “per cassa”) che i percettori dei flussi eventualmente compiono;
-                                        estrae nel tempo flussi di valore creati dal lavoro, che vanno a remunerare il contratto di debito.

Produce, in altre parole, un beneficio immediato e un danno nel tempo (cioè un’estrazione di valore ed un obbligo di lavoro per servire questo valore) più graduale. Da questa ricostruzione schematica si può comprendere cosa è stato strutturalmente perso quando la finanza si “è alzata”. Fa molta differenza se il percorso di finanziamento è locale, passando per una banca cooperativa o una cassa, che investe sul territorio gli utili, e utilizza il volano creato per espandere la ricchezza locale, o un segmento di una catena creditizia internazionale che li confeziona e li rivende magari in Germania:
-                                        La prima dinamica è “lenta”, non ha molto volume di fuoco, ed è inefficiente nei termini relativi del nuovo pensiero economico, se messa a confronto con una catena lunga, velocissima e capace di mobilitare in un sol luogo immense risorse.
-                                        La seconda è una sorta di tecnologia potente, che opera estraendo valore locale e creando le condizioni relazionali ed i canali tecnici per trasferirlo ai risparmiatori internazionali (cioè ai “mercati”). In un certo senso, in modo abbreviato, si potrebbe dire che i lavoratori locali indebitati si trovano a farlo per i “mercati”. 


Alla fine quale è la conclusione? Che questa potentissima tecnologia sociale, grazie a questi perfezionamenti (peraltro concettualmente tutti già noti da secoli) resi a lor volta potentissimi dal linguaggio informatico e dalle reti di comunicazione, crea, mette in contatto e determina condizioni di dipendenza (certo reciproca) tra attori lontanissimi che non si conoscono e che non nutrono reciprocamente alcun rapporto e responsabilità.
Il punto è che l’impersonalità di questo rapporto, e la sua lunghezza, consente la cattura dei territori in una dinamica di dipendenza. Infatti, se un territorio non attrae sempre nuovi “capitali” (cioè, non crea le condizioni di crearli, attraverso sempre nuove ed appropriate procedure di rendimento) si svuota progressivamente, per effetto del “servizio” dei vecchi capitali in scadenza. In certo senso, si inaridisce. Il reddito dei suoi attori sociali ed abitanti “evapora” e ricade, come pioggia, altrove.
Fa dipendere la sopravvivenza dei territori, e della economia locale, da sempre nuovi flussi di credito. Come un drogato dalla sua dose.

In “La finanza su trampoli”, avevamo detto che la faccia più facilmente visibile di questa logica è espressa con quella ampia e ricorrente pratica (che storicamente andava sotto il nome di “mercantilismo”), che esprime la prevalenza della logica dell’esportatore, di chi ricerca i clienti per i propri prodotti nei mercati aperti mondiali verso i quali non ha alcuna responsabilità. Questa logica fu espressa in modo esemplare dall’imperialismo inglese tra settecento ed ottocento, oggi è incarnato dalla capacità di partire sempre da una produzione determinata sistematicamente nel territorio più “accogliente”, in quello che offre maggiori vantaggi a breve termine e verso il quale è attivato un rapporto esclusivamente strumentale.
Non è sempre stato così: di norma, sino a pochi anni fa, la produzione avveniva entro territori amici, nei quali permanevano forti rapporti e reciproca protezione (il vecchio “capitalismo renano”, ma anche il modello francese o italiano di cluster produttivo con le sue relazioni creditizie e politiche locali). Un’attività imprenditoriale, infatti, prevede normalmente investimenti pluriennali e determina rapporti forti e consolidati con la comunità locale, alla cui forza e capacità ci si rivolge per determinarla in produzione; ed alla quale in genere ci si rivolge come mercato di sbocco primario. Questo storico modello, sul quale l’Italia ha costruito buona parte delle proprie fortune negli anni del boom e seguenti (non credo sia il caso ricordare tutta la ricerca sui “distretti”, la ricerca di Bagnasco, o l’esempio della “comunità” di Olivetti), aveva una sua capacità di tenuta e una forza intrinseca che in parte gli veniva proprio da queste relazioni. Da questa responsabilità.

Una parte del problema, un effetto di questa logica del “corto e veloce”, si manifesta come detto nella nuova finanza che si è “alzata sui trampoli” nel corso degli anni novanta e in questi ultimi anni, perdendo, anche per via di fusioni e aggregazioni, il rapporto con i tempi e le voci dei territori locali ed i loro attori. Ormai sui trampoli, sempre più alti, operano mega attori che guardano oltre ed in alto, che possono mobilitare (magari riunendosi in colossali consorzi) gigantesche quantità di risorse ma solo a condizione che rendano un euro più di quanto farebbero dall’altra parte del mondo ed in un minuto in meno. I “trampoli” (informatici) su cui si è alzata la costringono anzi a correre in cerca di utilizzi rapidi, frettolosi, in sostanza violenti ed irresponsabili, rifuggendo dai vecchi utilizzi “freddi” (noiosi, pazienti, cumulativi, capaci di essere attenti e seminali). Ma questo atteggiamento da predone (e qui vado al ragionamento fatto in “Nomadi e Stanziali”) tende a distruggere, mentre le sovrasfrutta, le risorse territoriali. Cerca nicchie in cui è presente qualche reddito, qualche valore, per estrarlo e portarlo via.
Il predone non crea colonie, ma al più provvisori campi di lavoro, oppure stazioni di caccia.

Cosa c’è di più diverso dell’aspirazione ad attivare una “economia circolare”?

Ma per riuscire a lavorare in questa direzione bisogna avere gli occhi ben aperti, trovare ciò che ancora; ciò che si relaziona. Trovare in noi la capacità di costruire sistemi di azione e di alleanza (che sia insieme sociale e sempre politica) in grado di saper leggere e scrivere il quadro degli interessi, ricomporre il mosaico delle identità. Un mosaico perché trova immagine dall’affiancamento sapiente di tasselli diversi. Qualcosa che sia anche un progetto di società, che non abbandoni gli sconfitti (che saranno sempre di più, se si sentiranno tali).

Riprendere nelle nostre mani la capacità di agire collettivamente e non individualmente, di pensare il futuro (e ci vuole coraggio) non più solo per pezzi. Non con il cacciavite, non “passo passo”. Indicando e concentrando le forze.

Per questo anche un libro come quello di Silvestrini è utile. E’ stimolante. Indica e concentra.

Una funzione, in questa direzione, lo può svolgere anche il mutamento del paradigma energetico, o, per dirla diversamente: il nesso energia-informazione-risorse che può essere mobilitato dalla rivoluzione dei prosumers e da quella dei makers, dalla sharing economy (e persino dalle sue App), dalle tante frontiere dell’efficienza, da tutte le cose che elenca Silvestrini. Dalla capacità, ormai tecnologicamente matura, di produrre e consumare, conoscendola e gestendola, l’energia entro lo stesso cluster territoriale ed alle diverse scale. In modo assolutamente efficiente.
L’insieme di queste innovazioni aprono la possibilità di una nuova centralità diffusa che può essere insieme individuale e comunitaria. Individuale nella sua connessione alle infinite “code lunghe” dell’innovazione che si dissemina in ogni luogo e della produzione cooperativa in remoto (che è anche progettazione cooperativa remota, tramite strutture open source, nuove modalità di costruzione condivisa di contenuti, di traduzioni, di sincronizzazioni), e comunitaria perché muove dalla consapevole condivisione di risorse locali e costruzione di senso comune.

Ciò presuppone la coltivazione della capacità di narrare e descrivere la comunità locale (dove ciò non indica necessariamente una scala spaziale e tanto meno dei confini dati) ed il territorio, prestare attenzione e riconoscere le risorse (naturalmente anche energetiche); integrarle in un profilo specifico, essere capaci di generare vantaggi competitivi specifici, ma agendo collettivamente. Lavorare per un territorio capace di maggiore resistenza e capacità, di orgoglio. Di indirizzare le risorse, salvaguardandole.
Lavorare a connettere, a rileggere, ripensare e riprogettare. Recuperare anche chi è rimasto nelle innumerevoli sacche vuote che si generano continuamente negli interstizi (che a volte sono oceani) ed è come un pesce rosso in un dito d’acqua, metterlo in contatto con i giardini e le piscine che si sono chiuse dietro ai loro fili spinati. Ampliare il “capitale spaziale” di cui ci parlava l’ultimo Secchi, sapendo che è una delle precondizioni perché si dia il “capitale sociale” e “capitale culturale” che è ormai indispensabile per sopravvivere nell’età della disintermediazione del lavoro che si prepara.


Per reinventarsi in essa.

Nessun commento:

Posta un commento