Dieci anni dopo
il suo libro
sul 1989, e cinque il suo famosissimo “Quadrare il cerchio”, (la nostra scheda qui) Dahrendorf torna a riflettere sulla crisi della democrazia e
sulla fase che si apre nella quale sembrano prevalere forme post-democratiche (nel
testo è citata la formula e la posizione
di Colin Crouch nel suo famoso libro). In questo contesto mutato, a suo parere, “si possono
affrontare i problemi più estendendo lo stato di diritto che la democrazia”. L’idea
dell’autore è semplice e molto nota, per citare le sue parole, la democrazia “non credo sia applicabile al di fuori dello
Stato-nazione” (p.9). e lo stato nazione gli appare in crisi terminale: la
decisione politica si forma ormai all’intersezione di molti livelli
internazionali o multinazionali, a tal punto da ridurre al poco confortevole
stato di “abbaiare alla luna” chi continua a proporre come soluzione la progettazione
di sempre nuovi mandati elettorali.
Una diagnosi,
questa, “melanconica” che lo porta, ad esempio, ad opporsi (perché irrealistico
ed anche inefficace) al progetto prodiano dell’elezione diretta del Presidente
della Commissione. Un progetto che trova oggi una applicazione bastarda nella
designazione preventiva del candidato presidente come “impegno morale” da
sottoporre alle urne. Bastarda in quanto, come si è visto, l’indicazione è alla
fine solo un indirizzo e la scelta resta soggetta inevitabilmente al gioco
politico dei contrappesi ed alle relative trattative tra stati. Abbiamo letto
in quel frangente sia la
posizione di Habermas, sia quella
per molti versi opposta, di Panebianco.
Nel suo
libro del 2001, Dahrendorf individua come cuore del problema il fatto della
globalizzazione. Le decisioni “stanno emigrando” dallo spazio tradizionale della
democrazia rendendole lontane ed irraggiungibili quanto a luogo, irresponsabili
rispetto al demos ed incontrollabili. Le decisioni vitali sono prese a
Francoforte, o a Bruxelles, o nella sede della Nato, o negli uffici del FMI
(sono i suoi esempi), altre a volte più importanti sono prese in uffici privati
di grandi corporations (si può leggere anche Arrighi
su questo punto, o Crouch);
si tratta di scelte di investimento che sono completamente estraee al processo
democratico. O, terzo campo nominato, gli effetti del movimento incontrollato
di capitali che sono decisi, orientati dal “misterioso network che chiamiamo
mercato”. Si, da un network, non da
un pulviscolo di decisori individuali come la sabbia del mare (o una “mano
nascosta”, secondo l’immagine che si vorrebbe attribuire a Smith). Da una ‘rete
di lavoro’, o un ‘lavoro a rete’, o ancora una ‘struttura a rete’, ‘misteriosa’.
Questa è l’immagine del mercato che Ralf Dahrendorf ci rimanda.
Il complesso di
decisioni che sono prese dalle istituzioni sovranazionali, dalle catene
decisionali dei grandi investitori e dai network opachi che costituiscono i
mercati finanziari (con i loro capobranchi come Soros), è al di fuori del processo democratico, e insieme lo fa apparire
impotente. Anzi “totalmente impotente”.
Ciò che dà l’immenso
potere di superare le istituzioni tradizionali è la disponibilità universale ed
immediata di informazioni. Questa, per il grande sociologo e politologo
anglo-tedesco è “la vera essenza della
globalizzazione”. Questo fa sì, niente di meno, “che le risposte sono
scomparse. Oggi non è più possibile dire che la democrazia e le sue istituzioni
sono la risposta” alle domande circa gli interessi che possono legittimamente
essere fatti valere; come controllarli e come assicurarsi che il potere non
resti sempre nelle stesse mani.
Ma Dahrendorf è un
sociologo e qui cala un asso: dopo aver avviato il sospetto che l’intero
processo, voluto da Blair, del Vertice di
Lisbona sia stato diretto nella direzione sbagliata (p. 17) punta l’attenzione
sull’emergere prepotente di quella che ha chiamato “una nuova classe globale” (mutuando il termine esattamente dalla
terminologia marxiana) legata da interessi che oltrepassano i confini
nazionali; una classe che dunque non è legata da alcun patriottismo. Una nuova
forza produttiva che vive in un mondo tutto suo, egemonizzando l’industria
culturale, indicando mode e trend. Si tratta dell’espressione di “nuove forze
economiche e sociali, che hanno a che fare con le tecnologie dell’informazione”.
Una nuova classe sociale che “si è sollevata sull’onda delle nuove forze”, che
gli forniscono insieme denaro e potere. Per essa le nuove forze centrali sono
alcuni assett intangibili, ma potentissimi nel contesto delle tecnologie dell’accesso
e del contatto dominanti il presente: Concetti,
Competenze e Connessioni (le “tre C”).
Come è avvenuto
sempre, secondo Dahrendorf, queste nuove classi dinamiche percepiscono ancora
confusamente (ma direi sempre più chiaramente) le istituzioni tradizionali come
ostacolo allo sviluppo a loro favorevole. Uno sviluppo che, ovviamente, entro
le loro categorie è “lo” Sviluppo. Queste istituzioni vanno distrutte o aggirate,
come a suo tempo avvenne con quelle del feudalesimo (e prima con l’assetto
imperiale romano).
Questo gruppo
sociale (ne avevamo parlato, tentativamente, in “Nomadi
e stanziali: la società ad un bivio”) potrebbe quantitativamente includere
l’1% della popolazione, ma coinvolge nelle sue catene di relazione e nell’aura
del proprio carisma, non meno del 20% nei paesi ad economia avanzata. Ma soprattutto
questo gruppo, che ha fatto spesso le stesse limitate scuole internazionali, master
esclusivi, che parla uno slang riconoscibile, che ha uno sguardo, un movimento
inconfondibile, che sente l’odore del successo, “fissa i trend, indica la
direzione, esercita l’egemonia culturale” (p.19).
Ma questo
gruppo, sostiene Dahrendorf, è “un
pericolo per la democrazia”. Naturalmente la elude, non ne capisce il
motivo, ne sente le regole come limiti. Non la inquadra nei suoi valori, il
merito, la velocità, la connessione, il successo.
Questa classe
globale è strutturalmente ineguale. E soprattutto non ha bisogno di nessuno,
per loro gli sconnessi non servono, i poveri (delle tre “C”) non sono
necessari.
Questi leader
silenziosi, dei quali politici come Tony Blair si circondava (e si circonda ora
che fa il consulente milionario), sono “il gruppo sociale al quale si addice
meglio che a chiunque altro l’ispirazione di fondo della Terza Via” (p.21). Così
si capisce molto meglio il refrain “meno
regole e meno tasse”.
Dato che, però,
non c’è mai un’azione senza avere anche una reazione, nel 2001 si registrava
anche una tendenza complementare: il regionalismo. È la famosa “glocalizzazione”,
di cui le cronache urbanistiche del finire anni novanta erano piene. Un “romanticismo”
regionalista estremamente ambiguo (ci riflettevo, anni fa, qui).
E poi, ovviamente, c’è il processo europeo. Un processo che non fu creato, dall’inizio, in
modo democratico e che si allontana sempre di più dall’antico ideale. “Un’entità politica in cui le leggi sono
fatte in segreto, in sessioni chiuse del Consiglio dei Ministri, [e che] è un
insulto ala democrazia” (p.36). Questo assetto muove già dalla Ceca
(Comunità del Carbone dell’Acciaio), e
poi trova un esemplare assetto con la CEE, in cui due istituzioni si
confrontano: una la Commissione, il punto di vista europeo, propone e l’altra,
il Consiglio che rappresenta gli interessi nazionali, decide. Il Parlamento Europeo
è una superfettazione (come si vede benissimo).
Anche se molto è
cambiato, “l’atto di nascita, il patrimonio genetico, il Dna dell’Europa è
ancora lì” (p. 35). L’intero progetto europeo, insomma, per Dahrendorf “è intrinsecamente
non democratico”, rispetto ai parametri del governo parlamentare degli
stati-nazione (p. 42). Non si sente “la voce del popolo”.
Una delle cose
più strane, è che questo progetto “intrinsecamente non democratico”, “per
qualche strana ragione” è diventato l’unica utopia politica rimasta. Ed in
particolare per la sinistra, che prima si opponeva sia in Germania (la SPD votò
contro la Ceca), in Francia (i socialisti fecero lo stesso, anche con la Cee) e
Italia (votarono
contro lo SME) e in Inghilterra. Dahrendorf se ne stupisce e cerca di
spiegarselo con il “sogno di un futuro migliore”, con il bisogno di utopie.
Con la sua
caratteristica “pensosa leggerezza”,
Dahrendorf pone insomma in questo piccolo libro che è uno dei suoi ultimi la
questione -al passaggio del millennio- del degrado, sotto i colpi della nuova “classe
globale” (alla quale non serve), della democrazia liberale fondata sui
dibattiti, la trasparenza e la rappresentanza. Una tendenza che pensa di fare a
meno del dibattito comprensibile e visibile a chiunque, che vede con fastidio
la complessità e cerca risposte facili. Coltiva leader, in contatto con questo
mondo, che possano sostenere di eliminare la complessità del reale con la
propria personale volontà.
Leader (nel
libro gli esempi sono Blair e Berlusconi) al quale occorre “impedire di farla
franca” (p. 130).
Per Dahrendorf anche
se la centralità dei parlamenti non esiste più nei fatti, resta il punto di poter
“esprimere una varietà di posizioni, in una varietà di modi, su una varietà di
questioni”. Questo punto deve essere conservato. In altre parole, “dopo la democrazia, noi dobbiamo costruire
una nuova democrazia”.
Insomma, tutto
il libro è preso nella “affezione” e nella nostalgia (che l’autore confessa
nell’ultima pagina) per la centralità dei parlamenti nella classica democrazia
liberale. Nel “vecchio e classico”, caro, Parlamento. E vede questa illustre e
fondamentale istituzione umiliata dall’insieme delle tre forze indicate e dalla
nuova classe globale che le informa.
Si tratta di un’idea, questa, semplice e potente. In qualche modo dopo essere stata focalizzata essa
sta lì, fissa, davanti ai nostri occhi. Riempendoli. Ci ipnotizza con la sua
semplice evidenza.
Ed è un’immagine
vera.
Ma non è troppo semplice?
Da una parte, lo
ricordava Dahl nel 1993, il fatto della mancanza di controllo delle risorse
cruciali, entro i confini dello Stato Nazione (che Habermas, a volte chiama “porosi”)
pone una necessità funzionale che incarna uno scambio non facile da giudicare
tra controllo (da parte dei cittadini) e pertinenza (o efficacia). Questo schema
favorisce l’insorgere di “governi dei guardiani di fatto” che, ovviamente,
definisce insieme problema e soluzione.
I contrappesi
andranno allora ricercati nella rete di movimenti e campagne (come vorrebbe
Crouch nel suo ultimo
libro), nell’esercizio della pressione sia della ragione pubblica
incorporata nelle nostre tradizioni politiche e culturali, e nelle nostre leggi e procedure, sia dell’azione
dei corpi e delle voci degli esclusi e dei “non utili”.
Senza questo vivente contrappeso (del quale, ad
esempio, parla con eloquenza Canfora)
il primo 20% si chiuderà nel suo fortino mentale ed operativo, completamente
impermeabile alla logica dell’eguaglianza coltivata nel XX secolo. Non che
questa tentazione sia senza senso e radici, essa affonda profondamente entro le
dinamiche della razionalizzazione strumentale, come vede con chiarezza
vivida un severo critico come Bergoglio, il pharmakon della tecnica
contiene questa hybris, ma insieme i suoi termini sono parte della nostra
apertura al mondo e ci costituiscono (in altre parole io non credo si possa
farne a meno, né che si debba). Essa affonda anche le sue radici nei molteplici
dibattiti politici, e nello scontro delle forze di cui ad esempio parla con
grande ampiezza e fascino Rosanvallon nella sua trilogia (“La
politica nell’età della sfiducia”, “La
legittimità democratica”, e “L’età
dell’uguaglianza”). A suo modo, affonda anche nella tendenza a “tornare nel
XIX secolo” (Rosanvallon) di cui parla a lungo (troppo) un autore a suo modo specialista
come Piketty.
Dicendolo in
altro modo, se la democrazia si discioglie nella rete diversamente
specializzata delle organizzazioni-guardiano e dei paesaggi gerarchici dei
mercati, trascinando con sé la politica nella forma familiare dei dibattiti qualificati,
mi pare in essa in qualche modo sia anche
concretata. Non certo nel
senso di Carli, ma a questa dinamica diffratta e disseminata (termini di
Rosanvallon di chiaro sapore “francese”) o desostanzializzata (termine
habermasiano) bisogna guardare con apertura per rintracciare sia le tracce che
il campo di battaglia della democrazia oggi.
In parte ciò può
anche significare “rinazionalizzare” (in senso di “rafforzare la coesione dei
membri che compongono le democrazie e riappropriarsi dell’ambito politico”,
come vuole Rosanvallon nel terzo
libro, p.299), ma riguardando ai termini in modo nuovo. Deve sicuramente significare reinterpretare,
salvaguardandoli, i “risultati normativi” dello stato democratico guadagnati
nelle lunghe lotte e dinamiche sociali dei due secoli “politici” che ci hanno
lasciato come
vuole Habermas. Non deve arrendersi.
Una democrazia
disciolta, e insieme concretata, nelle strutture discorsivamente solidificate e
funzionalmente connesse ci interroga con
la sfida di non perdere la capacità di essere società. Ri-appropriarsi
della capacità di immaginare, definire e nominare il destino in quanto comune. Costruire, tra nomadi
e stanziali, un mondo in cui non ci sia spazio solo per il 20% delle “tre C” ed
in cui le eterotopie che si
intravedono all’orizzonte, e financo le
loro proiezioni fisiche, siano respinte negli sgabuzzini della storia.
Questo, alla
fine, mi sembra il campo della battaglia.
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