Pagine

lunedì 14 settembre 2015

Ralf Dahrendorf, “Dopo la democrazia”


Dieci anni dopo il suo libro sul 1989, e cinque il suo famosissimo “Quadrare il cerchio”, (la nostra scheda qui) Dahrendorf torna a riflettere sulla crisi della democrazia e sulla fase che si apre nella quale sembrano prevalere forme post-democratiche (nel testo è citata la formula e la posizione di Colin Crouch nel suo famoso libro). In questo contesto mutato, a suo parere, “si possono affrontare i problemi più estendendo lo stato di diritto che la democrazia”. L’idea dell’autore è semplice e molto nota, per citare le sue parole, la democrazia “non credo sia applicabile al di fuori dello Stato-nazione” (p.9). e lo stato nazione gli appare in crisi terminale: la decisione politica si forma ormai all’intersezione di molti livelli internazionali o multinazionali, a tal punto da ridurre al poco confortevole stato di “abbaiare alla luna” chi continua a proporre come soluzione la progettazione di sempre nuovi mandati elettorali.
Una diagnosi, questa, “melanconica” che lo porta, ad esempio, ad opporsi (perché irrealistico ed anche inefficace) al progetto prodiano dell’elezione diretta del Presidente della Commissione. Un progetto che trova oggi una applicazione bastarda nella designazione preventiva del candidato presidente come “impegno morale” da sottoporre alle urne. Bastarda in quanto, come si è visto, l’indicazione è alla fine solo un indirizzo e la scelta resta soggetta inevitabilmente al gioco politico dei contrappesi ed alle relative trattative tra stati. Abbiamo letto in quel frangente sia la posizione di Habermas, sia quella per molti versi opposta, di Panebianco.

Nel suo libro del 2001, Dahrendorf individua come cuore del problema il fatto della globalizzazione. Le decisioni “stanno emigrando” dallo spazio tradizionale della democrazia rendendole lontane ed irraggiungibili quanto a luogo, irresponsabili rispetto al demos ed incontrollabili. Le decisioni vitali sono prese a Francoforte, o a Bruxelles, o nella sede della Nato, o negli uffici del FMI (sono i suoi esempi), altre a volte più importanti sono prese in uffici privati di grandi corporations (si può leggere anche Arrighi su questo punto, o Crouch); si tratta di scelte di investimento che sono completamente estraee al processo democratico. O, terzo campo nominato, gli effetti del movimento incontrollato di capitali che sono decisi, orientati dal “misterioso network che chiamiamo mercato”. Si, da un network, non da un pulviscolo di decisori individuali come la sabbia del mare (o una “mano nascosta”, secondo l’immagine che si vorrebbe attribuire a Smith). Da una ‘rete di lavoro’, o un ‘lavoro a rete’, o ancora una ‘struttura a rete’, ‘misteriosa’. Questa è l’immagine del mercato che Ralf Dahrendorf ci rimanda.
Il complesso di decisioni che sono prese dalle istituzioni sovranazionali, dalle catene decisionali dei grandi investitori e dai network opachi che costituiscono i mercati finanziari (con i loro capobranchi come Soros), è al di fuori del processo democratico, e insieme lo fa apparire impotente. Anzi “totalmente impotente”.
Ciò che dà l’immenso potere di superare le istituzioni tradizionali è la disponibilità universale ed immediata di informazioni. Questa, per il grande sociologo e politologo anglo-tedesco è “la vera essenza della globalizzazione”. Questo fa sì, niente di meno, “che le risposte sono scomparse. Oggi non è più possibile dire che la democrazia e le sue istituzioni sono la risposta” alle domande circa gli interessi che possono legittimamente essere fatti valere; come controllarli e come assicurarsi che il potere non resti sempre nelle stesse mani.

Ma Dahrendorf è un sociologo e qui cala un asso: dopo aver avviato il sospetto che l’intero processo, voluto da Blair, del Vertice di Lisbona sia stato diretto nella direzione sbagliata (p. 17) punta l’attenzione sull’emergere prepotente di quella che ha chiamato “una nuova classe globale” (mutuando il termine esattamente dalla terminologia marxiana) legata da interessi che oltrepassano i confini nazionali; una classe che dunque non è legata da alcun patriottismo. Una nuova forza produttiva che vive in un mondo tutto suo, egemonizzando l’industria culturale, indicando mode e trend. Si tratta dell’espressione di “nuove forze economiche e sociali, che hanno a che fare con le tecnologie dell’informazione”. Una nuova classe sociale che “si è sollevata sull’onda delle nuove forze”, che gli forniscono insieme denaro e potere. Per essa le nuove forze centrali sono alcuni assett intangibili, ma potentissimi nel contesto delle tecnologie dell’accesso e del contatto dominanti il presente: Concetti, Competenze e Connessioni (le “tre C”).
Come è avvenuto sempre, secondo Dahrendorf, queste nuove classi dinamiche percepiscono ancora confusamente (ma direi sempre più chiaramente) le istituzioni tradizionali come ostacolo allo sviluppo a loro favorevole. Uno sviluppo che, ovviamente, entro le loro categorie è “lo” Sviluppo. Queste istituzioni vanno distrutte o aggirate, come a suo tempo avvenne con quelle del feudalesimo (e prima con l’assetto imperiale romano).


Questo gruppo sociale (ne avevamo parlato, tentativamente, in “Nomadi e stanziali: la società ad un bivio”) potrebbe quantitativamente includere l’1% della popolazione, ma coinvolge nelle sue catene di relazione e nell’aura del proprio carisma, non meno del 20% nei paesi ad economia avanzata. Ma soprattutto questo gruppo, che ha fatto spesso le stesse limitate scuole internazionali, master esclusivi, che parla uno slang riconoscibile, che ha uno sguardo, un movimento inconfondibile, che sente l’odore del successo, “fissa i trend, indica la direzione, esercita l’egemonia culturale” (p.19).
Ma questo gruppo, sostiene Dahrendorf, è “un pericolo per la democrazia”. Naturalmente la elude, non ne capisce il motivo, ne sente le regole come limiti. Non la inquadra nei suoi valori, il merito, la velocità, la connessione, il successo.
Questa classe globale è strutturalmente ineguale. E soprattutto non ha bisogno di nessuno, per loro gli sconnessi non servono, i poveri (delle tre “C”) non sono necessari.

Questi leader silenziosi, dei quali politici come Tony Blair si circondava (e si circonda ora che fa il consulente milionario), sono “il gruppo sociale al quale si addice meglio che a chiunque altro l’ispirazione di fondo della Terza Via” (p.21). Così  si capisce molto meglio il refrain “meno regole e meno tasse”.

Dato che, però, non c’è mai un’azione senza avere anche una reazione, nel 2001 si registrava anche una tendenza complementare: il regionalismo. È la famosa “glocalizzazione”, di cui le cronache urbanistiche del finire anni novanta erano piene. Un “romanticismo” regionalista estremamente ambiguo (ci riflettevo, anni fa, qui).

E poi, ovviamente, c’è il processo europeo. Un processo che non fu creato, dall’inizio, in modo democratico e che si allontana sempre di più dall’antico ideale. “Un’entità politica in cui le leggi sono fatte in segreto, in sessioni chiuse del Consiglio dei Ministri, [e che] è un insulto ala democrazia” (p.36). Questo assetto muove già dalla Ceca (Comunità del Carbone  dell’Acciaio), e poi trova un esemplare assetto con la CEE, in cui due istituzioni si confrontano: una la Commissione, il punto di vista europeo, propone e l’altra, il Consiglio che rappresenta gli interessi nazionali, decide. Il Parlamento Europeo è una superfettazione (come si vede benissimo).
Anche se molto è cambiato, “l’atto di nascita, il patrimonio genetico, il Dna dell’Europa è ancora lì” (p. 35). L’intero progetto europeo, insomma, per Dahrendorf “è intrinsecamente non democratico”, rispetto ai parametri del governo parlamentare degli stati-nazione (p. 42). Non si sente “la voce del popolo”.


Una delle cose più strane, è che questo progetto “intrinsecamente non democratico”, “per qualche strana ragione” è diventato l’unica utopia politica rimasta. Ed in particolare per la sinistra, che prima si opponeva sia in Germania (la SPD votò contro la Ceca), in Francia (i socialisti fecero lo stesso, anche con la Cee) e Italia (votarono contro lo SME) e in Inghilterra. Dahrendorf se ne stupisce e cerca di spiegarselo con il “sogno di un futuro migliore”, con il bisogno di utopie.


Con la sua caratteristica “pensosa leggerezza”, Dahrendorf pone insomma in questo piccolo libro che è uno dei suoi ultimi la questione -al passaggio del millennio- del degrado, sotto i colpi della nuova “classe globale” (alla quale non serve), della democrazia liberale fondata sui dibattiti, la trasparenza e la rappresentanza. Una tendenza che pensa di fare a meno del dibattito comprensibile e visibile a chiunque, che vede con fastidio la complessità e cerca risposte facili. Coltiva leader, in contatto con questo mondo, che possano sostenere di eliminare la complessità del reale con la propria personale volontà.

Leader (nel libro gli esempi sono Blair e Berlusconi) al quale occorre “impedire di farla franca” (p. 130).

Per Dahrendorf anche se la centralità dei parlamenti non esiste più nei fatti, resta il punto di poter “esprimere una varietà di posizioni, in una varietà di modi, su una varietà di questioni”. Questo punto deve essere conservato. In altre parole, “dopo la democrazia, noi dobbiamo costruire una nuova democrazia”.


Insomma, tutto il libro è preso nella “affezione” e nella nostalgia (che l’autore confessa nell’ultima pagina) per la centralità dei parlamenti nella classica democrazia liberale. Nel “vecchio e classico”, caro, Parlamento. E vede questa illustre e fondamentale istituzione umiliata dall’insieme delle tre forze indicate e dalla nuova classe globale che le informa.
Si tratta di un’idea, questa, semplice e potente. In qualche modo dopo essere stata focalizzata essa sta lì, fissa, davanti ai nostri occhi. Riempendoli. Ci ipnotizza con la sua semplice evidenza.

Ed è un’immagine vera.

Ma non è troppo semplice?

Da una parte, lo ricordava Dahl nel 1993, il fatto della mancanza di controllo delle risorse cruciali, entro i confini dello Stato Nazione (che Habermas, a volte chiama “porosi”) pone una necessità funzionale che incarna uno scambio non facile da giudicare tra controllo (da parte dei cittadini) e pertinenza (o efficacia). Questo schema favorisce l’insorgere di “governi dei guardiani di fatto” che, ovviamente, definisce insieme problema e soluzione.
I contrappesi andranno allora ricercati nella rete di movimenti e campagne (come vorrebbe Crouch nel suo ultimo libro), nell’esercizio della pressione sia della ragione pubblica incorporata nelle nostre tradizioni politiche e culturali, e  nelle nostre leggi e procedure, sia dell’azione dei corpi e delle voci degli esclusi e dei “non utili”.

Senza questo vivente contrappeso (del quale, ad esempio, parla con eloquenza Canfora) il primo 20% si chiuderà nel suo fortino mentale ed operativo, completamente impermeabile alla logica dell’eguaglianza coltivata nel XX secolo. Non che questa tentazione sia senza senso e radici, essa affonda profondamente entro le dinamiche della razionalizzazione strumentale, come vede con chiarezza vivida un severo critico come Bergoglio, il pharmakon della tecnica contiene questa hybris, ma insieme i suoi termini sono parte della nostra apertura al mondo e ci costituiscono (in altre parole io non credo si possa farne a meno, né che si debba). Essa affonda anche le sue radici nei molteplici dibattiti politici, e nello scontro delle forze di cui ad esempio parla con grande ampiezza e fascino Rosanvallon nella sua trilogia (“La politica nell’età della sfiducia”, “La legittimità democratica”, e “L’età dell’uguaglianza”). A suo modo, affonda anche nella tendenza a “tornare nel XIX secolo” (Rosanvallon) di cui parla a lungo (troppo) un autore a suo modo specialista come Piketty.

Dicendolo in altro modo, se la democrazia si discioglie nella rete diversamente specializzata delle organizzazioni-guardiano e dei paesaggi gerarchici dei mercati, trascinando con sé la politica nella forma familiare dei dibattiti qualificati, mi pare in essa in qualche modo sia anche concretata. Non certo nel senso di Carli, ma a questa dinamica diffratta e disseminata (termini di Rosanvallon di chiaro sapore “francese”) o desostanzializzata (termine habermasiano) bisogna guardare con apertura per rintracciare sia le tracce che il campo di battaglia della democrazia oggi.
In parte ciò può anche significare “rinazionalizzare” (in senso di “rafforzare la coesione dei membri che compongono le democrazie e riappropriarsi dell’ambito politico”, come vuole Rosanvallon nel terzo libro, p.299), ma riguardando ai termini in modo nuovo. Deve sicuramente significare reinterpretare, salvaguardandoli, i “risultati normativi” dello stato democratico guadagnati nelle lunghe lotte e dinamiche sociali dei due secoli “politici” che ci hanno lasciato come vuole Habermas. Non deve arrendersi.
Una democrazia disciolta, e insieme concretata, nelle strutture discorsivamente solidificate e funzionalmente connesse ci interroga con la sfida di non perdere la capacità di essere società. Ri-appropriarsi della capacità di immaginare, definire e nominare il destino in quanto comune. Costruire, tra nomadi e stanziali, un mondo in cui non ci sia spazio solo per il 20% delle “tre C” ed in cui le eterotopie che si intravedono all’orizzonte, e financo le loro proiezioni fisiche, siano respinte negli sgabuzzini della storia.



Questo, alla fine, mi sembra il campo della battaglia. 

Nessun commento:

Posta un commento