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domenica 16 dicembre 2018

Samir Amin, “Il virus liberale”



Proseguendo la lettura dei libri[1] dell’economista egiziano Samir Amin[2], che da poco ci ha lasciato tocca a questo libro del 2004, che reca come sottotitolo “La guerra permanente e l’americanizzazione del mondo” e cade subito dopo l’avvio della Seconda Guerra del Golfo[3]; un evento che rappresenta, per molta parte del mondo non allineato agli Usa, un autentico shock[4], accelerando la presa di consapevolezza del carattere imperiale e violento della mondializzazione capitalista.
Naturalmente Amin non aveva bisogno di vedere gli eserciti americani invadere, con pretesti falsi, un paese sovrano e bombardarlo per anni, per essere persuaso del carattere imperiale del potere occidentale.



In realtà, come si può leggere più dettagliatamente in nota 2, la critica di Samir Amin è molto più profonda e radicata in una specifica interpretazione delle dinamiche economico-sociali del capitalismo inteso come sistema intrinsecamente mondiale e gerarchizzante. Per la precisione il capitalismo è letto come regime in cui successivi stati di squilibrio sono sempre prodotti da scontri sociali e quindi politici; scontri situati sempre al di là del mercato.
L’economia come forma ideologica del liberalismo è, quindi, il rovesciamento di questa realtà. Un rovesciamento che confonde efficacia sociale con efficacia economica, e peraltro nelle ultime versioni la restringe ulteriormente alla semplice redditività finanziaria. Che considera complementari l’attuazione di un mercato generalizzato ed uniforme (che è un’illusione) con le condizioni della democrazia. Ed infine tende ad attribuire un carattere normativo al paese più ‘sviluppato’, ovvero a farne modello di tutti gli altri.

La realtà è, invece, che i mercati sono sempre, invariabilmente e soprattutto quando ‘deregolati’ e ‘liberalizzati’, regolati da poteri di monopolio il cui fondamento è sociale e politico.
Dunque il mercantilismo è per Amin una forma di ‘alienazione’; è anzi “la forma specifica del capitalismo”, in grado di governare la riproduzione della società nel suo complesso e non soltanto la riproduzione del sistema economico. Ma questa riproduzione non si assesta mai in un ‘equilibrio generale’, come vorrebbe la dogmatica neoliberale. Al contrario si sposta incessantemente da uno squilibrio all’altro. La possibilità dell’equilibrio generale, astrattamente ipotizzabile, è di fatto concretamente e costantemente impedita dalla parcellizzazione dei capitali e quindi dalla loro concorrenza di tutti contro tutti.

Dunque è semplice: “il capitalismo è sinonimo di squilibrio permanente[5].

O, in altro modo, “il capitalismo non esiste al di fuori della lotta di classe, del conflitto tra gli Stati e della politica”.

L’autore dal quale fa partire il rovesciamento di questa semplice realtà, nella forma ideologica del suo nascondimento, è Leon Walras[6], con questi “l’economia diventa allora un discorso che non si preoccupa più di conoscere la realtà; la sua funzione è soltanto quella di legittimare il capitalismo, attribuendogli qualità intrinseche che non può avere”. Come scrive appunto Walras in un saggio del 1863 che confronta liberalismo con socialismo: “agli occhi del liberalismo l’attività umana può generare spontaneamente, se la si lascia in piena libertà, il movimento progressivo della società”[7].

Invece di generare, e tanto meno spontaneamente, il movimento della società (e tanto meno progressivo), la logica dell’espansione capitalista, lasciata a se stessa in piena libertà, per Amin non ha del tutto a che fare con lo sviluppo (se con questo termine si intende qualcosa di diverso dall’accumulazione di segni monetari in poche mani). Ad esempio, non ha a che fare con l’occupazione umana, tanto meno piena.

In questa concettualizzazione, radicalmente opposta a quella liberale, bisogna capire che quando si designa ‘capitalismo’ non si intende il complessivo regime di scambio, ma, sulla scorta di Braudel[8] si indica l’effetto dell’accumulazione della moneta come capitale e la sua circolazione. Il capitalismo realmente esistente, quindi, “non funziona come un sistema di concorrenza tra i beneficiari del monopolio della proprietà. Il suo funzionamento esige necessariamente l’intervento di un’autorità collettiva che rappresenti l’insieme del capitale”. Ciò implica che sia lo Stato al centro del conflitto fra il capitale e la società.

Un secondo importante tema del libro è il giudizio di codeterminazione tra il successo del neo-liberalesimo ed il ‘discorso del postmoderno’. Precisamente, come scrive: “il discorso del postmoderno è un discorso ideologico di accompagnamento, che legittima in definitiva il liberalesimo, invitando a sottomettersi ad esso”[9]; ciò in quanto assembla, senza alcuno scrupolo di coerenza complessiva, “tutti i possibili appelli a diffidare dei concetti di progresso e di universalismo”, sostituendo di fatto ad essi le proposte dell’ideologia liberale americana[10].
Questa impostazione culturale è “in perfetta sintonia con le esigenze del progetto di globalizzazione dell’imperialismo contemporaneo”, che “non può produrre nient’altro che un sistema organizzato di apartheid su scala mondiale”. Ed il suo scopo è di rendere chiaro che, non si sono alternative perché l’adesione ad un principio di razionalità meta sociale (che viene prima del sociale e non ne ha bisogno), permette di eliminare del tutto ed in radice la necessità stessa di scegliere. Ovvero la necessità di razionalità democratica. Il principio della razionalità dei mercati svolge questa specifica funzione: svuotare e rendere non più necessaria la pratica democratica[11].

Un esempio di nascondimento di questo effetto è richiamato in “Impero” di Antonio Negri e Hardt, nel quale la triade Usa-Europa-Giappone determinerebbe un ‘impero’ senza imperialismo. In perfetta sincronia con la “tonalità discorsiva dell’epoca attuale”, ovvero con il tono neoliberale, Negri e Hardt danno una definizione coincidente con la politologia universitaria del fenomeno imperialistico (“la proiezione di potere al di là delle frontiere”) e dato che identificano una triade con conflitti minori tra i soci liquidano sin dall’inizio quelle che sono “le vere questioni”: il dominio dei centri imperiali verso le periferie. E quel genere di potere determinato dall’economico, con il sostegno e l’aiuto determinante del potere politico e statuale, e delle istituzioni “globali” a tal fine preposte (il Wto, il Fmi, la Bm, l’Ocse, la Nato).
Resta tutto un discorso vacuo sul “capitalismo-Impero-buono” che per Amin è confutato inesorabilmente dalla brutalità dell’intervento in Iraq.

Ma la critica va anche oltre, se le vere questioni poste dall’articolazione tra l’istanza politica (ovvero dallo Stato) e la realtà della globalizzazione sono eluse, dichiarando il primo cessato perché limitato (ma lo è sempre stato), anche le vere questioni poste dalla rivoluzione tecnologica in riferimento alla struttura delle classi sono liquidate attraverso la “confusa categoria di moltitudine”[12]. La questione però non è che ci sarebbe una tecnologia per definizione insieme buona ed inevitabile, ma come questa, nello stesso modo delle precedenti ondate di innovazione tecnologica, “scompone con violenza le antiche forme di strutturazione, colpendo l’organizzazione del lavoro e le classi, mentre le forme nuove della loro ricomposizione non hanno ancora dato luogo a cristallizzazioni visibili”.

Un testo simile ha avuto grande successo proprio per le severe critiche allo Stato e la nazione, ma purtroppo lo fa seguendo la strada dell’ideologia liberale: definendo una strada che da sola, spontaneamente, porterebbe al bene. Si tratta di una “funzione anestetica che fa perdere il senso delle sfide vere e delle lotte necessarie”. Di fatto lavora nella stessa acqua del neoliberismo, a chiedere meno Stato, meno interventi intenzionali, meno pubblico (ma più “comune”), e quindi la deregolamentazione.

Amin sostiene che serve l’esatto opposto: far avanzare la prassi politica, la democrazia sociale, il margine d’azione entro la globalizzazione.

La globalizzazione, ha in realtà polarizzato e approfondito lo scarto tra i centri del sistema e le sue periferie. Dagli anni del libro ha solo aggiunto un altro ‘centro’, la Cina, che, però, sembra non voler stare disciplinatamente in coda alla ‘triade’, determinando una dinamica più complessa. È vero che ha sviluppato le forze produttive, ma lo ha fatto aumentando ovunque la differenza e l’ineguaglianza.



Un esempio caro all’autore è quello della pauperizzazione agricola, che ha visto in tutte le regioni esposte alla competizione di mercato crollare i prezzi agricoli reali di un fattore 5, provocando l’espulsione di miliardi di contadini e quindi enormi flussi migratori[13]. Ciò che bisogna fare al riguardo è rallentare, proteggere l’economia contadina[14], non per una sorta di romantica nostalgia del passato, ma perché l’unico modo per risolvere il problema è di superare le logiche capitalistiche, scollegando i prezzi interni da quelli del mercato mondiale.

Analogamente bisogna operare per le masse lavoratrici precarizzate, ovvero metà dell’umanità urbanizzata. Questa pauperizzazione provoca effetti devastanti anche sul clima democratico. Ma la democrazia “è una delle condizioni assolute del progresso sociale”, e non è affatto un “lusso” che si può rivendicare solo ad un dato livello di sviluppo materiale.
Il problema è che la socializzazione, nel mondo moderno “è fondata sull’espansione dei rapporti capitalistici mercantili, che si impadroniscono man mano di tutti gli aspetti della vita sociale e che, se non sopprimono, perlomeno prevalgono in larga parte su tutte le altre forme di solidarietà (nazionale, familiare e comunitaria)”. In altre parole, è la socializzazione di mercato che “tende a ridurre a individui solo consumatori”.


Dunque per Amin il liberalismo oggi è una sfida per l’intera umanità e il liberalismo globalizzato non può che lavorare per rafforzare enormemente l’influenza dell’imperialismo americano sul pianeta, “subordinando l’Europa e sottomettendola con metodi selvaggi senza precedenti”.
Bisognerà quindi partire dal recupero di indipendenza sia sul versante del progetto europeo sia del sud del mondo. Con riferimento al primo problema anche in questo testo Amin si chiede se il progetto per come è non debba prima implodere (p.103) o se non convenga semplicemente lasciarlo ‘congelato’, e ricostruire con chi c’è un fronte anti-egemonia.


Il messaggio politico-strategico che lascia il libro è molto semplice ed in linea con la pluridecennale battaglia dell’economista e grande attivista politico egiziano: bisogna cercare di rifondare la solidarietà del sud, dei suoi popoli, ritornando a produrre un movimento dei popoli e stati del sud e delle periferie, come quello avviato a Bandung[15]. E nel farlo in particolare disciplinare gli spostamenti di capitale, regolare gli investimenti esteri, eliminare i debiti illegittimi.

Ma bisogna anche “ricostruire l’internazionalismo dei popoli”, riavvicinando l’asse Parigi-Berlino-Mosca-Pechino che, solo, può impedire che l’egemone imperiale americano continui le sue avventure nel mondo.
Creare, dunque, un contropotere che determini un assetto multipolare, capace di sostituire l’attuale mondializzazione imperiale in via di fallimento e per questo pericolosa, come scriverà due anni dopo in un altro libro che abbiamo già letto[16].


[1] - Nel tempo abbiamo letto: “Lo sviluppo ineguale”, 1973; “Oltre la mondializzazione”, 1999; “Per un mondo multipolare”, 2006; “La crisi”, 2009.
[2] - Samir Amin è nato al Cairo nel 1931, ed è morto a Parigi nell’agosto di quest’anno. Nel 1952 si era laureato a Parigi in scienze politiche e poi aveva preso altre due lauree, in statistica e in economia (1957). Si forma nella fase più acuta della lotta per la decolonizzazione del continente africano, e prende le distanze quasi subito dal “marxismo eurocentrico” incapace di riconoscere l’importanza delle lotte di liberazione nazionale (su questo si veda, ad esempio, l’ultimo libro di Losurdo, “Il marxismo occidentale”) tenendo una posizione vicina a quella del suo amico Giovanni Arrighi. Il “terzomondismo” di Amin è fortemente anti-intellettualistico (‘capitalismo’ per lui è la storia concreta del modo di produzione e di assoggettamento che si manifesta concretamente) ed è richiamo alla necessità per i paesi della periferia di sottrarsi all’abbraccio mortale della globalizzazione realmente esistente. La base teorica di questa idea non è solo in Marx, ma anche nei suoi studi di geografia economica che seguono la scuola di Francois Perroux, suo maestro, che agli approcci, infarciti di ideologia e persino di teologia, che cercano di descrivere i fatti economici formati nello spazio sotto l’attesa che determinino degli equilibri, oppone l’evidenza che questi sono piuttosto organizzati da costanti squilibri. Ovvero dalla costante dialettica tra ‘centri’ e loro ‘periferie’. Il problema delle ‘scienze regionali’ (Alfred Loesch), e la battaglia ideologica che vi si compie, è quindi se le relazioni tra ‘centri’ e ‘periferie’ siano definiti da scambi di equilibrio in linea di principio tra eguali, o suppongano relazioni ineguali di dominio e sfruttamento. La tesi di Amin è che lo sviluppo economico, a tutte le scale, non sia un processo lineare nel quale spontaneamente si realizza l’allocazione ottimale delle risorse e l’interesse economico degli attori, ma un processo discontinuo e squilibrante nel quale si producono diseguaglianze, e quindi potere. Prendere sul serio questa posizione significa che non si tratta tanto di investire per riequilibrare (secondo il modello dell’intervento straordinario nel mezzogiorno italiano, o del ‘New Deal globale’), ma di prendere atto, e correggere, la ‘dominazione’. Lo “sviluppo ineguale”, nozione centrale nell’azione politica e culturale di Amin, deriva dalla generalizzazione della modellazione degli studi regionali, nella versione di Perroux secondo il quale le “imprese motrici” esercitano una dominazione, sulle imprese connesse e lo spazio regionale coinvolto, che si esplica nella “forza di imporre ai fornitori un prezzo di vendita dei propri input inferiore ai prezzi di mercato”, di catturarli, insomma. Questa è, alla scala di sistemi-paese, la meccanica che intrappola le periferie del mondo e consente ai centri di estrarre il surplus e concentrarlo. Gunnar Myrdal parlerà in proposito di “causazione circolare cumulativa” e Hirschmann di effetti cumulativi, ma è dello stesso avviso John Friedman. In particolare per quest’ultimo: “I principali centri di innovazione saranno definiti come regioni centrali: tutte le altre aree all'interno di un dato sistema spaziale saranno definite come periferiche. Più precisamente, le regioni centrali sono sottoinsiemi sociali territorialmente organizzati che presentano un'elevata capacità di trasformarsi in senso innovativo; le regioni periferiche sono sottoinsiemi il cui ritmo di sviluppo è determinato principalmente dalle istituzioni presenti nella regione centrale rispetto alle quali esse si pongono in una posizione di sostanziale dipendenza”. Altri autori che sono sensibili a queste attenzioni, in qualche modo derivanti da un approccio che risente della lezione del materialismo storico, sono David Harvey, Richard Peet, Massimo Quaini, Yves Lacoste, Claude Raffestin, Jean-Bernard Racine, Michael Storper.
[3] - Il conflitto inizia il 20 marzo 2003 in modo abbastanza unilaterale, con una piccola coalizione anglo-americana, ed è espressamente finalizzato a determinare un cambio di direzione politica in uno stato sovrano aderente all’ONU. Il causus belli è duplice, il possesso di armi di distruzione di massa, sottratte alle visite ispettive in corso dai tempi della “prima guerra del golfo”, e l’appoggio al terrorismo internazionale ed in particolare ad Al Quaeda. Entrambe le motivazioni sono false: nessuna arma di distruzione è presente e le ‘prove’ sbandierate platealmente anche in sedi istituzionali sono fabbricate dai servizi inglesi; il regime di Saddam Hussein è notoriamente laico e del tutto estraneo alla rete di Al Quaeda. La guerra si sviluppa militarmente con una passeggiata sanguinosissima (per l’esercito iracheno) di poche settimane, il 15 aprile è praticamente terminata. Ma di lì parte una violentissima fase di insorgenza ed anarchia che costa secondo alcune stime da 750.000 a 1.400.000 morti, di cui il 20% per autobomba ed il 10% per i bombardamenti americani (alcuni con bombe al fosforo), la metà per colpi di arma da fuoco. I conflitti terminano solo nel 2011. La guerra complessivamente finisce per costare agli americani, secondo le stime di Stiglitz, circa 3.000 miliardi di dollari.
[4] - Il vastissimo dibattito seguito alla guerra del golfo si concentra su molti temi e comportane nel suo complesso un’enorme perdita di ‘soft power’ per gli Stati Uniti. Ad esempio Prem Shankar Yha, nel suo libro del 2006 che abbiamo letto, “Il caos prossimo venturo”, collega la guerra, come quella del Kosovo, con il tentativo dell’élite statunitense, dopo la caduta del sistema sovietico, di affermarsi come unico centro imperiale e far cessare il sistema westfaliano. Ma nel 2006 prende anche atto del fallimento di questo tentativo, dello stesso avviso è il libro di Emanuel Todd, “Dopo l’impero”, che pure è scritto un anno prima della guerra (ma dopo quella del Kosovo). Per Yha è in Iraq che crolla l’ordine imperniato sull’inviolabilità degli stati sovrani e la tutela in tal senso dell’ONU. Alla fine di una lunga e penosa vicenda di bugie e trattative diplomatiche gli USA e il loro alleato britannico, usando il pretesto dell’11 settembre, hanno invaso l’Iraq senza alcuna copertura legale. Il prezzo è stato enorme, in pochi anni gli USA hanno distrutto l’egemonia che avevano costruito dal dopoguerra insieme agli elementi di guida multipolare che erano stati assemblati.

[5] - Ivi, p.15. Le conseguenze di questa affermazione sono radicali e profonde, perché se il proprio ed il normale del capitalismo è lo squilibrio, in esso domina la lotta. Se fosse l’equilibrio dominerebbe la possibilità dell’armonia.
[6] - Un ingegnere di formazione (ma incompleta) ed economista di professione (insegna a Losanna), Marie Esprit Léon Walras, nato a Evreux nel 1834 e morto a Le Chatelard nel 1910. Quasi coetaneo di Engels e Marx (rispettivamente 1820 e 1818) ma vissuto più di loro (rispettivamente 1895 e 1883), fu il primo a concepire una teoria dell’equilibrio economico generale. Per tale astratta concettualizzazione Schumpeter lo considera “il più grande di tutti gli economisti”. Successore di Walras a Losanna fu il celebre Wilfredo Pareto che consolida la “Scuola di Losanna”, uno dei centri di irradiazione del “marginalismo”. Gli altri autori centrali del ‘marginalismo’ sono William Stanley Jevons e Carl Menger. Secondo la teoria del valore di Walras il valore di scambio di una merce è dato non dal lavoro (come voleva la “scuola classica” di Smith, Ricardo e Marx), ma dalla “rareté”, ovvero dalla “utilità marginale”. Il metodo di Walras, che è una sorta di applicazione della mossa tipica della scienza galileiana e newtoniana di far astrazione dall’essenza per concentrarsi sul numerabile, trova applicazione sulla base del ‘calcolo infinitesimale’ (sul quale si esercita negli scritti privati anche l’ultimo Marx) di Cornout. La tesi è che in condizioni di concorrenza perfetta (ovvero quando nessuno ha potere e non ci sono dinamiche sociali) diventa possibile determinare un sistema di prezzi (valori di scambio) d’equilibrio che comporta perfetta eguaglianza generale tra domanda ed offerta in tutti i mercati. Quindi anche l’eguaglianza tra il costo di produzione ed il valore di vendita per ciascun bene e per ciascun imprenditore. Dunque tutti hanno esattamente quel che producono, nessuno è sfruttato e/o ottiene rendite. Il mistero teologico della ‘mano invisibile’ (che nei filosofi morali del settecento, come Smith e Genovesi) era in realtà un modo di dire la provvidenza secolarizzata, è dunque dissolto: non è più necessario porre questa ipotesi. L’equilibrio si produce in qualche modo da sé, anzi è sempre per definizione presente.
[7] - Leon Walras,”Socialismo e liberalismo”, 1863, in “Studi di economia sociale”, vol I, p.15. corsivi nel testo.
[8] - Si veda Fernand Braudel, “La dinamica del capitalismo”, 1977.
[9] - Ivi, p.20. Un tema simile lo pone anche David Harvey in “Breve storia del neoliberismo”.
[10] - Ovvero: “vivere nel proprio tempo”, “adattarsi”, “gestire la quotidianità”, astenendosi da riflettere sulla natura del sistema e tanto più dal metterla in questione.
[11] - Qui, come tipico in quegli anni nella letteratura internazionale è citato il caso di Berlusconi.
[12] - Non è altro che l’analogo della ‘gente’ nella sociologia volgare.
[13] - Ivi, p.32. molti dicono che questo fenomeno del progressivo dissolversi dell’agricoltura di sussistenza a basso rendimento, causata dalla competizione di prodotti agricoli di importazione e di esportazione più competitivi e della penetrazione, anche via Ong, di tecnologie e metodiche intensive, sia un bene. E’ vero che provoca l’espulsione di grandi masse ma con un rapporto tra l’agricoltura ‘verde’ (quella equipaggiata tecnicamente) e quella tradizionale che ormai è arrivato ad un fattore 2.000 (da 10 quintali ad addetto a circa 20.000) le masse da integrare diventano enormi. La Conferenza di Doha del Wto (2001) impone di fare cadere tutte le barriere che proteggevano i prezzi agricoli, quindi in poche decine di anni si potrebbero avere, secondo la stima di Amin miliardi di persone (l’agricoltura di sussistenza impegnava quindici anni fa tre miliardi di persone) che dovranno essere ‘ricollocate’. Ovvero, essere inserite in altre filiere produttive di merci e servizi ‘tradabili’, facendo concorrenza a chi oggi li produce, o emigrare, andando a collocarsi in modo subalterno entro le filiere produttive dei paesi ricchi. Nel breve termine il destino è di far crescere le bidonville all’infinito, nel medio i campi profughi, e nel medio-lungo i braccianti agricoli e/o operai semplici sottopagati nelle fabbriche nei paesi più sviluppati. Insomma, “per aprire un nuovo campo all’espansione capitalistica (la ‘modernizzazione della produzione agricola’) bisogna distruggere – in termini umani – intere società: 20 milioni di produttori efficaci (50 milioni di esseri umani con le loro famiglie) da una parte, 5 miliardi di esclusi dall’altra”. Il capitalismo è, insomma, diventato barbarie, non consente più neppure la sopravvivenza di metà ed oltre dell’umanità.
[14] - Si vedano al riguardo anche i testi, generosi, di autori come Vandana Shiva, che si colloca nella tradizione di Gandhi, “Il bene comune della terra”, o “Ritorno alla terra”.
[15] - Dal 18 al 24 aprile del 1955 nella città indonesiana di Bandung si tenne una Conferenza convocata da India, Pakistan, Birmania, Cina, Indonesia, e altri 24 paesi del sud del mondo. Lo scopo era molto ambizioso, riunire un forte gruppo di paesi “non allineati” alla diarchia Usa-Urss che dominava la “guerra fredda”. I principali protagonisti furono Sukarno, leader indonesiano, Nehru, indiano, e Zhou Enlai, cinese. Per il mondo arabo fu presente Nasser. Si decise di sostenere le lotte contro il colonialismo, l’eguaglianza tra tutte le nazioni, il rifiuto delle alleanze militari con le superpotenze.

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