Proseguendo la lettura dei libri[1] dell’economista
egiziano Samir Amin[2], che da poco ci ha
lasciato tocca a questo libro del 2004,
che reca come sottotitolo “La guerra permanente
e l’americanizzazione del mondo” e cade subito dopo l’avvio della Seconda Guerra
del Golfo[3];
un evento che rappresenta, per molta parte del mondo non allineato agli Usa, un
autentico shock[4], accelerando la presa di
consapevolezza del carattere imperiale e violento della mondializzazione
capitalista.
Naturalmente Amin non aveva bisogno di vedere gli
eserciti americani invadere, con pretesti falsi, un paese sovrano e bombardarlo
per anni, per essere persuaso del carattere imperiale del potere occidentale.
In realtà, come si può leggere più dettagliatamente in
nota 2, la critica di Samir Amin è molto più profonda e radicata in una specifica
interpretazione delle dinamiche economico-sociali del capitalismo inteso come
sistema intrinsecamente mondiale e gerarchizzante. Per la precisione il
capitalismo è letto come regime in cui successivi stati di squilibrio sono
sempre prodotti da scontri sociali e quindi politici; scontri situati sempre al di là del mercato.
L’economia come forma ideologica del liberalismo è,
quindi, il rovesciamento di questa realtà. Un rovesciamento che confonde
efficacia sociale con efficacia economica, e peraltro nelle ultime versioni la
restringe ulteriormente alla semplice redditività finanziaria. Che considera complementari
l’attuazione di un mercato generalizzato ed uniforme (che è un’illusione) con
le condizioni della democrazia. Ed infine tende ad attribuire un carattere
normativo al paese più ‘sviluppato’, ovvero a farne modello di tutti gli altri.
La realtà è, invece, che i mercati sono sempre,
invariabilmente e soprattutto quando ‘deregolati’ e ‘liberalizzati’, regolati
da poteri di monopolio il cui fondamento
è sociale e politico.
Dunque il mercantilismo è per Amin una forma di ‘alienazione’;
è anzi “la forma specifica del capitalismo”, in grado di governare la
riproduzione della società nel suo complesso e non soltanto la riproduzione del
sistema economico. Ma questa riproduzione non si assesta mai in un ‘equilibrio generale’, come vorrebbe la
dogmatica neoliberale. Al contrario si sposta incessantemente da uno squilibrio
all’altro. La possibilità dell’equilibrio generale, astrattamente ipotizzabile,
è di fatto concretamente e costantemente impedita dalla parcellizzazione dei
capitali e quindi dalla loro concorrenza di tutti contro tutti.
Dunque è semplice: “il capitalismo è sinonimo di squilibrio permanente”[5].
O, in altro modo, “il capitalismo non esiste al di
fuori della lotta di classe, del conflitto tra gli Stati e della politica”.
L’autore dal quale fa partire il rovesciamento di
questa semplice realtà, nella forma ideologica del suo nascondimento, è Leon
Walras[6],
con questi “l’economia diventa allora un discorso che non si preoccupa più di
conoscere la realtà; la sua funzione è soltanto quella di legittimare il capitalismo,
attribuendogli qualità intrinseche che non può avere”. Come scrive appunto Walras
in un saggio del 1863 che confronta liberalismo con socialismo: “agli occhi del
liberalismo l’attività umana può generare spontaneamente,
se la si lascia in piena libertà, il
movimento progressivo della società”[7].
Invece di generare, e tanto meno spontaneamente, il movimento della società (e tanto meno progressivo), la logica dell’espansione
capitalista, lasciata a se stessa in piena libertà, per Amin non ha del tutto a
che fare con lo sviluppo (se con questo termine si intende qualcosa di diverso
dall’accumulazione di segni monetari in poche mani). Ad esempio, non ha a che
fare con l’occupazione umana, tanto meno piena.
In questa concettualizzazione, radicalmente opposta a
quella liberale, bisogna capire che quando si designa ‘capitalismo’ non si
intende il complessivo regime di scambio, ma, sulla scorta di Braudel[8] si
indica l’effetto dell’accumulazione della moneta come capitale e la sua
circolazione. Il capitalismo realmente esistente, quindi, “non funziona come un
sistema di concorrenza tra i beneficiari del monopolio della proprietà. Il suo
funzionamento esige necessariamente l’intervento di un’autorità collettiva che
rappresenti l’insieme del capitale”. Ciò implica che sia lo Stato al centro del
conflitto fra il capitale e la società.
Un secondo importante tema del libro è il giudizio di codeterminazione tra il successo del
neo-liberalesimo ed il ‘discorso del postmoderno’.
Precisamente, come scrive: “il discorso del postmoderno è un discorso
ideologico di accompagnamento, che legittima in definitiva il liberalesimo,
invitando a sottomettersi ad esso”[9];
ciò in quanto assembla, senza alcuno scrupolo di coerenza complessiva, “tutti i
possibili appelli a diffidare dei concetti di progresso e di universalismo”,
sostituendo di fatto ad essi le proposte dell’ideologia liberale americana[10].
Questa impostazione culturale è “in perfetta sintonia
con le esigenze del progetto di globalizzazione dell’imperialismo contemporaneo”,
che “non può produrre nient’altro che un sistema organizzato di apartheid su
scala mondiale”. Ed il suo scopo è di rendere chiaro che, non si sono alternative perché l’adesione ad un principio di
razionalità meta sociale (che viene prima del sociale e non ne ha bisogno),
permette di eliminare del tutto ed in radice la necessità stessa di scegliere. Ovvero la necessità di
razionalità democratica. Il principio della razionalità dei mercati svolge
questa specifica funzione: svuotare e rendere non più necessaria la pratica
democratica[11].
Un esempio di nascondimento di questo effetto è
richiamato in “Impero” di Antonio Negri e Hardt, nel
quale la triade Usa-Europa-Giappone determinerebbe un ‘impero’ senza
imperialismo. In perfetta sincronia con la “tonalità discorsiva dell’epoca
attuale”, ovvero con il tono neoliberale, Negri e Hardt danno una definizione coincidente
con la politologia universitaria del fenomeno imperialistico (“la proiezione di
potere al di là delle frontiere”) e dato che identificano una triade con
conflitti minori tra i soci liquidano sin dall’inizio quelle che sono “le vere questioni”:
il dominio dei centri imperiali verso le
periferie. E quel genere di potere determinato dall’economico, con il
sostegno e l’aiuto determinante del potere politico e statuale, e delle
istituzioni “globali” a tal fine preposte (il Wto, il Fmi, la Bm, l’Ocse, la Nato).
Resta tutto un discorso vacuo sul “capitalismo-Impero-buono” che per Amin è
confutato inesorabilmente dalla brutalità dell’intervento in Iraq.
Ma la critica va
anche oltre, se le vere questioni
poste dall’articolazione tra l’istanza politica (ovvero dallo Stato) e la
realtà della globalizzazione sono eluse, dichiarando il primo cessato perché limitato
(ma lo è sempre stato), anche le vere questioni poste dalla rivoluzione
tecnologica in riferimento alla struttura delle classi sono liquidate
attraverso la “confusa categoria di moltitudine”[12]. La
questione però non è che ci sarebbe una tecnologia per definizione insieme
buona ed inevitabile, ma come questa, nello stesso modo delle precedenti ondate
di innovazione tecnologica, “scompone con violenza le antiche forme di
strutturazione, colpendo l’organizzazione del lavoro e le classi, mentre le forme
nuove della loro ricomposizione non hanno ancora dato luogo a cristallizzazioni
visibili”.
Un testo simile ha avuto grande successo proprio per
le severe critiche allo Stato e la nazione, ma purtroppo lo fa seguendo la
strada dell’ideologia liberale: definendo una strada che da sola, spontaneamente,
porterebbe al bene. Si tratta di una “funzione anestetica che fa perdere il
senso delle sfide vere e delle lotte necessarie”. Di fatto lavora nella stessa
acqua del neoliberismo, a chiedere meno Stato, meno interventi intenzionali,
meno pubblico (ma più “comune”), e quindi la deregolamentazione.
Amin sostiene che serve l’esatto opposto: far avanzare la prassi politica, la democrazia
sociale, il margine d’azione entro la globalizzazione.
La globalizzazione, ha in realtà polarizzato e
approfondito lo scarto tra i centri del sistema e le sue periferie. Dagli anni
del libro ha solo aggiunto un altro ‘centro’, la Cina, che, però, sembra non
voler stare disciplinatamente in coda alla ‘triade’, determinando una dinamica
più complessa. È vero che ha sviluppato le forze produttive, ma lo ha fatto
aumentando ovunque la differenza e l’ineguaglianza.
Un esempio caro all’autore è quello della
pauperizzazione agricola, che ha visto in tutte le regioni esposte alla
competizione di mercato crollare i prezzi agricoli reali di un fattore 5, provocando
l’espulsione di miliardi di contadini e
quindi enormi flussi migratori[13]. Ciò
che bisogna fare al riguardo è rallentare, proteggere l’economia contadina[14],
non per una sorta di romantica nostalgia del passato, ma perché l’unico modo
per risolvere il problema è di superare le logiche capitalistiche, scollegando
i prezzi interni da quelli del mercato mondiale.
Analogamente bisogna operare per le masse lavoratrici
precarizzate, ovvero metà dell’umanità urbanizzata. Questa pauperizzazione
provoca effetti devastanti anche sul clima democratico. Ma la democrazia “è una
delle condizioni assolute del progresso sociale”, e non è affatto un “lusso”
che si può rivendicare solo ad un dato livello di sviluppo materiale.
Il problema è che la socializzazione, nel mondo
moderno “è fondata sull’espansione dei rapporti capitalistici mercantili, che
si impadroniscono man mano di tutti gli aspetti della vita sociale e che, se
non sopprimono, perlomeno prevalgono in larga parte su tutte le altre forme di
solidarietà (nazionale, familiare e comunitaria)”. In altre parole, è la
socializzazione di mercato che “tende a ridurre a individui solo consumatori”.
Dunque per Amin il liberalismo oggi è una sfida per l’intera
umanità e il liberalismo globalizzato non può che lavorare per rafforzare
enormemente l’influenza dell’imperialismo americano sul pianeta, “subordinando
l’Europa e sottomettendola con metodi selvaggi senza precedenti”.
Bisognerà quindi partire dal recupero di indipendenza
sia sul versante del progetto europeo sia del sud del mondo. Con riferimento al
primo problema anche in questo testo Amin si chiede se il progetto per come è
non debba prima implodere (p.103) o se non convenga semplicemente lasciarlo ‘congelato’,
e ricostruire con chi c’è un fronte anti-egemonia.
Il messaggio politico-strategico che lascia il libro è
molto semplice ed in linea con la pluridecennale battaglia dell’economista e
grande attivista politico egiziano: bisogna cercare di rifondare la solidarietà
del sud, dei suoi popoli, ritornando a produrre un movimento dei popoli e stati
del sud e delle periferie, come quello avviato a Bandung[15]. E
nel farlo in particolare disciplinare gli spostamenti di capitale, regolare gli
investimenti esteri, eliminare i debiti illegittimi.
Ma bisogna anche “ricostruire l’internazionalismo dei
popoli”, riavvicinando l’asse Parigi-Berlino-Mosca-Pechino che, solo, può
impedire che l’egemone imperiale americano continui le sue avventure nel mondo.
Creare, dunque, un contropotere che determini un
assetto multipolare, capace di sostituire l’attuale mondializzazione imperiale
in via di fallimento e per questo pericolosa, come scriverà due anni dopo in un
altro libro che abbiamo già letto[16].
[1]
- Nel tempo abbiamo letto: “Lo
sviluppo ineguale”, 1973; “Oltre
la mondializzazione”, 1999; “Per
un mondo multipolare”, 2006; “La
crisi”, 2009.
[2]
- Samir Amin è nato al Cairo nel 1931, ed è morto a Parigi nell’agosto di quest’anno.
Nel 1952 si era laureato a Parigi in scienze politiche e poi aveva preso altre
due lauree, in statistica e in economia (1957). Si forma nella fase più acuta
della lotta per la decolonizzazione del continente africano, e prende le
distanze quasi subito dal “marxismo eurocentrico” incapace di riconoscere l’importanza
delle lotte di liberazione nazionale (su questo si veda, ad esempio, l’ultimo
libro di Losurdo, “Il
marxismo occidentale”) tenendo una posizione vicina a quella del suo
amico Giovanni Arrighi. Il “terzomondismo” di Amin è fortemente anti-intellettualistico
(‘capitalismo’ per lui è la storia concreta del modo di produzione e di assoggettamento
che si manifesta concretamente) ed è richiamo alla necessità per i paesi della
periferia di sottrarsi all’abbraccio mortale della globalizzazione realmente
esistente. La base teorica di questa idea non è solo in Marx, ma anche nei suoi
studi di geografia economica che seguono la scuola di Francois Perroux, suo
maestro, che agli approcci, infarciti di ideologia e persino di teologia, che
cercano di descrivere i fatti economici formati nello spazio sotto l’attesa che
determinino degli equilibri, oppone l’evidenza
che questi sono piuttosto organizzati da costanti squilibri. Ovvero dalla costante dialettica tra ‘centri’ e loro ‘periferie’.
Il problema delle ‘scienze regionali’ (Alfred Loesch), e la battaglia
ideologica che vi si compie, è quindi se le relazioni tra ‘centri’ e ‘periferie’
siano definiti da scambi di equilibrio in linea di principio tra eguali, o
suppongano relazioni ineguali di dominio e sfruttamento. La tesi di Amin è che lo
sviluppo economico, a tutte le scale, non sia un processo lineare nel quale
spontaneamente si realizza l’allocazione ottimale delle risorse e l’interesse
economico degli attori, ma un processo discontinuo e squilibrante nel quale si
producono diseguaglianze, e quindi potere. Prendere sul serio questa posizione
significa che non si tratta tanto di investire per riequilibrare (secondo il
modello dell’intervento straordinario nel mezzogiorno italiano, o del ‘New Deal
globale’), ma di prendere atto, e correggere, la ‘dominazione’. Lo “sviluppo ineguale”,
nozione centrale nell’azione politica e culturale di Amin, deriva dalla generalizzazione
della modellazione degli studi regionali, nella versione di Perroux secondo il
quale le “imprese motrici” esercitano una dominazione, sulle imprese connesse e
lo spazio regionale coinvolto, che si esplica nella “forza di imporre ai
fornitori un prezzo di vendita dei propri input inferiore ai prezzi di mercato”,
di catturarli, insomma. Questa è, alla scala di sistemi-paese, la meccanica che
intrappola le periferie del mondo e consente ai centri di estrarre il surplus e
concentrarlo. Gunnar Myrdal parlerà in proposito di “causazione circolare
cumulativa” e Hirschmann di effetti cumulativi, ma è dello stesso avviso John
Friedman. In particolare per quest’ultimo: “I principali centri di innovazione
saranno definiti come regioni centrali: tutte le altre aree all'interno di un
dato sistema spaziale saranno definite come periferiche. Più precisamente, le
regioni centrali sono sottoinsiemi sociali territorialmente organizzati che
presentano un'elevata capacità di trasformarsi in senso innovativo; le regioni
periferiche sono sottoinsiemi il cui ritmo di sviluppo è determinato
principalmente dalle istituzioni presenti nella regione centrale rispetto alle
quali esse si pongono in una posizione di sostanziale dipendenza”. Altri autori
che sono sensibili a queste attenzioni, in qualche modo derivanti da un
approccio che risente della lezione del materialismo storico, sono David
Harvey, Richard Peet, Massimo Quaini, Yves Lacoste, Claude Raffestin,
Jean-Bernard Racine, Michael Storper.
[3]
- Il conflitto inizia il 20 marzo 2003 in modo abbastanza unilaterale, con una
piccola coalizione anglo-americana, ed è espressamente finalizzato a
determinare un cambio di direzione politica in uno stato sovrano aderente all’ONU.
Il causus belli è duplice, il possesso di armi di distruzione di massa,
sottratte alle visite ispettive in corso dai tempi della “prima guerra del
golfo”, e l’appoggio al terrorismo internazionale ed in particolare ad Al
Quaeda. Entrambe le motivazioni sono false: nessuna arma di distruzione è
presente e le ‘prove’ sbandierate platealmente anche in sedi istituzionali sono
fabbricate dai servizi inglesi; il regime di Saddam Hussein è notoriamente
laico e del tutto estraneo alla rete di Al Quaeda. La guerra si sviluppa militarmente
con una passeggiata sanguinosissima (per l’esercito iracheno) di poche
settimane, il 15 aprile è praticamente terminata. Ma di lì parte una
violentissima fase di insorgenza ed anarchia che costa secondo alcune stime da
750.000 a 1.400.000 morti, di cui il 20% per autobomba ed il 10% per i
bombardamenti americani (alcuni con bombe al fosforo), la metà per colpi di
arma da fuoco. I conflitti terminano solo nel 2011. La guerra complessivamente
finisce per costare agli americani, secondo le stime di Stiglitz, circa 3.000 miliardi
di dollari.
[4]
- Il vastissimo dibattito seguito alla guerra del golfo si concentra su molti
temi e comportane nel suo complesso un’enorme perdita di ‘soft power’ per gli
Stati Uniti. Ad esempio Prem Shankar Yha, nel suo libro del 2006 che abbiamo
letto, “Il caos prossimo venturo”,
collega la guerra, come quella del Kosovo, con il tentativo dell’élite
statunitense, dopo la caduta del sistema sovietico, di affermarsi come unico
centro imperiale e far cessare il sistema westfaliano. Ma nel 2006 prende anche
atto del fallimento di questo tentativo, dello stesso avviso è il libro di
Emanuel Todd, “Dopo l’impero”,
che pure è scritto un anno prima della guerra (ma dopo quella del Kosovo). Per
Yha è in Iraq che crolla l’ordine imperniato sull’inviolabilità degli stati
sovrani e la tutela in tal senso dell’ONU. Alla fine di una lunga e penosa vicenda
di bugie e trattative diplomatiche gli USA e il loro alleato britannico, usando
il pretesto dell’11 settembre, hanno invaso l’Iraq senza alcuna copertura
legale. Il prezzo è stato enorme, in pochi anni gli USA hanno distrutto
l’egemonia che avevano costruito dal dopoguerra insieme agli elementi di guida
multipolare che erano stati assemblati.
[5]
- Ivi, p.15. Le conseguenze di questa affermazione sono radicali e profonde,
perché se il proprio ed il normale del capitalismo è lo squilibrio, in esso
domina la lotta. Se fosse l’equilibrio dominerebbe la possibilità dell’armonia.
[6]
- Un ingegnere di formazione (ma incompleta) ed economista di professione
(insegna a Losanna), Marie Esprit Léon Walras, nato a Evreux nel 1834 e morto a
Le Chatelard nel 1910. Quasi coetaneo di Engels e Marx (rispettivamente 1820 e
1818) ma vissuto più di loro (rispettivamente 1895 e 1883), fu il primo a
concepire una teoria dell’equilibrio economico generale. Per tale astratta concettualizzazione Schumpeter lo
considera “il più grande di tutti gli economisti”. Successore di Walras a
Losanna fu il celebre Wilfredo Pareto che consolida la “Scuola di Losanna”, uno
dei centri di irradiazione del “marginalismo”. Gli altri autori centrali del ‘marginalismo’
sono William Stanley Jevons e Carl Menger. Secondo la teoria del valore di
Walras il valore di scambio di una merce è dato non dal lavoro (come voleva la “scuola
classica” di Smith, Ricardo e Marx), ma dalla “rareté”, ovvero dalla “utilità
marginale”. Il metodo di Walras, che è una sorta di applicazione della mossa tipica
della scienza galileiana e newtoniana di far astrazione dall’essenza per
concentrarsi sul numerabile, trova applicazione sulla base del ‘calcolo
infinitesimale’ (sul quale si esercita negli scritti privati anche l’ultimo
Marx) di Cornout. La tesi è che in
condizioni di concorrenza perfetta (ovvero quando nessuno ha potere e non
ci sono dinamiche sociali) diventa possibile determinare un sistema di prezzi
(valori di scambio) d’equilibrio che comporta perfetta eguaglianza generale tra
domanda ed offerta in tutti i mercati. Quindi anche l’eguaglianza tra il costo
di produzione ed il valore di vendita per ciascun bene e per ciascun
imprenditore. Dunque tutti hanno esattamente quel che producono, nessuno è
sfruttato e/o ottiene rendite. Il mistero teologico della ‘mano invisibile’
(che nei filosofi morali del settecento, come Smith e Genovesi) era in realtà
un modo di dire la provvidenza secolarizzata, è dunque dissolto: non è più
necessario porre questa ipotesi. L’equilibrio si produce in qualche modo da sé,
anzi è sempre per definizione presente.
[7]
- Leon Walras,”Socialismo e liberalismo”, 1863, in “Studi
di economia sociale”, vol I, p.15. corsivi nel testo.
[8]
- Si veda Fernand Braudel, “La
dinamica del capitalismo”, 1977.
[9]
- Ivi, p.20. Un tema simile lo pone anche David Harvey in “Breve storia del neoliberismo”.
[10] - Ovvero: “vivere
nel proprio tempo”, “adattarsi”, “gestire la quotidianità”, astenendosi da
riflettere sulla natura del sistema e tanto più dal metterla in questione.
[11]
- Qui, come tipico in quegli anni nella letteratura internazionale è citato il
caso di Berlusconi.
[12]
- Non è altro che l’analogo della ‘gente’ nella sociologia volgare.
[13] -
Ivi, p.32. molti dicono che questo fenomeno del progressivo dissolversi dell’agricoltura
di sussistenza a basso rendimento, causata dalla competizione di prodotti agricoli
di importazione e di esportazione più competitivi e della penetrazione, anche
via Ong, di tecnologie e metodiche intensive, sia un bene. E’ vero che provoca
l’espulsione di grandi masse ma con un rapporto tra l’agricoltura ‘verde’
(quella equipaggiata tecnicamente) e quella tradizionale che ormai è arrivato
ad un fattore 2.000 (da 10 quintali ad addetto a circa 20.000) le masse da
integrare diventano enormi. La Conferenza di Doha del Wto (2001) impone di fare
cadere tutte le barriere che proteggevano i prezzi agricoli, quindi in poche
decine di anni si potrebbero avere, secondo la stima di Amin miliardi di
persone (l’agricoltura di sussistenza impegnava quindici anni fa tre miliardi
di persone) che dovranno essere ‘ricollocate’. Ovvero, essere inserite in altre
filiere produttive di merci e servizi ‘tradabili’, facendo concorrenza a chi
oggi li produce, o emigrare, andando a collocarsi in modo subalterno entro le
filiere produttive dei paesi ricchi. Nel breve termine il destino è di far
crescere le bidonville all’infinito, nel medio i campi profughi, e nel medio-lungo
i braccianti agricoli e/o operai semplici sottopagati nelle fabbriche nei paesi
più sviluppati. Insomma, “per aprire un nuovo campo all’espansione
capitalistica (la ‘modernizzazione della produzione agricola’) bisogna
distruggere – in termini umani – intere società: 20 milioni di produttori
efficaci (50 milioni di esseri umani con le loro famiglie) da una parte, 5
miliardi di esclusi dall’altra”. Il capitalismo è, insomma, diventato barbarie,
non consente più neppure la sopravvivenza di metà ed oltre dell’umanità.
[14]
- Si vedano al riguardo anche i testi, generosi, di autori come Vandana Shiva,
che si colloca nella tradizione
di Gandhi, “Il
bene comune della terra”, o “Ritorno alla terra”.
[15]
- Dal 18 al 24 aprile del 1955 nella città indonesiana di Bandung si tenne una Conferenza
convocata da India, Pakistan, Birmania, Cina, Indonesia, e altri 24 paesi del
sud del mondo. Lo scopo era molto ambizioso, riunire un forte gruppo di paesi “non
allineati” alla diarchia Usa-Urss che dominava la “guerra fredda”. I principali
protagonisti furono Sukarno, leader indonesiano, Nehru, indiano, e Zhou Enlai,
cinese. Per il mondo arabo fu presente Nasser. Si decise di sostenere le lotte
contro il colonialismo, l’eguaglianza tra tutte le nazioni, il rifiuto delle
alleanze militari con le superpotenze.
[16] - “Per
un mondo multipolare”, 2006.
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