Partiamo da un dettaglio: la relazione del Dipartimento Trasporti del Politecnico
di Torino, a firma del prof. Bruno dalla Chiara, giunta in bozza all’amministrazione
romana, sembrerebbe da notizie di stampa fornire un quadro “catastrofico” dell’impatto
di eventi sportivi da tenere nello stadio sulla viabilità urbana in un vasto
intorno. Le problematiche, si legge, compaiono appena si consideri l’impatto di
“macro area”, ovvero quello che si determina per arrivare o per andare via con
mezzi propri da Tor di Valle. La rete primaria esistente non è in grado di sopportare
un nuovo attrattore di traffico di questa importanza e con caratteristiche
specifiche così concentrate[1]. I
disagi collettivi, ovvero la disfunzionalità urbana indotta, sarebbero “abbondanti,
capillari e distribuiti”[2].
Interventi di tipo “capillare”, che quindi non possono
neppure essere risolti con interventi puntuali come il “Ponte dei Congressi”[3],
ma che comunque se si appoggiano sulla sola via del mare/ostiense sarebbero
ulteriormente aggravati.
Inoltre, sempre nella relazione, si legge che la rete
su ferro richiederebbe molto più del previsto potenziamento della fermata Tor
di Valle della ferrovia “Roma-Lido”, ma una globale ristrutturazione della
linea per metterla in condizione di sopportare un servizio ad alto cadenzamento.
Insomma, il
progetto è nel posto sbagliato.
Non è per caso che lo è.
La storia del progetto[4]
mostra un costante conflitto tra la logica
della valorizzazione e la logica dell’interesse
pubblico che è intrinseca alla cultura dalla quale è emersa la “legge sugli
stadi”[5], sistematicamente
emersa con significative forzature[6]
nelle pieghe di leggi finanziarie o con Dl orientati a rispondere alla pressione
dei potentissimi proponenti (le società di calcio). Lo stadio non è più
concepito come attrezzatura urbana a servizio della città, e dei suoi abitanti,
ma come generatore di flussi economici e di valore economico-finanziario, il cui equilibrio diventa il punto determinante
da salvaguardare. La legge, di fatto, mette la città a disposizione (soprattutto
nella versione rafforzata imposta dal governo Gentiloni) della società
sportiva, e/o dell’operatore che interviene in suo conto.
La città è, in questa vicenda, sostanzialmente
ostaggio dell’esigenza di creazione di valore proprio del modo di produzione
finanziario. Si può risalire a questo giudizio attraverso l’analisi della meccanica del progetto, la sua storia specifica[7], l’impatto urbano[8].
Il progetto nasce nell’area di Tor di Valle nel 2012, quando
Luca Parnasi acquista terreni di bassissimo valore ed un ippodromo appena dopo chiuso[9],
il sindaco di Roma era Gianni Alemanno, al governo era Mario Monti, e viene
rilanciato con il nuovo presidente Pallotta non appena la legge sugli Stadi è
approvata. Lo stadio è solo il 14% del volume di progetto e quasi un milione di
mc sono inseriti nel progetto per “compensare” i costi che i privati devono
realizzare a proprie spese per garantire la sostenibilità dell’impatto urbano e
quindi la “pubblica utilità”[10]. La
parte di oneri relativi alle opere di urbanizzazione ha un costo di 360 milioni[11],
ci sono anche 63 ettari di verde pubblico.
La leva guida l’intera operazione che ‘mette a frutto’
il capitale disponibile nella città, e la capacità di generare ricchezza dei
suoi abitanti a vantaggio dei due principali attori della vicenda: l’impresa di
costruzione, che opera come ‘sviluppatore’, e il veicolo finanziario di
Pallotta (la AS Roma Spv Llc).
La scelta della localizzazione, su iniziativa dello ‘sviluppatore’
è il primo e fondamentale innesco del meccanismo di valorizzazione: l’area di
Tor di Valle è sede di degrado e bassi valori urbani, dunque è quella nella
quale il differenziale di rendita fondiaria
è massimo (la differenza tra il valore del terreno prima, quando Parnasi lo
compra, e dopo, quando lo rivende a Pallotta). Seguendo un modello tipico della
crescita urbana romana (e non solo), si procede quindi per ‘grandi tasselli’
nelle aree di degrado o basso valore, sviluppando investimenti che sono in
grado da subito, per la promessa di valorizzazione, di generare capitali
attraverso il credito bancario.
Il primo attore
chiave, Parnasi intende, cioè,
estrarre capitale potenzialmente disponibile nella città attraverso l’effetto
alone del progetto. In questo lato dell’operazione (primo triangolo in alto a
sinistra), il costruttore triangola con il sistema creditizio (verso il quale è
altamente indebitato) estraendo valore dalla rendita fondiaria[12],
ottenendone il sostegno con la promessa di rientrane nei debiti (cosa che
mobilita l’interesse dei molti stakeholders delle banche stesse). D’altra parte
(secondo triangolo) coinvolge il mercato finanziario garantendosi nuove linee
di finanziamento che ne sostengano l’operatività in grave difficoltà[13].
Il secondo attore
chiave, la AS Roma Spv Llc, è
al centro di flussi non meno complessi: deve pagare quasi un miliardo di euro
al costruttore, e li recupera con utili da quattro fonti. Da una parte estrae
risparmio finanziario dallo stock di capitale disponibile nella città di Roma,
emettendo titoli di debito (Bond), dall’altra conta sui flussi derivanti dall’affitto
dello stadio stesso e di parte delle infrastrutture alla AS Roma, da una parte,
e degli uffici e altri spazi commerciali alla domanda urbana, dall’altra. Questi
flussi sono attualizzati, con un meccanismo al centro della crisi dei mutui del
2007, ma mai abbandonata né tanto meno regolamentata più attentamente, attraverso
una idonea cartolarizzazione e la distribuzione sul mercato finanziario. In questo
modo si ottengono di fatto due flussi di capitale anticipato: i bond collocati[14] e
i prodotti derivati dai contratti di fitto attivi[15],
che determinano un immediato
vantaggio per l’investitore[16].
Cosa sta accadendo
qui? In questo triangolo di
interessi, una piccolissima parte dei circa 1.000 miliardi di dollari all’anno
che sono impiegati in grandi operazioni di rigenerazione urbana che hanno sempre
lo stesso meccanismo di base: si applicano in aree deboli che sembrano “vuote”,
minimizzano gli interventi pubblici (spesso attraverso operazioni di corruzione
o di esplicito ricatto, fidando nella mobilità del capitale a fronte della
fissità del territorio), si rapportano, sia per il capitale attratto sia per la
distribuzione dei prodotti derivati e beneficiari ultimi dei flussi di remunerazione
estratti attraverso i fitti dall’economia urbana, con la finanza internazionale[17].
Il punto sollevato dal Politecnico di Torino è dunque
cruciale sotto diversi profili, non è affatto un caso che l’area urbana prescelta
sia in debito di infrastrutture viabilistiche e difficilmente raggiungibile, una volta che sia investita da una infrastruttura
di questo peso. Se non lo fosse il primo triangolo di valorizzazione non
potrebbe attivarsi, e quindi non potrebbe determinare neppure il secondo. L’assenza
di rendita fondiaria si scaricherebbe, come in un sistema di vasi comunicanti,
sul secondo operatore, aggravando i costi dell’operazione, e quindi retroagendo
sull’equilibrio triangolare tra stadio-volumi aggiuntivi-opere compensative[18],
portandola fuori dei parametri competitivi internazionali.
Questa logica
della valorizzazione, diversa e confliggente con quella dell’interesse pubblico, ovvero, nella corretta
espressione del valore d’uso della città, dell’appropriazione di questo da
parte dei suoi abitanti[19],
oltre che del profilo specifico e del percorso, incorporato nella sua fisica
materialità[20], è quindi strutturalmente
squilibrante e ostacola per necessità trasparenza e partecipazione alle scelte.
Queste, infatti, non sono traducibili in ragioni generalizzabili, ma risentono
della necessità di rispondere alle logiche malate del mercato immobiliare e
fondiario internazionale.
Alla fine questa è l’unica linea di difesa che ha un
minimo di senso: la necessità. Oggi non
si possono attrarre capitali, se non pubblici, sulle infrastrutture se ci si
rifiuta a questa logica.
Ma la logica di questi progetti, come si intravede dal
buco della serratura della relazione tecnica del Politecnico di Torino,
neutralizza lo spazio e comprime il tempo[21] (e
dunque, non per caso, dei sistemi d’ordine normativo e sociale ad essi
connessi, incluso in primo luogo le forme statuali democratiche che si
definiscono su spazio e tempo), determina necessariamente la resistenza del sociale,
e disarticola inserendo nel delicato tessuto dell’urbano un principio alieno di
valorizzazione fine a se stessa.
Bisogna ripartire dal “diritto alla città”[22] e
dal capitale pubblico, per sua natura ‘paziente’[23].
[1]
- Banalmente, si arriva tutti insieme e tutti insieme si va via.
[2]
- A pag. 26 si leggerebbe: “sono molti gli interrogativi che accompagnano gli
studi prodotti per questo intervento e troppo evidenti sono le criticità fin da
ora riscontrate per poter fornire un giudizio positivo in merito alle possibili
ricadute sul traffico stradale capitolino; traffico già normalmente in stato di
forte congestione, e che, nel complesso, non vede trarre beneficio dagli
interventi infrastrutturali a carico della rete: la sola unificazione della
viabilità in corrispondenza dell'intervento e il Ponte dei Congressi non possono
risolvere le criticità già ora presenti che in futuro verrebbero acuite da un
tale intervento". Dunque “è sufficiente che un singolo anello
della catena venga meno per generare un ulteriore aggravio di questa situazione
già compromessa”.
[3]
- Cfr. p.16
[4]
- In sintesi (si veda anche qui),
a marzo 2014, solo quattro mesi dopo la pubblicazione della ‘legge sugli stadi’,
il proprietario della AS Roma, James Pallotta, presenta un progetto per lo
stadio da 55.000 posti, insieme ad un “Business Park” che include ben tre
grattacieli progettati da Daniel Libeskind, e alcune opere infrastrutturali: il
prolungamento della Metro B fino a Tor di Valle ed il “Ponte di Traiano” per
collegare la via Ostiense con l’autostrada A91 e quindi Fiumicino. Il costo
stimato del progetto era di 1 miliardo di euro. A questo
link un video del progetto. Il sindaco dell’epoca (Ignazio Marino) era favorevole,
mentre l’opposizione dei M5S contraria. Alle dimissioni di Marino seguì una campagna
elettorale con posizioni immutate (la Raggi si dichiarò contraria al progetto),
successivamente, con il M5S al governo l’assessore all’urbanistica, Paolo Berdini,
tenne il progetto fermi fino al febbraio 2017. Tra le obiezioni diversi punti
di diritto successivamente risolti dal Governo Gentiloni con la seconda
versione della Legge. Dimessosi Berdini la Raggi raggiunse un accordo per il
via libera al progetto in cambio della rinuncia alle torri, da una parte, e lo
stralcio del “Ponte di Traiano”, per conservare l’equilibrio
economico-finanziario dei proponenti. Superato questo ostacolo ne sorse un
altro: la Soprintendenza pose il vincolo sul vecchio stadio da demolire (l’ippodromo
di Tor di Valle, opera dell’architetto Lafuente). Ma il governo cittadino va
avanti e rimodula la “Delibera di pubblico interesse” (la prima sotto la giunta
Marino), ed il vincolo alla fine cade. Ultima tegola: quando tutto sembrava
andare verso la conclusione della Conferenza dei Servizi in regione (cui deve
seguire il voto della variante urbanistica in Consiglio Comunale), un’inchiesta
irrompe a maggio 2018 sul progetto con l’arresto del costruttore Luca Parnasi.
Seguono fasi convulse e la sostituzione della società di costruzione, ma il
sindaco di Roma, al fine di superare i dubbi sui pareri ottenuti nel corso del
procedimento richiede una due diligence al Politecnico di Torino su uno dei
punti più delicati della ‘Delibera di interesse pubblico’, le opere
viabilistiche a corredo.
[5]
- Legge 27 dicembre 2013, n. 147, commi 304-305 (Governo Monti), poi modificato
dal DL 24 aprile 2017, n.50, convertito con Legge 21 giugno 2017, n.96 (governo
Gentiloni).
[6]
- La legge, nella seconda versione, prevedeva che “lo studio di fattibilità può
comprendere la costruzione di immobili con destinazioni d'uso diverse da quella
sportiva, complementari o funzionali al finanziamento o alla fruibilità
dell'impianto sportivo. Ciò ai fini del raggiungimento del complessivo
equilibrio economico finanziario dell'iniziativa o della valorizzazione del
territorio in termini sociali, occupazionali ed economici. Dalla citata
costruzione di immobili con destinazione d'uso diversa da quella sportiva è
esclusa la realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale”.
Inoltre lo Studio di Fattibilità può anche prevedere la demolizione e ricostruzione,
anche con diversa volumetria e sagoma” di un impianto sportivo.
[7]
- Nella quale l’autorità pubblica è posta continuamente sotto pressione da un
operatore privato che dispone di una enorme macchina di consenso, il tifo di
almeno metà dei cittadini romani, e non si fa alcuno scrupolo di utilizzarla
(dichiarazioni di Totti, degli allenatori di turno, dello stesso presidente che
minaccia apertamente disinvestimenti).
[8]
- Principalmente, ma non esclusivamente, riferito all’impatto sul funzionamento
di un’ampia parte della città che ne risulterebbe drammaticamente
congestionata.
[9] -
A gennaio 2013.
[10]
- Successivamente posta con Deliberazione n.132 votata dall’Assemblea
Capitolina il 22 dicembre 2014.
[11]
- Suddivise in opere a compensazione (asse di collegamento Ostiense-A91, ponte
carrabile sul Tevere e viadotto di approccio, svincolo autostradale
Roma-Fiumicino, riunificazione e messa in sicurezza Ostiense, ponte
ciclopedonale Magliana, stazione Tor di Valle con ponte, sfioccamento metro B e
messa in sicurezza del fosso di Vallerano) per 195 milioni; opere a standard
(parcheggi a raso, multipiano, circolazione interna, passerella pedonale, verde
pubblico e sistema smaltimento acque idrovore) per 124 milioni; opere da
realizzare con contributo di costo di costruzione (parco fluviale Ovest,
pontile Est-pontile Ovest, intervento su via dei Dasti, videosorveglianza) per
ca 44 milioni.
[12]
- Valore, questo è il punto, che sarebbe notevolmente inferiore in una zona
della città meglio servita e per questo molto più costosa.
[13]
- Una società immobiliare è come una bicicletta, se si ferma cade
immediatamente. Per questo deve avere necessariamente in corso progetti ad alto
rendimento con i quali tenere liquide le sue linee di credito.
[14]
- Che generano un flusso negativo di cassa per la loro remunerazione nel tempo.
[15]
- Che, invece, assorbono il flusso positivo di cassa, si veda ad esempio,
Saskia Sassen “Londra
si autodistrugge: del ciclo edilizio al tempo della finanza estrattiva”, o “Laurie
MacFarlaine, la ricchezza è generata dalla rendita”.
[16]
- Per inciso è molto probabile, secondo il modus operandi delle società finanziarie
come quelle di Pallotta (il “Raptor Fund”) che ad operazione chiusa, anche
prima del completamento della costruzione, si avrà da parte sua il disinvestimento
e quindi la vendita della società ad un investitore con diverso profilo di
rischio.
[17] -
Si può leggere anche, per questa analisi, “Qualche
nota sulla rendita urbana”.
[18]
- Il presupposto, tipico della finanza contemporanea, che l’investimento si
deve coprire immediatamente e deve essere competitivo con altri possibili in
altre aree (pena la mancata attrazione dei capitali), determina l’incremento
necessario dei volumi ‘compensativi’ al crescere del costo a mc. Ma questi a
loro volta determinano un incremento dei costi di compensazione, e questi di
quelli, in un inseguimento reciproco.
[19]
- Si veda “Diritto
alla città e questione della casa”
[20]
- Quel che alcuni chiamano “genius loci”.
[21]
- Mette a valore il potenziale, generato dal progetto, dell’area recidendo le
relazioni con il suo intorno specifico, grazie alla potenza di ricombinazione,
incorporamento, ed uniformazione, della tecnica finanziaria (si veda, ad
esempio, Saskia Sassen, “Espulsioni”,
o David Harvey, “L’esperienza
urbana”).
[22] -
Il termine come è noto è stato formulato da
Henri Lefebvre nel suo libro del 1968 “Il
diritto alla città” ed indica il diritto di ciascuno di
disporre, ma collettivamente, come diritto sociale, di una esperienza spaziale
adeguata a sostenere una vita decente e dignitosa e non segregante o
controllata. Indica un mutamento del soggetto che è legittimato a porre la
domanda circa il tipo di città che vogliamo, il tipo di persone che vogliamo
essere, i rapporti sociali cui aspiriamo, il rapporto che intendiamo promuovere
con la natura, e, naturalmente, con le tecnologie che riteniamo convenienti.
Dunque il “diritto alla città” non è un diritto individuale di accesso alle
risorse originariamente concentrate nella città stessa: piuttosto è il diritto
a cambiare insieme alla città, in modo da renderla conforme ai desideri,
insieme scoprendoli. È un diritto collettivo (sociale) e non individuale (civile), e si traduce necessariamente nell’esercizio
di un potere collettivo sul processo di urbanizzazione. Il “diritto
alla città”, insomma, ossia
il controllo della stretta relazione fra urbanizzazione, produzione e uso delle
eccedenze di capitale, è quindi essenziale per riportare sotto controllo
sociale la dinamica del capitalismo. Perché gli attori sociali imparino,
attraverso le lotte per il riconoscimento, a riferirsi gli uni agli altri non
come strumenti del reciproco egoismo (sotto l’egemonia del valore di scambio),
ma come soggetti di bisogni. Agendo l’uno-per-l’altro, intrecciando i piani di
vita condividendo la comune preoccupazione per l’autorealizzazione. La libertà
non è, in questa visione che sarà sconfitta, realizzabile dai singoli ma da una
formazione collettiva adeguata.
[23]
- Come noto il termine è adoperato in modo
sistematico da Mariana Mazzucato (si veda “Lo
stato innovatore”).


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