Un libro importante
e coraggioso, che affronta alcuni dei nodi fondamentali oggi davanti ai nostri
occhi e che bloccano la nostra azione, costruito con un profondo sguardo storico
e capace di ripercorrere in poche e dense pagine gli snodi che hanno costituito
il presente. Il presente come storia,
dunque.
A me pare che una delle
chiavi interpretative del testo sia da rintracciare nella dialettica delle
durate, proposta da Braudel nel 1949[1],
tra increspature superficiali, movimenti lenti dati dalle trasformazioni dei
rapporti di produzione e mutamenti del sentire collettivo ed evoluzioni
tecnologiche[2], e, al fondo, trasformazioni
del sistema naturale, lentissime ma potenti. Quel che compiono gli autori, per
gran parte del testo, è quel che Cervantes[3]
chiama scrivere di storia, “madre della
verità”. Storia, cioè, come verità
narrata; non ciò che avvenne, ma ciò che giudichiamo essere avvenuto[4].
Una narrazione nella quale compare il problema del nesso tra la volontà dei
singoli, nella loro interazione reciproca, e i fattori determinanti inerenti le
‘durate’ più lente, le strutture nella loro dialettica. Quanto valgono i piani
dei capi nello svolgimento di una battaglia? Quanto conta che Kutuzov si
addormenti mentre altri fanno complessi piani in “Guerra e pace”[5]?
Ancora più, la storia
narrata da Fazi e Mitchell è storia
militante; serve, la loro narrazione, a scopi evidenti nel testo. Ma il
pathos narrativo che appare evidente in ogni pagina (con la loro partecipazione
emotiva e la tensione morale) è esso stesso strettamente parte della storia
narrata. Perché, come sostengono gli autori, questa storia, la sua verità, ci riguarda
e ci contiene.
Si
sta parlando dunque del nostro presente,
incorporato nell’imperialismo dell’economico e nella onnipresenza di una
dinamica di contrazione (e di espansione per pochi privilegiati) che origina
nella ‘crisi’ degli anni settanta. O meglio, come scrivono, “almeno” degli anni
settanta.
Cosa finisce, insieme al
regime di Bretton Woods e al “trentennio keynesiano”[6]?
E soprattutto perché?
Un passo indietro, le
stesse ‘conquiste’ keynesiane, sono frutto della rivoluzione intellettuale[7]
di alcuni generosi e illuminati intellettuali, come lo stesso John Maynard Keynes,
o Michal Kaleki, negli anni venti e trenta, e quindi dal rovesciamento
intellettuale del paradigma neoclassico dei mercati autoregolati, o dall’insieme
di fenomeni interconnessi che chiamiamo “Grande Depressione”[8]
degli anni trenta?
L’insieme di politiche
che Franklin D. Roosevelt promosse durante gli anni trenta in America,
sostengono gli autori sulla scorta di una lettura di Riccardo Bellofiore[9]
promuovono la domanda e ridefiniscono la produzione, e poi sono completate dall’enorme
crescita della spesa pubblica in armi e uomini della guerra. Ma la svolta si
ottiene, secondo la ‘teoria della
regolazione’[10] sposata dai nostri, per
effetto dell’alternanza di cicli di crescita contraddistinti da un paradigma
industriale ed un ‘regime di accumulazione’ (ovvero un modello di produzione e
consumo che consente l’accumulazione di capitale e dunque la stabilità[11])
a questi modelli corrisponde infine un “modo di regolazione”, leggi,
istituzioni, regole…
Il regime fordista –
keynesiano era dunque un simile ‘regime di accumulazione’, che ad un certo
punto è venuto meno, ed era caratterizzato da un forte intervento dello Stato a
sostegno dei processi di accumulazione. Il punto è questo: il sistema era
costruito a vantaggio dell’accumulazione
e non malgrado questa e scaturiva da una esperienza storica nella quale non era
stata più possibile ed aveva provocato la Grande Depressione. Il keynesismo è,
insomma: “il risultato della convergenza fortuita, nel secondo dopoguerra,
delle ‘giuste’ condizioni sociali, politiche, economiche, tecniche e
istituzionali” (p.27).
Esso, non fu, insomma,
accettato a malincuore o imposto dalle lotte operaie (come immagina una
influente corrente italiana), ma era
indispensabile al modo di regolazione che garantiva la profittabilità degli
investimenti e quindi il consenso anche
dei ceti possidenti. Questo modello, con il vasto consenso sostanziale che lo
contraddistinse (cosa che non impedisce ci fossero tensioni e lotte entro di
esso tra chi voleva andare oltre e chi, invece, limitarlo), non era, in altre
parole, affatto un’applicazione delle teorie keynesiane, ma in certo senso un
tradimento. Come ricorda la Robinson, ma anche Minsky[12],
fu opportunamente dimenticata la necessità di un certo grado di controllo degli
investimenti e quindi della produzione. Le lotte operaie che andarono in quella
direzione furono sempre aspramente osteggiate, anche dall’interno del movimento[13].
Invece tutte le nozioni più radicali della teoria keynesiana andarono perse
nella formalizzazione matematica e nella successiva recezione da parte dell’accademia
della cosiddetta “sintesi neoclassica”[14].
Ma negli anni settanta un
diverso paradigma, pazientemente messo in piedi in alcune università fortemente
sostenute da flussi di capitale privato e connesse con potentissimi think
thank, emerge quasi improvvisamente. Si tratta del “monetarismo”, promosso da una pattuglia di docenti dell’Università
di Chicago il cui più famoso esponente è Milton Friedman[15],
concentrati sul valore della ‘libertà’ e la ripresa della vecchia tesi che i
mercati tendono comunque ad autostabilizzarsi ed impiegare al meglio tutte le
risorse di cui dispongono. Tra i punti fondamentali la teoria che ancora oggi
determina la logica dell’austerità imposta all’Italia, troviamo il “tasso naturale di disoccupazione”, unico
tasso (alto) di disoccupazione al quale corrisponde la stabilità dei prezzi,
superato il quale, cioè, dovrebbe partire l’inflazione. Come dalla lunga
tradizione liberista l’inflazione è, per i monetaristi, il nemico principale da
combattere, anche al costo di avere milioni di disoccupati (viceversa il nemico
principale per Keynes era la disoccupazione).
Ci fu in effetti una
grande offensiva ideologica, ma non per questo il keynesismo “bastardo” del
trentennio fu rovesciato, come disse anche Milton Friedman nella prefazione a “Capitalismo e libertà”[16],
le idee dovevano aspettare le giuste condizioni[17].
Quando le condizioni generali che avevano indotto il precedente modo di regolazione
vennero meno la tensione si scaricò in una rottura sistemica. I fattori sono
molteplici, ma gli autori ricordano la crescente concorrenza intercapitalista
(ovvero la perdita dell’egemonia economica americana), l’aumento del prezzo
delle materie prime come conseguenza dell’accresciuta domanda, e della
decolonizzazione in corso da decenni, un improvviso rallentamento della
crescita della produttività, il clima politico con richieste crescenti dei
lavoratori e delle loro organizzazioni. Friedman ricorderà, invece, come visto,
fattori economici e culturali come: l’appannamento nei confronti delle élite
intellettuali e delle classi medie del fascino di Russia e Cina, la crisi dell’economia
inglese, l’effetto demotivante della guerra del Vietnam, il senso di fallimento
e di oppressione burocratica che si collegava con molti programmi del New Deal,
divenuti dopo la ‘grande società’ di Johnson enormi e costosissimi, e quindi la
tassazione oltre che l’inflazione derivante dalla bassa disoccupazione.
I limiti posti sotto
attacco dai monetaristi sono visti, insomma, in parte come ‘oggettivi’, in
quanto la crescita stabile dei salari non si coniugava più bene con la crescita
dei profitti.
Nel vecchio mondo uno dei
punti nei quali la tensione economica si scaricava era il sistema di Bretton
Woods, e precisamente l’accordo di convertibilità delle monete, il cui tasso di
cambio era fissato politicamente, in oro. Dato che i paesi in disavanzo
commerciale subivano una pressione al ribasso delle monete erano costrette a sostenerle
vendendo le riserve, oppure aumentare i tassi di interesse per attrarre
capitali (ma in questo modo riducendo i prestiti, divenuti più costosi, deprimere
l’economia ed aumentare la disoccupazione). In altre parole, quando andavano in
disavanzo (le importazioni superavano le esportazioni) i paesi dovevano fare
austerità.
C’era un’eccezione: gli
Stati Uniti che quando andavano in deficit potevano semplicemente pagare le
importazioni stampando altra moneta, in teoria avendo una scorta frazionaria di
oro. Di fatto era però sul deficit di bilancia commerciale americano che il
sistema poteva trovare equilibrio, ma l’ulteriore condizione era che questa massa
di dollari che defluiva fosse affidabile.
E la fiducia si basava sulla convertibilità in oro. Nel 1970 la cosa non era
più sostenibile e crollò quando la richiesta di conversione della Francia (che
aveva l’appoggio dell’Inghilterra) mostrò quale era il vero potere alla base
del dollaro: la potenza americana, non ultimo militare. Nixon, infatti, in modo
unilaterale e senza alcuna discussione, né opposizione, denunciò la convertibilità
in oro, “sospendendola” (fino ad oggi).
La moneta diventa da ora ‘fiat’.
A questo punto gli Stati
Uniti continuano ad essere in deficit commerciale, fornendo liquidità al mondo,
ma i paesi che vendono merci al bulimico consumatore americano (ovvero quelli
in surplus) per evitare che il dollaro con il quale sono pagati si deprezzi
hanno, loro, l’onere di sostenerlo comprando i titoli di Stato Usa. Il legame
si è, in altre parole, stretto ancora di più.
In questo contesto gli Stati
occidentali si mossero per ridurre la fluttuazione monetaria (in Europa prima
lo Sme e poi l’Euro) e nel contesto di stagnazione ed inflazione alta (importata
e quasi eguale in tutti i paesi del mondo[18])
si affermò un diverso equilibrio economico intensamente voluto: quello che
chiamiamo ‘neoliberismo’.
L’eccesso di produzione fu
risolto non più con l’incremento della domanda interna, ma con l’esternalizzazione,
la mondializzazione, la deregolamentazione; inoltre con l’ampliamento dei
mercati, grazie alle privatizzazioni ed alla finanziarizzazione. Effetti sono
la flessibilizzazione del lavoro, la compressione dei salari in occidente,
esposti alla concorrenza delle importazioni di merci a basso costo prodotte all’estero
dalle stesse imprese multinazionali occidentali (e quindi dalla minaccia della
delocalizzazione), l’aumento costante della disoccupazione.
Chiaramente per
transitare in questo nuovo mondo, nel quale le classi lavoratrici coltivate nel
modello keynesiano erano sconfitte e sacrificate all’altare della redditività
del capitale, era indispensabile che il potere guadagnato nel novecento
attraverso il diritto di voto e le Costituzioni repubblicane, venisse neutralizzato.
La cosa si ottiene promuovendo la cosiddetta “governabilità”, ovvero la
depoliticizzazione del processo decisionale. Si passa alle post-democrazie[19]
ed alla loro piena istituzionalizzazione da parte dell’Unione Europea.
La sinistra, dunque, sconfitta
sul piano ideologico ed organizzativo, si acconcia a gestire le crisi del
capitale per conto di quest’ultimo[20].
Aiuta a considerare tale strada inevitabile il rifiuto della proposta
alternativa di Minsky ed alcune influenti letture, come la “crisi fiscale dello Stato”, proposta da
O’Connor in un fortunatissimo libro[21],
che non avendo ben compreso l’evento del ’71 (ma il libro è del 1973), presume
che siano sempre le tasse a finanziare la spesa e quindi diagnostica un
inseguimento costante e perdente tra queste e quella. Ne segue una ricezione
ultrasemplificata nel mondo della sinistra (che per lo più orecchia e non legge
davvero il libro) che recepisce il titolo come una “formula ad effetto”[22]
e ne conclude che sia all’opera inevitabilmente un inseguimento tra spese richieste
da vari gruppi sociali in imitazione reciproca e la reazione dei contribuenti
chiamati a sostenere la stessa. Un altro libro chiave è “Sovranità nazionale in crisi”
di Raymond Vernon che collega la perdita di autorità fiscale dello Stato alla crescita
delle multinazionali, orientate dal progresso tecnologico dei trasporti e delle
telecomunicazioni.
Si afferma l’idea che le
multinazionali sfuggano al controllo statale (mentre restano connesse con molti
e diversi rapporti, ed in alcuni casi ne sono diretta emanazione) e che la mondializzazione
sia determinata in ultima analisi da quel vettore del progresso che per l’occidente
è sempre stato lo sviluppo tecnologico.
Le cose stanno
diversamente, una più attenta ricostruzione storica mostra come siano piuttosto
gli Stati, guidati da élite e ceti sociali che portano in primo piano i loro
interessi, a intervenire attivamente nell’orientare il sistema mondiale verso l’interconnessione
e alcuni generi di dinamiche competitive disciplinanti i lavoratori (e rassicuranti
i consumatori). Un esempio è il governo Challagan[23],
il primo a dichiarare morto il keynesismo e la fine del “mondo confortevole”. Quindi
Mitterrand[24] con la sua repentina
svolta negli anni ottanta. Ma ha un ruolo anche la vicenda cilena (1973) e la
repentina caduta del governo Brandt[25].
Ma il libro, giustamente,
si concentra particolarmente sull’Italia, spendendo alcune delle sue pagine più
interessanti, in poco più di centotrenta pagine ripercorre analiticamente, con
abbondante riferimento a testi scelti noti e meno noti, la storia economica e
politica del paese dalla fine del ‘miracolo economico’ ad oggi. Il periodo
1948-73 si caratterizza per una crescita molto forte in assenza di inflazione
trainata dalle esportazioni, dalla spesa pubblica, fino agli anni sessanta con
tassi del 6% e poi rallentando. Fu determinante il ruolo dell’intervento pubblico,
ed in particolare dell’IRI che realizza una imponente rete infrastrutturale e
della grande industria (siderurgia, cantieristica, navigazione marittima,
telecomunicazioni, energia elettrica, metalmeccanica). Quindi c’è la costituzione
nel 1953 dell’Eni, sotto la guida di Enrico Mattei, ed il settore bancario con
la separazione tra la gestione del risparmio e l’investimento che garantisce,
per anni, l’orientamento del credito a fini sociali. Naturalmente, come in
tutto lo schema di Bretton Woods, erano presenti controlli sui movimenti di
capitali ed il finanziamento monetario della spesa pubblica. Tra i problemi che
permanevano gli imponenti spostamenti migratori interni ed esterni (in uscita),
e lo squilibrio civile ed infrastrutturale tra le diverse aree del paese (non
solo al sud, ad esempio permanevano vari ‘sud’ interni anche al nord).
Come ebbe a dire Lelio
Basso il sistema sociale ed economico era organizzato intorno al nesso tra la
realizzazione del diritto al lavoro (sempre tendenziale e mai raggiunto) e la
democrazia costituzionale (sempre imperfetta ed anche qui sede di confronto più
che realizzazione). La “libera” iniziativa economica si doveva collegare, in
base all’art 41 Cost, ai fini sociali che spettano all’indirizzo della legge. Una
Costituzione che Guido Carli giudicò come “punto di intersezione fra la
concezione cattolica e la concezione marxista dei rapporti tra società ed economie,
tra società e Stato”, e che fu sempre orientato a superare.
Presupposto, come fu
riconosciuto sia dallo stesso Basso, come da esponenti comunisti come Togliatti,
di tale adempimento era la difesa della sovranità democratica. Il libro
ricostruisce le posizioni dei partiti della sinistra italiana nei confronti del
processo di unificazione europea, iscritto nella logica atlantica, e soggetto
alle “evasioni sul giardino di infanzia delle illusioni federaliste”, come ebbe
a dire Pietro Nenni nel 1948[26]
o Lelio Basso nel 1949[27],
denunciando la natura imperialista del nascente progetto europeo (natura mai
venuta meno, se mai accentuata nel tempo) e quindi la necessità di difendere la
sovranità e anche gli interessi nazionali. Ma anche, con sguardo lungo, la “decadenza
del Parlamento”, perché, come naturale “i grandi Trusts e i grandi monopoli
preferiscono risolvere i grossi problemi dell’economia, della finanza e della
politica nel chiuso dei consigli di amministrazione e dei gabinetti dei
ministri”. Fa parte di questo discorso, che abbiamo già letto[28],
un significativo chiarimento sulla distinzione tra ‘cosmopolitismo’ e ‘internazionalismo’[29].
Analogamente, viene ricordata la posizione di Di Vittorio, nel 1952 sul “Piano
Schuman” e l’industria italiana.
Questa fase inizia ad
essere chiusa nel 1963-4, dall’azione della Banca d’Italia, che, in accordo con
la parte conservatrice del governo, attiva non appena si presenta il ciclo di
lotte operaie del 1962-3 nel nord ovest in piena occupazione, che nelle condizioni
date porta all’aumento dei prezzi dei beni industriali, per non perdere margini
di profitto e quindi le prime tensioni di bilancia dei pagamenti, una brutale
manovra per arrestare gli investimenti, creare disoccupazione, e quindi
riequilibrare per questa via i conti esteri. È il prototipo della stessa logica
ancora all’opera.
Come scrive Guido Carli: “una
crescita trainata dalla domanda estera costringe a una politica salariale restrittiva
e attua una redistribuzione a favore di quei limitati settori industriali
sottoposti alla concorrenza internazionale”.
Questo è il quadro nel
quale l’Italia aderisce allo Sme non prima di aver attraversato la stagione di
lotte operaie più aspra nel cui clima, siamo al 1975, le sinistre ottengono la “scala
mobile” (indicizzazione dei salari all’inflazione, neutralizzandola e quindi
scaricandola sulla rendita), lo Statuto dei lavoratori (con l’art 18), la
riforma pensionistica, norme per la tutela del lavoro femminile, parità di
trattamento tra uomini e donne, e soprattutto il servizio sanitario nazionale. Nel
biennio 1976 -78 si svolge la scena della controffensiva: il governo vara
misure di austerità finalizzate a ridurre il deficit commerciale, come al
solito al prezzo dell’aumento della disoccupazione. In questo clima si arriva
all’adesione allo Sme.
Gli autori si
concentrano, nel raccontare quegli anni cruciali, sul ruolo del Pci, che nel
1975 aveva raggiunto il suo massimo risultato storico, e promosse la strategia
del cosiddetto “compromesso storico”,
per superare l’esclusione dal governo su una linea di minore conflitto con le
forze atlantiste e cattoliche che da quaranta anni ininterrotti governavano il
paese. Ci fu un forte dibattito interno di cui è paradigmatico il Convegno del Cespe del 1976. Lo scontro
intellettuale si tenne tra il professore neokeynesiano Franco Modigliani e alcuni
economisti non liberisti tra i quali Augusto Graziani, Domenico Nuti, Federico
Caffè, Claudio Napoleoni, Massimo Pivetti. Per Modigliani la scala mobile era
da abolire perché conduceva ad un aumento del salario reale (perché gli
imprenditori, a causa della competizione, non riuscivano a scaricare sui prezzi
interamente l’aumento) e ciò portava a perdere competitività e peggiorare la
bilancia commerciale (dai due lati). Inoltre, secondo una tipica ipotesi
neoclassica, la contrazione dei profitti avrebbe portato meno investimenti, e
quindi in ultima analisi un danno alla stessa occupazione. Bisognava quindi
accettare dei ‘sacrifici’ per l’interesse generale e lo stesso interesse dei
lavoratori. La perdita di salario e di diritti, secondo una equazione da allora
sempre riproposta, sarebbe stata compensata dalla difesa dell’occupazione e
dalla fine dell’inflazione.
La tesi di Friedman,
insomma, che proprio Modigliani contribuì a legittimare negli anni settanta.
La controtesi avanzata da
molti, tra cui Caffè, e oggi ripresa ad esempio in forma contemporanea da
Sergio Cesaratto[30], era che il livello
salariale compatibile con la piena occupazione dipende da diversi fattori e non
è univoco, come vorrebbe Friedman, ma nel breve periodo avrebbe comunque
richiesto controlli sui movimenti di capitale e delle importazioni e una
radicale riforma del sistema capitalistico.
La proposta di
Modigliani, invece, da allora egemonica e che gli valse il nobel, era di
accettare che ogni barriera dovesse cadere e tutti paesi dovessero alla fine
equalizzare livelli del costo del lavoro (e dunque tenore di vita diffuso) per
effetto della concorrenza.
Effetto inevitabile: i gilet gialli a Parigi.
Ovvero la distruzione
della classe media occidentale, per uniformarla ad una ‘classe media mondiale’
naturalmente ad un livello di reddito e stile di vita notevolmente minore (oggi
viaggia tra gli 8 e i 10.000 dollari all’anno). Questo è l’obiettivo reale
della globalizzazione[31].
Il Pci, senza capire la
reale portata della proposta ricevuta, scelse di proporre ai lavoratori “sacrifici senza contropartite”, e così
fece il sindacato[32].
Fu in tal modo accettata l’idea di un inevitabile vincolo esterno, che ancora è
dominante nell’establishment derivato da quella tradizione, e quindi della
progressiva contrazione salariale, richiesta “dallo stato delle cose”. Completano
questa visione l’accettazione dell’austerità come prospettiva generale[33]
e la denuncia del ‘pericolo dell’inflazione’.
Questa svolta detta “dell’Eur”,
è l’avvio del distacco, anche elettorale, del partito comunista dai ceti
popolari e l’accettazione da parte sua della linea liberista. Che viene
completata successivamente dalla denuncia della cosiddetta “spesa pubblica
improduttiva”[34] e la “questione morale”[35].
Naturalmente la sinistra,
che ancora nel 1978 per l’ultima volta si oppone ai meccanismi europei[36],
completa la sua trasformazione aderendo alla prospettiva europea che
gradualmente va a sostituire la prospettiva socialista. Seguirà il “divorzio”
tra la Banca d’Italia ed il Tesoro[37],
e le sue inevitabili conseguenze, tra le quali l’esplosione del debito pubblico.
Segue un aumento
significativo del tasso di disoccupazione, che si porta dalle parti del 10% ed
inizia una decisa compressione della quota salari e la crescita dell’ineguaglianza.
I passi successivi sono l’Atto Unico Europeo, firmato nel 1986
da Craxi e i passi successivi verso l’euro, negoziato per l’Italia da una delegazione
formata da Guido Carli e Mario Draghi.
Il 1992 ci sarà quindi lo
smantellamento della scala mobile da parte del governo Amato e la sospensione
dello Sme, dopo l’attacco sui mercati. Seguirà la richiesta sempre più
pressante di riforme ‘drastiche’, e la stipula del Trattato di Maastricht in
condizioni che sono state molte volte raccontate[38].
Solo poche voci si alzano fuori del coro, tra queste Lucio Magri (p.147) e Giuseppe
Guarino. Seguirà la più impressionante serie di riforme economiche di stampo
neoliberale d’Europa e l’autentica distruzione dell’industria italiana (come
disse De Cecco, p.164).
Queste riforme sono
sistematicamente promosse attraverso la retorica messa a punto negli anni
settanta: sacrifici, austerità, e vincolo
esterno. L’Unione Europea diventa la soluzione ai problemi che non si riesce
ad affrontare politicamente nel Parlamento o nel paese.
In effetti, come si sono
trovati a dire in molti, aderendo all’euro gli stati membri si sono trovati ad
essere ridotti al rango di colonia, attraverso la denazionalizzazione della
moneta. Quel che si genera è, insomma, un sistema perfettamente adatto alla sua
funzione, compiuto secondo il suo programma e del tutto completo. Un processo
di integrazione al giusto livello per garantire gli esiti post-democratici resi
necessari dalla grande paura degli anni settanta. Quella che gli autori chiamano
“una dittatura di fatto” (p.184).
Non un vero sistema ordoliberale,
ma ‘alla carte’, solo fino a che serve gli scopo dei più forti e in quei limiti.
Il resto della storia
proposta da Fazi e Mitchell vede la Francia fallire il suo tentativo di
controllare il processo europeo e la Germania prendere il sopravvento con la forza
della sua economia da esportazione. Hanno
rilevanza le riforme Hartz[39],
nel comprimere la domanda interna e guadagnare spazi di competitività di prezzo
non più neutralizzata dalla normale dinamica della moneta. Ma questa strategia
economica, cosiddetta mercantilista, viene da lontano. È ricordata l’impostazione
negli anni cinquanta di Ludwig Erhardt (p.210) e il processo brutale di
unificazione tedesca.
Queste sono le dinamiche
che determinano la cosiddetta “mezzogiornificazione” dell’Italia e l’emergere
di una sorta di capitalismo comprador, che continua a perdere competitività per
una costante riduzione degli investimenti. Le conseguenze generali del processo
di adesione all’unione monetaria, anche considerando che manca il
controfattuale, sono disastrose. Il prevalente disegno nordico di porre sotto
controllo la concorrenza industriale del sud appare, con il senno di poi, di
pieno successo; la crescita media italiana, che fino agli anni ottanta è la più
alta d’Europa[40], negli anni novanta si
arresta e diventa la più bassa d’Europa. Chi, sulla scorta di una perversione
fossile dei vecchi modi di pensiero sedimentati nella sinistra, pensa che il
rallentamento deriva da strutture antropologiche e orientamento al familismo
amorale proprio della mancanza di una riforma protestante, o di altre consimili
determinanti[41], ha l’onere di spiegare
perché prima della svolta qui riassunta andava diversamente.
Anche la bassa produttività
parte in realtà dalla metà degli anni novanta durante i quali accadono molte
cose nel mondo, ma per tutti i paesi europei. Alcuni riescono a reagire meglio
(alla crescita della mondializzazione, che, però, è un processo lento e
progressivo, ed accelera casomai nei primi anni duemila, dopo l’adesione della
Cina, non prima), altri peggio. Per reagire a stimoli esterni negativi (per la
struttura del paese), del resto bisogna prima di tutto poter operare, e quel
che succede in questi anni è una drastica riduzione delle leve di azione
politica: fissaggio del tasso di cambio[42],
stretta fiscale eterodiretta[43],
liberalizzazione a partire dalla finanza[44],
smantellamento e privatizzazione della base industriale strategica[45],
deregolamentazione del mercato del lavoro[46].
Il crollo della produttività ha una relazione diretta con la rivalutazione
della lira del 1995, fino alla fissazione a valori troppo alti. La bilancia
commerciale tornata attiva nel 1993 torna negativa nel 2002, sono questi
fattori, insieme alla scarsa crescita del mercato interno, sottomesso ad ondate
successive di austerità, a pesare sulla situazione italiana molto più dell’apertura
internazionale e della competizione dei paesi del sud-est (prima le tigri asiatiche
negli anni novanta e poi la Cina)[47].
Ma conta anche la crescente flessibilità del lavoro, che lungi dal proteggere l’occupazione,
induce a disinvestire in efficienza e tecnologia, impoverendo il lavoro e
favorendo il posizionamento del paese su segmenti a basso valore aggiunto e
scarsa competitività. Dal Pacchetto Treu, del 1997, al Job Act del 2014, per
venti anni si è lavorato contro il posizionamento competitivo del paese, mentre
la macchina gerarchizzante europea prendeva velocità.
L’Italia è come noto
(fonte Ocse) il paese europeo che ha liberalizzato di più, mentre
probabilmente, era quello che doveva farlo di meno soprattutto in assenza della
possibilità di promuovere altre politiche industriali[48],
ed in presenza dello smantellamento della grande impresa pubblica, che era l’unica,
insieme all’università, a sua volta sacrificata, a fare ricerca industriale.
Insomma, gli autori, non
senza aver analizzato la politica di Monti, rivolta ancora una volta alla ‘distruzione
della domanda interna’[49],
concludono su questo punto in questo modo: “dal punto di vista dell’establishment
politico-economico italiano, il fatto che l’unione monetaria europea abbia
comportato la deindustrializzazione e ‘mezzogiornificazione’ dell’Italia – a beneficio
della Germania – e la retrocessione del nostro paese a un ruolo fortemente
subordinato all’interno della gerarchia di potere europea, come era perfettamente
prevedibile[50], è stato il prezzo da
pagare (non da loro ovviamente) per ‘spezzare le reni’ ai lavoratori italiani
ed espropriare la collettività tutta di una serie di beni materiali e
immateriali. In questo senso, il regime economico post-Maastricht può essere
accostato ad una forma di capitalismo comprador: un regime semicoloniale in cui
le classi dominanti di un paese si alleano con interessi stranieri in cambio di
rapporti di classe più favorevoli in patria” (p.238).
Uno strabiliante successo
sotto questo profilo. E una ripetizione, peraltro, di una mossa che le élite
italiane, in particolare del centro, ma anche del sud, compirono alla metà dell’ottocento[51].
La sinistra europea,
erede della lunga tradizione del movimento dei lavoratori, gioca quindi un
ruolo centrale nella transizione al neoliberismo, fornendogli una fondamentale
legittimazione ideologica e quadri, ma anche ‘coprendola a sinistra’ e quindi
rendendola molto più accettabile. Uno degli snodi messi in evidenza dagli autori
di questo complesso e per certi versi misterioso puzzle, è l’idea che la mondializzazione
non sia una scelta politica, derivante da una transizione egemonica multifattoriale,
ma un aspetto ineluttabile della modernità, ovvero dello sviluppo materiale e
tecnologico, destinato altrettanto inevitabilmente ad erodere la sovranità
economica e politica degli Stati-Nazione. Quindi che le politiche ‘keynesiane’
erano giunte al termine del loro ciclo vitale e, se perseguite, assumevano un
tono antistorico, e per ciò stesso reazionario. Si può verificare questa
posizione su un arco amplissimo, da Renzi a Negri[52],
per così dire, ovvero dal “nazionalismo in grande taglia” di molti, incluso
Prodi[53]
alla dissoluzione post-anarchica del potere nella ‘moltitudine’.
In qualche interprete più
lucido[54]
la cosa si collega con la liquidazione non solo delle conquiste dei lavoratori
degli anni sessanta e ottanta, ma con l’intera parabola del novecento,
riportando l’orologio della storia all’assetto del liberalismo ottocentesco all’ombra
delle cannoniere britanniche (sostituite dalle portaerei americane).
È chiaro che in questo
contesto, che ha notevole coerenza e profondità, il regime europeo realmente
esistente è vantaggioso per alcune élite il cui stile di vita e tenore dipende
strettamente dalla sua esistenza. Dunque un serio tentativo di riforma, molto
semplicemente, potrebbe portare direttamente alla sua fine.
Gli autori vanno oltre: a
loro parere “una riforma in senso democratico-progressivo dell’Unione europea e
in particolare dell’Unione monetaria è non solo impossibile in termini pratici –
come riconosciuto ormai anche da un numero crescente di economisti mainstream
quali Joseph Stiglitz, Paul de Grauwe e altri, nonché da analisi di istituti
europei come il Bruegel – ma anche inauspicabile dalla prospettiva del
controllo democratico dell’economia” (p.252).
La soluzione a questi
dilemmi è ricondotta in una mossa molto semplice: bisogna partire dal
riconoscimento che non sono affatto ‘i mercati’ a ricattare gli Stati
nazionali, ma casomai le oligarchie nazionali (incluso molte ex di sinistra) a ricattare
surrettiziamente i lavoratori e le classi popolari, determinando uno schema di
gioco nel quale queste possono solo perdere. Quindi bisogna compiere il
percorso inverso e rifunzionalizzare lo Stato nazionale.
Ridemocratizzare
e ripoliticizzare, dunque i
processi politici ed economici come condizione necessaria per ritornare alla
piena e buona occupazione. Quindi alla difesa ed espansione del welfare, la
redistribuzione della ricchezza, attraverso la rinazionalizzazione di molte
aree strategiche, etc[55].
Nella parte finale del
libro questa prospettiva è connessa con un quadro teorico macroeconomico che
parte dalla specifica caratteristica dei sistemi monetari ‘fiat’ (e dunque supera
l’obiezione posta da O’Connor al quale schema mentale sono ancora connesse,
dopo oltre quaranta anni, la maggior parte delle sinistre liberali): la
possibilità di emettere moneta senza vincoli ex ante. Uno Stato realmente
sovrano, in altre parole, non può mai finire
i soldi. Questa è, a ben vedere, la minaccia all’egemonia di chi i ‘soldi’
(che sono, per loro stessa natura, rapporti sociali e quindi di potere) li ha,
che si volle contrastare con la gabbia monetaria messa in piedi.
Se la capacità di spesa
dello Stato non dipende direttamente
dalle entrate fiscali i margini di libertà, pur non essendo infiniti, sono molto
più ampi di quelli che sono scolpiti nelle regole giuridiche dell’eurozona. Più
importante, non è inevitabile che se uno Stato
è ‘troppo’ indebitato siano i ceti lavoratori a doverne fare sempre le spese.
L’eventuale ‘monetizzazione’
della spesa pubblica, ad esempio a fini di riequilibrio sociale o di incremento
della produttività attraverso investimenti in infrastrutture, ricerca, istruzione,
porterebbe la politica monetaria a liberarsi dell’incantesimo friedmaniano (inclusa
la sua ossessione interessata per l’inflazione) per tornare ad essere “una
componente della politica economica generale del governo, subordinata al sostegno
di livelli occupazionali, al rafforzamento della protezione sociale e a una
distribuzione del reddito più equa”[56].
Appare evidente a chi tale prospettiva può apparire deleteria ed a chi
vantaggiosa.
Di seguito anche l’ossessione
per una bilancia commerciale in attivo (nella quale, cioè, si esportano beni,
vendendoli ad altri, e si acquisiscono capitali in misura maggiore rispetto a
quella in cui si importano beni, aumentando il tenore di vita, in cambio di
spesa diretta all’estero) sia automaticamente e sempre un danno è messa in
discussione. Chiaramente un disavanzo estero di bilancia commerciale è
accompagnato da un incremento di debito estero, ma quel che conta, caso per
caso, è piuttosto se cresce o meno la capacità del paese di servire questo debito.
Conta, cioè, per cosa si ha questo
disavanzo: se va a finanziare investimenti, come dice il FMI, con “un prodotto
marginale più alto del tasso di interesse che il paese deve pagare sulle
proprie passività estere” (p.304), o no. Qualora si dia, comunque, una crisi di
fiducia (sul modello delle ricorrenti crisi internazionali verso i paesi più
vari) sarebbe comunque meno doloroso (per le classi lavoratrici) lasciar svalutare
la valuta che non il lavoro.
Quest’ultima osservazione
è esemplare, perché appare del tutto evidente che si tratta di punti di vista:
è meno doloroso per le classi lavoratrici lasciar svalutare la moneta (e quindi
la capacità di acquisto di beni esteri) che non il lavoro, ovvero i salari. E’
del tutto opposto per i ceti internazionalizzati e cosmopoliti che dispongono
di ingenti risorse accumulate.
La tragedia della
sinistra è tutta, interamente, qui.
[1]
- In Ferdinand Braudel “Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di
Filippo II”,
[2]
- Tratteniamoci dal porli in gerarchia secondo un mani davvero compreso schema ‘struttura/sovrastruttura’,
anche i ‘modi di produzione’ sono incorporati nella società che li rende
possibili, come il ‘sentire collettivo’ ne è insieme espressione e causa, per
non parlare della tecnologia.
[3]
- Nel capitolo IX della prima parte del “Don Chisciotte”.
[5]
- Tolstoj, “Guerra e pace”, la battaglia è l’esito
della miriade di comportamenti individuali o della struttura progettata dai
capi nei loro conciliaboli?
[6]
- Il trentennio del dopoguerra è lontanissimo, in realtà, dall’essere
keynesiano. Si tratta di un punto di congiunzione altamente complesso di molte
dinamiche diverse, dal completamento del passaggio di potenza dall’Europa agli
Stati Uniti, al crollo della fiducia nella capacità autoequilibrante del
mercato, ma anche la condizione dei debiti e crediti internazionali lasciata
dalla guerra che, come scrive Kiran Patel in “Il New Deal”, “creò una complessa
rete di passività che investì l’intero pianeta e intrecciò i destini di
tantissimi paesi come mai era accaduto prima. Inoltre queste dinamiche
attribuirono all’America il ruolo senza precedenti di banchiere mondiale”
(p.36).
[7]
- Nel testo è proposta questa sintesi: il livello generale dell’attività
economica è determinato dalla ‘spesa aggregata’ (quantità di beni e servizi complessivamente
richiesta dai soggetti economici e dal governo) e quindi un livello inadeguato
determina un corrispondente insufficiente livello di produzione e inutilizzo
dei fattori produttivi, in particolare del lavoro. Si genera un “equilibrio di
sottoccupazione”. Infatti gli investimenti non sono funzione del risparmio (che
cresce in queste condizioni, anche se solo nel vertice della piramide sociale)
ma è il contrario, per risparmiare bisogna spendere. Insomma, “il governo ha
sempre la capacità di determinare il livello generale di spesa e di occupazione
di un’economia” e la piena occupazione diventa un credibile e perseguibile obiettivo
politico. Cfr John Maynard Keynes “Teoria generale
dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”.
[8]
- Che viene attribuita in modo semplificato al crollo del mercato azionario del
1929 e quindi dallo scoppio dell’enorme bolla creditizia che si era accumulata
nella ‘golden age’ degli anni venti.
[9]
- Riccardo Bellofiore, “La socializzazione degli investimenti: contro e oltre
Keynes”, in Alternative per il socialismo, aprile 2014.
[10]
- Michel Aglietta “Règulation ed crises du capitalisme”, Parigi, 1976.
[11]
- Il capitale deve crescere sempre per restare stabile.
[12]
- Cfr. Hyman Minsky, “Keynes
e l’instabilità del capitalismo”.
[13]
- Cfr. “Le
lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: il lavoro e la questione del
potere” e Bruno Trentin “La
città del lavoro”
[14]
- I cui passaggi furono il modello di equilibrio generale IS-LM di John Hicks e
la versione addomesticata di Samuelson.
[15]
- Di cui abbiamo letto “Liberi
di scegliere” e ”La
metodologia dell’economia positiva”.
[16]
- Milton Friedman, “Capitalismo e libertà”, 1962.
[17]
- Milton Friedman nella prefazione all'edizione del 1982 di "Capitalismo e libertà" (raccolta di
saggi degli anni cinquanta), scrive, in riferimento al cambio di clima politico
che ha fatto emergere il liberismo da lui difeso, che la disparità di
trattamento alle sue idee ("Capitalismo
e libertà" esce nel 1962 nel disinteresse generale, mentre “Liberi di scegliere”, che è inferiore
per sua ammissione, esce nel 1980 e diventa subito un enorme successo) non è spiegata
dalla differenza di qualità delle idee, né tanto o solo dai media (il secondo
andò subito in televisione), quanto dal "cambiamento del clima
intellettuale". A sua volta questo non è determinato da libri (come "La via
della schiavitù" o "La società libera" che cita come
esempi significativi), ma, come dice, “dall'esperienza concreta .. la Russia e la
Cina, un tempo la grande speranza delle classi intellettuali, avevano chiaramente
deluso. La Gran Bretagna, il cui socialismo di stampo fabiano aveva esercitato
un'influenza dominante sugli intellettuali americani, si trovava in una grande
situazione di crisi. Entro i nostri confini gli intellettuali, immancabilmente
fautori di uno Stato interventista e in gran parte sostenitori del Partito
Democratico, si erano sentiti traditi dalla guerra del Vietnam e, in particolare,
dal ruolo svolto dai presidenti Kennedy e Johnson. Molti dei grandi programmi
di riforma, in passato assurti al ruolo di veri e propri vessilli, come i
programmi assistenziali, l'edilizia popolare, il sostegno ai sindacati,
l'integrazione razziale nelle scuole, l'assistenza federale all'istruzione, la
'discriminazione positiva' , stavano dimostrando il loro fallimento. il resto
della popolazione era duramente colpito nel portafoglio dall'inflazione e da
una tassazione eccessiva. Sono questi fenomeni, e non la capacità di
convincimento delle idee illustrate in imponenti tomi teorici, che spiegano la
trasformazione che ha portato dalla schiacciante sconfitta del candidato
conservatore-libertario Barry Goldwater del 1964 alla travolgente vittoria di Ronnie
Reagan nel 1980, sebbene i due uomini avessero sostanzialmente lo stesso
programma e portassero il medesimo messaggio". Dunque il libro, che pure
ha scritto cercando di argomentare al suo meglio (che non è gran che), ha la
funzione "di mantenere aperte le possibili opzioni fino al momento in cui
le circostanze fanno sì che il cambiamento diventi necessario. Nelle organizzazioni
e nei meccanismi istituzionali privati, ma specialmente in quelli pubblici,
esiste un enorme grado di inerzia, una tirannia dell'esistente. Solo una crisi
(reale o percepita) può produrre il cambiamento. Quando la crisi si verifica,
le azioni che vengono intraprese dipendono dalle idee disponibili. Questa, io
credo, è la nostra funzione essenziale: sviluppare alternative alle politiche
attuali, in modo che siano a portata di mano fino al momento in cui ciò che
oggi è politicamente impossibile diventerà politicamente inevitabile".
[18]
- Una delle cose meno note, e pure a disposizione di una ricerca di pochi
secondi, è che l’inflazione è quasi perfettamente sincronizzata in tutto l’occidente,
dipendendo in grandissima parte da fattori strutturali mondiali, e non dipende,
se non in minima parte, da fattori interni, come l’indisciplina dei lavoratori,
le richieste dei sindacati, il sistema distributivo o la struttura industriale
e via dicendo.
[19]
- Termine proposto da Colin Crouch.
[20]
- Si veda anche per questa narrazione: L.Paggi, M.D’Angelillo, “I
comunisti italiani ed il riformismo”, Aldo Barba, Massimo Pivetti, “La
scomparsa della sinistra in Europa”, Jean-Claude Michéa, “I
misteri della sinistra”.
[21]
- James O’Connor, “La crisi fiscale dello Stato”.
[22]
- Come dirà Federico Caffè nella prefazione del 1979: “Vi sono casi in cui la
suggestione del titolo di un volume finisce per assumere un significato
largamente svincolato dal contenuto effettivo dell’opera. L’esempio più
illustre mi sembra costituito dall’ “Economia del benessere” di A Pigou,
espressione adoperata, nel corso del tempo con un’evasività e un’ambiguità di
connotazioni del tutto estranee alla minuziosa e precisa sottigliezza del
testo. Analogo pare essere il destino di questo libro di O’Connor. Il titolo è
divenuto, infatti, una specie di formula ad effetto che non riguarda esclusivamente
gli specialisti di problemi fiscali, ma chiunque si occupi, in genere, dell’azione
dei pubblici poteri nel campo economico.
[23]
- Challagan nel 1976, ben prima della Thatcher,
si trova a confrontarsi con quella inflazione galoppante e mondiale che è il
sintomo di molti mali e viene trainato dal raddoppio del prezzo del greggio nel
biennio 1973-74 (Guerra del Kippur e formazione del cartello dei produttori) e
con le conseguenze della tempesta avviata quasi dieci anni prima dalle
conseguenze dello squilibrio commerciale e finanziario americano, esposto per
70 miliardi (una delle ricostruzioni migliori delle conseguenze in Amato e
Fantacci “Fine della finanza”). La
sospensione della convertibilità del dollaro in oro, pilastro del sistema di
Bretton Woods, apre quindi la guerra delle valute e delle reciproche
svalutazioni competitive. L’oro arriva in poco tempo a moltiplicare per dodici
il suo valore e il dollaro perde il 30% sul Marco e il 20% sullo Yen, il
petrolio sale di dieci volte in otto anni (da 3$ nel 1971 a 30$ nel 1979), ma
non solo, la bauxite del 165%, il piombo del 170%, lo stagno del 220%, l’argento
di dieci volte. Questo aumento delle materie prime, in termini del potere di
acquisto delle monete e in termini reali (per effetto di mutati rapporti di
forza e anche della decolonizzazione che aveva preso tutto il ventennio
precedente) porta un aumento dei costi di produzione, dell’inflazione e quindi
anche della disoccupazione. Agisce, cioè, come potente motore di
ridisciplinamento; contribuisce anche la politica monetaria imposta, come
surrogato di altri mezzi di offesa, da Volcker a partire dal 1978 (viene
nominato da Carter) il quale avvia coscientemente “una disintegrazione
controllata nell’economia mondiale”, come dirà, innalzando i tassi della FED e
lavorando per contenere i costi della manodopera. Challagan
sceglie di ascoltare chi indica la necessità di lasciare i vecchi obiettivi di
politica economica e sociale, imperniati sulla piena occupazione e la giustizia
sociale, per concentrarsi invece sulla lotta alla inflazione che presuppone
l’abbandono della logica keynesiana. Nello scontro culturale che seguì con
l’ala sinistra del Partito Laburista (rappresentata dall’indimenticato Tony
Benn) una “Alternative Strategy” fatta di controllo delle importazioni
per dare il tempo ad appropriate politiche industriali di condurre alla
trasformazione della struttura produttiva, riducendo l’enorme deficit
commerciale del paese, perde e viene accantonata in favore di un approccio
deflazionario che abbandona le classi lavoratrici al loro destino. L’esito
sarà, nel “Winter of discontent” della base elettorale del partito, quindi il
disastro del 1979 e la vittoria della Thatcher.
[24]
- Si veda “Francois
Mitterrand e le svolte degli anni ottanta”.
[25]
- Nel 1973, si era avuto sia la feroce
repressione degli esperimenti cileni (il cui impatto, quale monito, fu
rilevante almeno in Italia) sia la repentina caduta nel 1974 del governo
socialdemocratico di impronta keynesiana di Willy Brandt in Germania e la sua
sostituzione con il più “Atlantico” governo di Schmidt. In Italia, intanto, i
tentativi del PCI di avvicinarsi alle componenti “più progressiste” della
Democrazia Cristiana, e di accreditarsi come forza responsabile, incontrano la
dura opposizione di La Malfa e Guido Carli, che negoziano un prestito al FMI
per indurre un vincolo esterno, rappresentato dalla “Lettera di impegni” che
obbligava a politiche fortemente deflattive. Le pressioni economiche indotte
dall’esterno sono utili ad impedire ogni politica di redistribuzione, di
espansione e piena occupazione, che dal punto di vista dell’establishment
economico-politico al governo sarebbe solo utile a spingere ulteriormente i
prezzi, quindi ridurre i profitti e dunque accumulazione del capitale e quindi
investimenti. A seguito di questa strategia il PCI fu messo davanti al fatto
compiuto; ad esempio, nella visita in USA il 6 e 7 dicembre 1976, Andreotti
mette sul tavolo del FMI e del Tesoro un denso documento preconcordato di 54
pagine (oggi nell’Archivio Andreotti) che articola una politica di
“risanamento” fortemente basata su incremento della tassazione e contenimento
delle pressioni sociali e sindacali. La manovra mette i comunisti nelle condizioni
di dover accettare “sacrifici senza contropartite”, seguirà “l’affare Moro” e
quindi l’adesione allo SME.
[26]
- Seduta del 2 dicembre 1948.
[27]
- In occasione dell’accordo per la costituzione del Consiglio d’Europa.
[29] - Come dice: “So che a
questa nostra impostazione si è fatta e si fa questa obiezione: ma
allora, voi socialisti avete abbandonato l’internazionalismo, siete diventati i
difensori e custodi gelosi della sovranità dello Stato, che è una concezione
ormai superata? Ebbene, no: noi siamo fermi più che mai nella nostra
posizione internazionalistica: noi siamo sempre perfettamente coerenti con la
nostra concezione. Noi sappiamo che Marx scrisse: «gli operai non hanno
patria», ma Marx ci insegnò altresì che il proletariato deve
acquistare la sua coscienza nazionale e che esso l’acquista a misura che esso
si emancipa, a misura che esso strappa dalle mani della borghesia l’esercizio
esclusivo del potere politico e si presenta sulla scena della storia come
classe che esercita la pienezza dei suoi diritti. Perciò l’internazionalismo
del proletariato si fonda sull’unità e sulla solidarietà di popoli in cui tutti
i cittadini, attraverso l’abolizione dello sfruttamento di una società classista,
conquistano la propria coscienza nazionale.
In questo senso, oggi, la lotta che combattiamo sul
terreno della lotta di classe, la lotta per l’emancipazione del proletariato è
un tutt’uno con la lotta per difendere il nostro paese dalla invadenza del
capitalismo americano. I lavoratori
che lottano, lottano congiuntamente contro lo sfruttamento di classe e contro
lo sfruttamento che di essi pretende fare il capitalismo americano, il quale
vuole essere associato al capitalismo nostrano nella spartizione dei profitti
ottenuti attraverso lo sfruttamento delle classi lavoratrici.
Noi sappiamo che in questa lotta il proletariato
combatte insieme per due finalità e che in questa lotta esso acquista
contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale ponendo le
basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi che
non potrà essere che socialista! In altre
parole, il movimento operaio si inizia in un’epoca in cui l’operaio è quasi
posto al bando della società, in cui l’operaio è sfruttato fino al punto
di essere praticamente escluso da ogni diritto da una classe che in questo
modo gli nega veramente l’appartenenza alla patria, in quanto fa dello Stato e
della nazione uno strumento della sua politica e uno strumento del suo dominio
e del suo sfruttamento, ma l’evoluzione del movimento operaio porta il
proletariato ad inserirsi sempre più vivamente nel tessuto della vita nazionale
per strapparne il monopolio alla borghesia, e fa coincidere sempre più la lotta
per l’emancipazione, la lotta di classe con l’acquisto della coscienza
nazionale, nel senso che toglie alla nazione il carattere di espressione
esclusiva della classe dominante”. E dunque, di seguito: ““Ma così
come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla in comune con il
nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla in
comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale
si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie
alla sovranità nazionale.
L’internazionalismo proletario non rinnega il
sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che
permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di
oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è
rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione
straniera”.
[30] -
Si veda Sergio Cesaratto, “Sei
lezioni di economia”.
[31]
- Si può vedere la franca dichiarazione di Spence, al termine del suo libro, “La
convergenza inevitabile” o più di recente di Milanovic in “Ingiustizia
globale”.
[32]
- Si veda, ad esempio, l’intervista
di Luciano Lama nel 1978 ed il post “Sacrifici
senza contropartite, il biennio 1976-78”.
[34]
- A rigore in termini keynesiani non esiste, e non può esistere una spesa
pubblica improduttiva. Ogni spesa è il reddito di qualcun altro, e comporta un
qualche effetto di moltiplicazione e di attivazione.
[35]
- Come noto al centro dell’azione dell’ultimo Pci, in particolare dopo il
fallimento del tentativo di andare al governo con il “compromesso storico” e
gli anni del cosiddetto “pentapartito”.
[36]
- Il Pci vota in modo contrari all’adesione allo Sme, anche se in un complesso
contesto di trattativa e in seguito di rottura con il governo. Sono i mesi nei
quali fallisce il “compromesso storico” e viene prima rapito e poi ucciso Aldo Moro.
[37]
- Si veda “Beniamino
Andreatta, il divorzio”.
[39]
- Si può leggere, per un quadro generale
della politica tedesca del dopoguerra, Massimo d’Angelillo, “La
Germania e la crisi europea”.
[40]
- Chi ha memoria può riandare ai toni trionfali con i quali, sotto il governo
Craxi, l’Italia, sentendosi in crescita costante, si appresta a superare l’Inghilterra.
[41]
- La cui versione pop è il “casta e corruzione” dei fortunati libri dei primi anni
duemila.
[42]
- Appunto con la moneta unica.
[43]
- E quindi impolitica.
[44]
- Una sorta di istituzionalizzazione della fuga di capitali e quindi di stretta
dipendenza delle scelte dalla necessità di frenarla e di attrarne, piegandosi
ad ogni ditkat.
[45]
- Attraverso la liquidazione dell’Iri, e più in generale la stagione delle privatizzazioni
degli anni novanta, giustificata apparentemente con la necessità di ridurre il
debito pubblico, in realtà per ampliare lo spazio del mercato, presunto più
efficiente.
[46]
- Attraverso reiterate riforme sempre in direzione di promuovere la
flessibilità, e quindi il precariato.
[47]
- Cfr Antonella Stirati, “Distruzione
dei ceti medi e redistribuzione del reddito”, in Micromega 4/2017.
[48] -
Politiche che paesi virtuosi (e ‘protestanti’) come la Germania non hanno mai smesso
di promuovere, con apprezzabile senso pratico.
[49]
- Al fine di riportare la bilancia commerciale in attivo per la via più breve,
la contrazione delle importazioni e dunque del tenore di vita degli italiani, anziché
per quella più sana, l’avvio di un pacchetto serio di politiche strutturali
rivolte a favorire ricerca, innovazione, investimenti pubblici e privati.
[50]
- E previsto, sin dagli anni settanta, anche dai successivi cantori del nuovo
ordine: cfr. “Eugenio
Scalfari, 1978, ‘parole al vento’ il dibattito sullo Sme”.
[51]
- Si veda, ad esempio, “La
questione dell’unità e della nazione”.
[52]
- Sul quale gli autori spendono alcune pagine critiche.
[54] - Come, ad esempio, Padoa-Schioppa
la cosa si prolungava fino a riconoscere che il welfare doveva essere
abbandonato e ripristinato l’assetto di classe e la divisione del lavoro dell’ottocento,
si veda “Tommaso
Padoa-Schioppa, interventi prima e dopo la crisi”, partendo da una diagnosi
del keynesismo come ‘eccesso’ e della globalizzazione come ‘frutto della
tecnologia e di impulsi umani che si possono disciplinare, non sopprimere’, nei
suoi interventi legge lo Stato europeo come una necessità per affrontare i
problemi ‘mondiali’. In un giustamente famoso intervento del 2003 sul Corriere
della Sera ebbe a dire che bisognava “lasciar funzionare le leggi del mercato,
limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro
funzionamento e dalla pubblica compassione”, e, in riferimento specifico alle
riforme di Schroder (che aveva tenuto il discorso di lancio dell’Agenda 2010,
davanti al Bundestag) definisce il suo campo di azione in questo modo:
pensioni, sanità, mercato del lavoro, scuola. In tutti questi settori “attenuare
quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato
l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci
della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.
[55]
- L’elenco è a pag. 284-5
[56]
- Massimo Pivetti, Micromega 4/17, cit. pag. 293
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